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Scuola, sulle vie difficili della “democratizzazione”

Negli ultimi trent’anni anche il Cantone Ticino ha imboccato la strada della democratizzazione degli studi, attuata con l’istituzione della scuola media, la proliferazione dei licei, un incisivo intervento sul piano dell’aiuto allo studio e altre misure meno vistose. Oggi, dunque, tutti possono “andare avanti a studiare”, tanto che quasi nessuno, giunto ai fatidici quindici anni, chiude definitivamente con le aule scolastiche, emarginato nelle campagne o relegato in qualche cantiere edile a mescolar la malta. Parallelamente si è assistito a un lento quanto inesorabile declino del tessuto culturale di molti adulti e innumerevoli giovani, unito – ma poteva essere altrimenti? – a un preoccupante calo delle competenze linguistiche. Colpa della democratizzazione, sembrano dire i detrattori più accaniti dell’attuale scuola dell’obbligo, ch’è fatta di scuola media, ma anche di scuola elementare.
Così il mio recente dissenso verso la proposta britannica di formare le classi sulla base del quoziente intellettivo è stato liquidato da qualcuno con un chiaro gesto di condanna dei pedagogisti, rei di sostenere che tutti possono imparare e che ritengono ancor oggi come sia possibile insegnare bene anche a gruppi eterogenei, senza nemmeno dover abbassare dogmaticamente il numero massimo di allievi per classe. In effetti il processo di democratizzazione degli studi si è rivelato in un gran numero di casi niente più che una democratizzazione dei diplomi. Stando alle più recenti inchieste internazionali, i nostri quindicenni non sanno più leggere, credono che Bach sia un deodorante e sono dell’avviso che Leopardi sia un eccentrico tipo di Rancate; però farfugliano diverse lingue straniere, e si sentono così dei veri cittadini del mondo. Voler sostenere che la situazione sia meno deplorevole di così sarebbe un modo assai disinvolto per atteggiarsi a struzzo. Ma non è nemmeno possibile – neanche in tempi di globalizzazione e di generale spostamento a destra della politica – gettare dalla finestra il bambino con l’acqua sporca per invocare la restaurazione di sistemi di selezione scolastica che non servirebbero a nessuno.
Diciamo allora che occorrerebbero programmi scolastici più chiari ed essenziali: poche cose ma difficili, come ama ripetere un mio amico direttore di scuola. Invece mano a mano che il tempo passa, la scuola tende sempre più a trasformarsi in un mammifero dalle mille poppe, che dispensano un po’ di tutto, nella futile smania di rispondere agli echi delle innumerevoli sirene che si aggirano (anche) nelle nostre contrade e secondo le quali la scuola dovrebbe insegnare bene le lingue (no, il latino no…), manifestare un alto profilo nelle materie scientifiche e logico-matematiche, educare alla cittadinanza, al sesso, al codice della strada, all’igiene alimentare e all’ecologia. Naturalmente servirebbero anche quel poco di italiano, di storia e geografia, di ginnastica e musica: ma non è in questi ambiti che si gioca il futuro dei cittadini. Il risultato è una scuola che ricorda più una fabbrica di saponette che un luogo di cultura.
A ogni buon conto non è separando i bravi studenti dai cattivi – questo lo si fa già – che si riuscirà a imprimere una vivace svolta all’attuale tendenza al minimalismo, soprattutto se persisteremo nel dare per scontato che tutti i maestri e i professori che popolano le nostre aule sono competenti, bravi, capaci, didatticamente irreprensibili e zelanti come missionari. Nel corso degli anni lo Stato si è dotato di strumenti molto minuziosi per impedire qualsiasi verifica individuale della qualità dell’insegnamento e per intervenire qualora si scovasse anche un solo docente infingardo o pacchianamente incapace. In tutta evidenza molte altre ancora sono le cause del disagio – e le differenze attitudinali tra allievi sono di sicuro la causa meno inquietante, anzi. Ma il cocktail di obiettivi confusi e intangibilità dei macchinisti ha un retrogusto amaro; tanto alla cassa passano sempre gli stessi discoli: quelli che rompono, chi se non loro?

