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HarmoS: accordi, disaccordi e indifferenza

Quasi mezza Svizzera ci applaude. L’altra metà non si sa. Ci voleva la ratifica di dieci cantoni per far decollare HarmoS, l’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria e il Gran Consiglio ticinese, appunto, ha dato il suo placet il 17 febbraio. La raccolta di firme per sottoporre il voto del parlamento al popolo, lanciata dal «Noce» del sindaco di Bellinzona insieme ai giovani UDC e al sindacato studenti e apprendisti, è stato sepolto da una sonora risata: un migliaio le firme raccolte, contro le settemila richieste, senza che la piazza riuscisse minimamente a scaldarsi. Ora, dunque, in quattro cantoni svizzero-tedeschi, in quattro cantoni romandi, in Vallese e in Ticino l’accordo, che prima o poi dovrà pur diventare nazionale, entrerà nella sua fase operativa, anche se sul lungo termine è difficile ipotizzare come sarà possibile mettere d’accordo tutti i ventisei cantoni e semi-cantoni senza troppo stemperare i contenuti dell’intesa. Al momento attuale già tre cantoni e mezzo l’hanno respinta in votazione popolare; si voterà invece a Berna e a Zugo, mentre a Friborgo il termine per la raccolta delle firme è scaduto nei giorni scorsi. Mancano comunque all’appello in nove, tra cantoni e semi-cantoni: come si vede, per intanto imperversa il disaccordo. Viene poi da sorridere a immaginare cosa farà la Confederazione quando tutti si saranno espressi e sarà chiara la geografia degli integrati e degli autonomisti: perché è giusto ricordare che la Berna federale potrà obbligare i cantoni riottosi ad aderire alle convenzioni intercantonali, anche se occorrerà far sì che la nuova zuppa di Kappel non risulti indigesta e annacquata, rischiando di vanificare l’ambizioso patto.
Fino ad oggi HarmoS non ha infiammato più di tanto noi ticinesi. Già dai blocchi di partenza abbiamo ottenuto qualche favore, come la possibilità di mantenere la nostra scuola elementare di cinque anni e la media di quattro. L’altra Svizzera italiana, quella grigionese, si è già tirata fuori, a rimorchio del suo cantone, che ha bocciato l’accordo in votazione popolare a fine novembre. Per chi ha aderito ad HarmoS ci sono per ora solo due paletti ben chiari: che la scuola dell’obbligo durerà due anni in più e che la data di riferimento per il debutto sarà il 31 luglio per tutti (o, almeno, per chi avrà deciso di far parte dell’Elvezia armonizzata). Si tratterà ora di capire in che misura il nostro cantone, che in pratica è anche regione linguistica a sé stante, sarà in grado di seguire i dettami di HarmoS senza uscirne con le ossa rotte e magari guadagnando in qualità. Dietro l’angolo ci sono la definizione di un piano di studio e gli standard nazionali di formazione. A differenza delle altre regioni linguistiche noi non dovremo andare alla ricerca di nuovi accordi e di altri compromessi in vista del piano di studio: si può immaginare che ci terremo i nostri programmi e amen. Con la trasformazione della scuola dell’infanzia da facoltativa a obbligatoria, sarà tuttavia interessante capire da una parte come il carattere vincolante dell’inizio a quattro anni sarà interpretato e attuato; dall’altra come gli attuali «Orientamenti programmatici per la scuola dell’infanzia» si integreranno a pieno titolo nel piano di studio ticinese, affinché l’obbligatorietà votata dal parlamento sia poi in grado di convincere anche quelle famiglie che storcono il naso nel vedersi i figli sottratti precocemente dallo Stato.
Quanto agli standard nazionali di formazione per la scolarità obbligatoria, che riguardano sia le competenze da acquisire (standard di prestazione), che i contenuti di alcuni settori della formazione, si sa che già ora sono in atto degli scontri accaniti tra le due altre aree linguistiche, ognuna delle quali seriamente intenzionata a promuovere la proprie scelte precedenti. Come si posizionerà il Ticino tra questi due fuochi incrociati è difficile prevederlo, cullando però la speranza che i nuovi modelli nazionali rappresentino degli strumenti per pilotare il miglioramento costante della scuola e non si limitino a legittimare i risultati esistenti, che – PISA insegna – non sempre hanno destato entusiasmo.