I ghetti scolastici del nuovo secolo

La scuola ha sempre avuto la mania di voler raggruppare i suoi allievi sulla base di un qualche elemento distintivo, nel tentativo, sempre andato a vuoto, di ottimizzare l’insegnamento. Praticamente sin dalla sua nascita c’è sempre stato qualcuno – studioso dei problemi dell’educazione o semplice governante – che ha messo a punto qualche marchingegno organizzativo col velleitario obiettivo di riuscire a insegnare di più e meglio. Così, ad esempio, a fine ’800 c’è stato chi ha ipotizzato di formare le classi a partire dal segno astrologico, nutrendo la speranza che i tori si sarebbero trovati più a loro agio restando tra pari, piuttosto che immischiarsi con i pesci o con le vergini. Chi non ha più trent’anni ricorderà che per lungo tempo le classi – almeno nei centri, dove il giochetto era fattibile – erano formate per sesso e per età, mentre a tutt’oggi l’anno di nascita la fa da padrone un po’ ovunque.
Ma non bisogna credere che il concetto sia assodato. Basti pensare che praticamente ogni anno c’è chi chiede a gran voce la diminuzione del numero di allievi per classe – mantenendo l’omologazione anagrafica, beninteso! – come unica panacea per spuntarla sulla smisurata gamma di attitudini che può convivere in una stessa classe, in barba agli anni di nascita. Con ritmo crescente, poi, c’è chi s’inquieta per i cosiddetti allievi superdotati (oggi li chiamano “plusdotati”, per distinguerli da quegli altri…), ragazzi talmente intelligenti e sagaci che se restassero ammassati con coetanei di ordinario ingegno rischierebbero di rimbecillire in un batter d’occhio, quasi che lo scarso acume fosse una malattia contagiosa e non il prodotto di innumerevoli concause – non ultimo l’ambiente familiare, sociale e culturale in cui si cresce.
L’ultima brillante scoperta per comporre le classi scolastiche in base a qualche targhetta viene dalla Gran Bretagna, dove il governo ha fatto una pensata che non è proprio nuova di zecca, ma che nel generale contesto di confusione in cui versano molti sistemi scolastici potrebbe sembrare il memorabile uovo di Colombo: «Dividiamo gli allievi in base alla loro intelligenza – devono essersi detti i responsabili britannici dell’educazione – e risolveremo in un sol colpo tutti i problemi della scuola: anche quelli più ancestrali». Patapunfete! Coi tempi che corrono ci voleva anche questa, come se non bastassero le mene quanto meno xenofobe che percorrono da cima a fondo un po’ tutti i paesi occidentali. Certo, perché chi crede per davvero che l’estrazione sociale non abbia nulla da spartire con la riuscita scolastica – giacché di questo si tratta: l’intelligenza e la competenza sono purtroppo un’altra cosa – troverà nella proposta anglosassone quanto di meglio sa offrire il supermercato dell’istruzione.
Sia chiaro che scuole siffatte non rendono un favore al Paese, ma si limitano a creare l’agognato Lebensraum alle nuove aristocrazie con la puzza sotto il naso, omettendo che la capacità intellettiva – quella vera, che ha poco da spartire con la riuscita scolastica e coi test d’intelligenza – è come il patrimonio genetico: lo sanno tutti che i matrimoni tra consanguinei aumentano i rischi di grave menomazione, perché il genoma ha bisogno di continue rivoluzioni per rafforzarsi e migliorare. Così funziona l’educazione – e bene farebbero i governi a tendere alla massima eterogeneità nell’organizzazione delle loro scuole, che a differenza di un tempo non ruotano più attorno alla figura del precettore: si cresce con gli altri, attraverso il confronto e la collaborazione, e si imparano pure le regole della civile convivenza.
Separare i primi della classe dai somari è solo un modo losco per creare i nuovi ghetti del XXI secolo.

Quando si contano gli allievi nelle classi

Puntuale come una grippe, con i primi tepori primaverili è arrivata l’ammuffita questione del numero di allievi per classe, che i maestri ritengono da sempre troppo elevato. Quand’erano quaranta se ne volevano trentacinque – e chi ha frequentato le classi di quaranta allievi tende oggi a divinizzare il suo maestro, perché quelli erano tempi e quelli sì ch’erano maestri.
Ne dà notizia l’ultimo numero del Risveglio, l’organo della Federazione dei Docenti Ticinesi (sarebbe poi l’associazione dei docenti pipidì), che ha in Agostino Savoldelli – già fervente sostenitore del sussidio alle scuole private, dove notoriamente le classi hanno effettivi esagerati… – uno dei suoi uomini più acuti. Quest’anno l’influenza è salpata da Arbedo-Castione, dove insegna Savoldelli e dove gli insegnanti hanno dato l’allarme e, a quanto scrive La Regione del 7 maggio, hanno scritto un’accorata [sic] lettera a Gabriele Gendotti, chiedendo che sia adottata “urgentemente […] una diminuzione sostanziale del numero massimo di allievi per classe”.
I motivi della richiesta sono più o meno i medesimi che gli epidemiologi avevano già reperito l’ultima volta che la tutto sommato innocua influenza aveva tormentato il nostro Cantone. La lettera cita tre fattori scatenanti. Il primo è “un grosso [doppio sic] aumento di allievi stranieri” che “si integrano nelle nostre scuole e contribuiscono all’arricchimento culturale”, ma che “hanno bisogno di un’attenzione particolare”. Il secondo è relativo ad una modifica dei programmi, che sono effettivamente cambiati, ma per colmo di sventura l’ultima revisione risale a diciotto anni fa. Il terzo, infine, parte da un presunto disorientamento di alcune famiglie sui metodi di educazione dei figli e sul modo di affrontare problemi particolari, che causano “un aumento di bambini con difficoltà di adattamento, di comportamento, di educazione che non sono facilmente gestibili in classe”.
Naturalmente Diego Erba, direttore della Divisione della scuola del DIC, a precisa domanda postagli da non so più quale quotidiano ticinese, ha precisato che la media cantonale di allievi per classe è attestata attorno a venti, facendo finta di non sapere che in giro per il Cantone vi sono sezioni ridotte all’osso, mentre le classi di 24 o 25 sono assai copiose, indipendentemente dalle qualità specifiche delle popolazioni scolastiche locali. Giocare a rimpiattino col numero massimo di allievi per classe è, in fondo, un modo poco raffinato per evitare il nocciolo della questione, che risiede in parte in ciò che la scuola elementare dovrebbe insegnare e in parte nella stessa struttura organizzativa della scuola, ancor sempre basata sul trinomio «un maestro, un’aula, una classe». Cerchiamo di capirci: non è vero, per cominciare, che esiste un numero adeguato di scolari per far scuola (bene), ma ne esistono più d’uno. Un dettato può essere assegnato indifferentemente a tre o a trenta allievi, così come il numero di allievi è irrilevante per ascoltare una storia raccontata dal maestro o per seguire un documentario. Viceversa, aiutare un allievo in difficoltà a superare un ostacolo linguistico o matematico presuppone un impegno più individualizzato.
Oltre a ciò il numero di allievi per classe rappresenta una media, che come tale dice tutto e tace su tutto. Ad esempio, in un istituto di duecento allievi potremmo avere sette sezioni più che adeguate – 17/18 allievi per classe – e tre sezioni numericamente spropositate. Far fronte al problema ritoccando il numero massimo di allievi per classe, invece, si traduce in un assurdo aumento dei costi, in un’altrettanto insensata diminuzione del numero minimo di allievi e, soprattutto, assicura che si continuerà sulla strada dell’omologazione delle pratiche pedagogiche odierne, anche laddove la realtà contraddice platealmente talune enunciazioni di principio.
Nel caso dell’esempio appena citato, quindi, basterebbe che i maestri collaborassero concretamente tra loro – e con i loro colleghi che insegnano le cosiddette materie speciali – per far variare il numero di allievi, adattandolo alle necessità sostanziali e considerando di volta in volta che certe pratiche presuppongono gruppi di allievi omogenei, altre danno risultati migliori grazie all’interazione tra competenze e capacità molto diverse, e altre ancora sono basate sul lavoro individuale di ogni singolo allievo. La rivendicazione che parte stavolta da Arbedo-Castione e vien fatta propria dal Risveglio – che in tal modo fa stucchevolmente suo un tema che fino a ieri era peculiare alla sinistra – rischia unicamente di lasciar sul campo di battaglia qualche morto e qualche ferito, senza riuscire a intaccare minimamente la qualità della scuola: in realtà per guarire dalla grippe, non sempre la soluzione ideale sta nel primo medicamento che salta in mente.