Scolarizzazione precoce tra obbligo e facoltà di scelta

HarmoS sta irritando molti svizzeri. Da qualche mese in diversi cantoni si sono aperte le danze attorno all’Accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria – HarmoS, appunto – approvato un anno fa dalla Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica educazione (CDPE). A far discutere, per ora, è l’anticipo dell’età per iniziare la scuola obbligatoria, prescritto a quattro anni. L’iter per far sì che l’accordo vada in porto è ancora lungo e non certo privo d’intoppi. Intanto i diversi parlamenti lo dovranno approvare o respingere. Ma ovviamente dietro ogni voto vi sarà spesso in agguato il referendum. Ad esempio alcuni cantoni dovranno presto recarsi alle urne per assecondare il proprio parlamento, o per sconfessarlo.
Nel nostro cantone sembrava che l’anticipo dell’età obbligatoria per iniziare la scuola non dovesse porre problemi, dato che da noi c’è la possibilità già da decenni di iniziare anche prima, a tre anni. Tant’è vero che pressoché tutti i bimbi di quattro e cinque anni frequentano la scuola dell’infanzia, mentre quelli di tre anni, a volte non accolti per motivi di spazio, raggiungono in ogni caso percentuali di tutto rispetto. Eppure da qualche mese anche in Ticino ha cominciato a circolare qualche perplessità. Ma come – sembrano dire gli scettici – già lo Stato sottrae i figli alle famiglie a sei anni, e ora si vogliono addirittura aggiungere altri due anni di vincolo statale? Sembrerebbe insomma che questo continuo allungare le mani sui bambini per toglierli sempre più presto alle famiglie sia vissuto, almeno da taluni, come una pericolosa ingerenza nelle competenze dei genitori, che si vedrebbero sempre più impotenti nelle scelte educative dei propri figli.
Per certi versi il dissenso, detto così, fila via liscia come l’olio. È pur vero che con sempre maggiore insistenza molti chiedono a gran voce che la cellula primaria della nostra società – la famiglia, appunto – torni a rivestire quel ruolo fondamentale per la costruzione di un sistema di valori ispirato alla migliore tradizione democratica (e per taluni anche cristiana). E non è certo allontanando i figli in tenerissima età dalla famiglia che si responsabilizzano padri e madri. Poi, dall’altra parte, numerosi studi in materia di educazione dicono che l’istruzione sempre più precoce è un importante investimento sul futuro di molti potenziali scienziati e letterati. Mancano comunque, almeno sino ad ora, prove sicure.
Ma non si può nemmeno tralasciare il fatto che negli ultimi decenni l’educazione di piccoli e grandi è passata di mano: dalle scelte consapevoli di genitori in chiaro sul loro ruolo educativo, il testimone si è trasferito alla TV e ai media elettronici in generale. Da quando i bambini sono diventati un soggetto commerciale di enorme rilevanza economica, sono aumentati a dismisura, e in modo assolutamente incontrollato, i canali televisivi, coi loro quiz, i giochini scemi che possono arricchirti in un attimo, i telefilm insulsi. E, naturalmente, i maghi della persuasione occulta si sono moltiplicati come insetti da laboratorio genetico.
Che fare, dunque? Certamente vi saranno famiglie che possono fare a meno della scuola per crescere bene i loro figli e per insegnar loro l’arte di comunicare sin dalla più tenera età. Per loro lo statu quo è il migliore dei mondi possibili: se voglio posso mandare mio figlio all’asilo, ma non devo. Nel contempo – detto di transenna – crescono, anche da quelle stesse famiglie, le richieste di potenziamento delle strutture scolastiche di accoglienza (vedi nidi dell’infanzia, servizi di refezione, doposcuola): e a questo livello pare lampante almeno una buona dose di incoerenza. Eppoi: siamo sicuri che la scuola sia in grado di opporsi allo strapotere dei massmedia, della creazione di bisogni fittizi, del consumo sempre più massiccio dell’utile e dell’inutile? Guardando l’evoluzione degli ultimi trent’anni non si direbbe proprio.

Scuola e HarmoS: ma perché nessuno ci copia?