Perché ci vuole orecchio

La scuola è un argomento che tira. Lo dimostrano l’appena conclusa consultazione sulla riforma dell’insegnamento delle lingue proposta dal DIC, così come la votazione di un anno fa. Era praticamente dal ’68 che non ci si scaldava più tanto: forse siamo di fronte ad una svolta epocale, il che può essere di conforto, anche se il livello del dibattito, alle nostre latitudini, non è tra i più elevati in Europa e desta qualche seppure impercettibile apprensione.
Esattamente un anno fa il Ticino era andato alle urne sul finanziamento alle scuole private, respingendo seccamente l’iniziativa popolare. Anche in quel frangente il dibattito tra fautori e detrattori era stato ampio e agguerrito. Allora come oggi, però, non si era capito bene quale fosse il modello di scuola auspicato dai pro e dai contro, tanto che il fronte dei partigiani della privatizzazione aveva utilizzato l’icona di Stefano Franscini per la propria propaganda, sollevando le ire del fronte opposto, che si reputava l’unico depositario dell’idea repubblicana sostenuta nell’800 dallo statista leventinese. Ora, con la vertenza sulle lingue da insegnare, siamo daccapo, anche se i fronti sembrano essersi rimescolati.
È sempre difficile, in effetti, capire quale scuola si voglia, quali progetti si celino dietro le singole prese di posizione sul finanziamento, sulle mense, sull’inglese e via di questo passo. Prendiamo i collegi dei docenti delle scuole cantonali, le cui dichiarazioni sono diventate un must: evidenziano il loro essere al servizio dell’intero Paese, frignano se c’è qualche franco che rischia di prendere destinazioni diverse, si oppongono ad ogni minimo cambiamento e – alla faccia della scuola di tutti – continuano imperterriti ad esercitare il ruolo di braccio selettivo della finanza e dell’economia. Come non leggere tra le righe un’indegna difesa corporativistica?
Ha ragione, quindi, l’attuale presidente della commissione scolastica del Gran Consiglio, che dichiara ad un foglio domenicale: “Io credo che a decidere quali lingue si devono studiare a scuola non dovrebbe essere lo Stato né il DIC, bensì la società, il mercato”. Patapumm! Questo vuol dire parlar chiaro: il signor Claudio Bordogna dev’essere uno che ha orecchio e che, conseguentemente, ha inteso cos’è lo Stato, e non confonde una stecca con una geniale armonia. Intendiamoci, non si capisce se per Bordogna società e mercato siano la stessa cosa, oppure se l’una è complementare all’altro; ma ciò che conta è il significato generale del Bordogna-pensiero – che è poi il pensiero di molti, soprattutto dopo che il Dipartimento dell’istruzione e della Cultura si è adeguato, negli ultimi anni, all’idea di una scuola di servizio.
A questa stregua si potrebbe immaginare, in un futuro prossimo, di differenziare maggiormente l’offerta sin dalla scuola dell’infanzia, in modo da esaudire i sogni educativi dei genitori, specie da quando il mitico doposcuola – che sta proliferando un po’ in tutto il Cantone – ha sempre più connotazioni scolastiche (Non c’è l’inglese nei programmi scolastici? E allora la scuola organizzi il doposcuola!). Oltre agli indubbi risparmi (ottenibili con l’eliminazione di certo vecchiume dai programmi), non vi sarebbero più genitori insoddisfatti e rompiscatole, non dovremmo più preoccuparci del numero di allievi per classe e l’assunzione dei docenti avverrebbe a scadenze periodiche, in base alle richieste del mercato. Insomma: dopo la tassa sul sacco (chi consuma paga), si potrebbe cominciare a progettare la tassa sul banco, il che permetterebbe nuovi inevitabili sgravi fiscali, qualche licenziamento e, soprattutto, grane al ribasso. Con le leggi del mercato portate a questo livello, perché non architettare, dopo un doveroso periodo di prova, la tassa sul fucile d’assalto o quella sul decreto d’accusa? Perché, insomma, non studiare la possibilità di sottomettere anche l’esercito e la giustizia alle leggi del mercato?
Erano anni che il dibattito sulla scuola – anzi: sulla Scuola – non si spingeva più a simili altezze, ed è legittimo chiedere al presidente della commissione scolastica e ai suoi accoliti cosa aspettino a chiedere l’irrimediabile modifica delle finalità della Legge della scuola, scuola che – secondo il Parlamento cantonale – deve promuovere “…lo sviluppo armonico di persone [Tutte?] in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà”. Con l’applicazione delle leggi del mercato anche alla scuola, all’esercito e alla giustizia, plasmeremmo senz’altro una nuova aristocrazia, con il piccolo pregiudizio di quei concittadini che resterebbero sempre off. Ma il mercato non avrebbe problemi a smaltirli: in fin dei conti c’è sempre un gran bisogno di braccia.