Mi sa che per un po’ si sentirà parlare di HarmoS, il concordato sull’armonizzazione della scuola obbligatoria promosso dalla Conferenza svizzera dei Direttori cantonali della Pubblica Educazione e attualmente in consultazione. HarmoS – come è forse noto – si propone essenzialmente di omologare gli esistenti 26 sistemi scolastici, affinché anche il semplice trasloco di una famiglia da Basilea città a Basilea campagna non rappresenti più un ostacolo penalizzante se si hanno figli nella scuola dell’obbligo. È subito evidente che il Ticino rischierà di ritrovarsi con un sistema scolastico più o meno stravolto, in virtù di pratiche e strutture molto più popolari e diffuse nel resto della Svizzera rispetto a noi – e, soprattutto, nei cantoni che contano. Insomma: in piena globalizzazione e con una popolazione assai mobile, non è più pensabile una scuola tanto frammentata e strutturalmente diversificata. Nel 1970 i cantoni avevano già stretto un altro accordo intercantonale – invero ben più blando – al quale, tuttavia, il nostro cantone non aveva aderito, insistendo in tal modo sulla sua diversità. Lo scorso 21 maggio, però, il popolo svizzero ha accolto a larghissima maggioranza una riforma costituzionale in materia di formazione: rispetto ad HarmoS, ciò significa che la Confederazione potrà costringere qualsiasi cantone riottoso a rassegnarsi e ad accettare l’accordo intercantonale, una volta che una decina di cantoni vi avranno aderito.
Il direttore del nostro Dipartimento ripete da sempre, e l’ha ribadito il 18 agosto scorso in occasione di un pomeriggio di studio promosso dal DECS, «… che noi ticinesi abbiamo l’interesse ad aderire […] all’accordo sull’armonizzazione della scuola obbligatoria a condizione che non vengano stravolte le conquiste della scuola pubblica ticinese», per evitare di «compiere passi indietro e rinunciare a conquiste costruite faticosamente sull’arco di decenni». Interesse di adesione a parte, la pensano un po’ tutti come Gendotti: la nostra organizzazione scolastica, seppur perfettibile, va bene così com’è. È fuor di dubbio che la ricetta miracolosa non esiste. Restando alla Svizzera, si constatano differenze anche importanti a diversi livelli. Eppure è impossibile dire se, in uscita, gli argoviesi imparano più dei giurassiani, seppure un po’ distanziati dagli appenzellesi dell’Innerrhoden. Anche perché il sistema scolastico di ogni cantone è stato forgiato da tradizioni, localismi, convenienze politiche, congiunture storiche ed economiche…
Gli scettici di oggi appartengono a quelle generazioni che, dopo il primo uomo sulla luna ma prima dell’apparizione del PC, hanno dato vita a quel grande cambiamento che si chiama «Scuola media»: dopo innumerevoli polemiche – perché anche allora non mancarono le voci ostili – nel 1974 il Gran Consiglio votò la nuova legge, che non rappresentò soltanto un cambiamento de jure. Fu necessario edificare nuove scuole, rivedere diverse strutture (ginnasio e scuola maggiore a parte, qualcuno ricorda il liceo di tre anni, l’anno di avviamento professionale o la scuola di economia domestica?), aggiornare gli insegnanti e rifare da cima a fondo tutto l’impianto legislativo. Eppure il Ticino ne uscì col petto in fuori, nella consapevolezza di aver fatto una riforma opportuna e progressista: quella di oggi è la scuola che noi cinquantenni e sessantenni abbiamo costruito per le generazioni seguenti. Quando questo concordato diverrà operativo, invece, noi saremo tutti in pensione, o quasi.
Faccio parte anch’io della schiera dei sospettosi. Anch’io ho il complesso del balivo. Anch’io mi sento di difendere questo sistema scolastico, che molti lodano, ma che nessuno copia, come ha ironizzato il capo della divisione della scuola Diego Erba durante la citata riunione del 18 agosto. Ma forse i giovani che oggi disertano le giornate di studio proposte dal DECS – quei giovani colleghi che sono ancor fuori dalle stanze dei bottoni, anche perché momentaneamente ci siamo noi – sapranno escogitare le giuste risposte agli stimoli di HarmoS: per costruire una nuova scuola degna della nostra tradizione (e nella speranza che a nessuno venga in mente di restaurare il passato, ripescando ginnasio e scuola maggiore). Allora – si parla del 2020 o giù di lì – noi dei ’40 e dei ’50 avremo levato le tende. Da saggi pensionati potremo trascorrere la quiescenza lagnandoci dei bei tempi andati, proprio come hanno fatto i colleghi che ci hanno preceduti nella loro battaglia contro la scuola media, annessi e connessi. Nel frattempo è difficile immaginare che Berna avrà inviato le sue truppe su Bellinzona per farci rispettare gli accordi che non abbiamo voluto o saputo girare a nostro vantaggio: con l’originalità di pensiero di cui ci piace vantarci.