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Scuola obbligatoria: all’urgente ricerca delle finalità

«È colpa della scuola dell’obbligo se oggi dal 30 al 50% degli allievi non riesce a conseguire la qualifica a fine tirocinio?». È, questa, una delle tante domande uscite durante il convegno sul tema «Apprendistato: quale futuro?», organizzato nei giorni scorsi a Manno e di cui ha riferito La Regione del 28 settembre. Naturalmente tante le certezze, le preoccupazioni, i dubbi e le ipotesi che sono state avanzate. Cristina Resmi, dell’Unione svizzera del metallo: «Il livello dei ragazzi che escono dalla scuola media si abbassa ogni anno sempre di più». Vincenzo Nembrini, capo della Divisione della formazione professionale del DECS: «Le imprese, a volte, pretendono molto, forse troppo. Non ci si può attendere che un giovane appena uscito dalla scuola dell’obbligo risponda immediatamente a tutti i requisiti».
È abbastanza evidente, anche se la scelta è solo sottintesa, che la scuola dell’obbligo è primariamente progettata per quegli allievi che proseguiranno gli studi. Basti pensare che il passaggio automatico di un allievo dalla scuola media al liceo avviene sulla scorta di taluni presupposti ben precisi, quali una media complessiva di almeno 4.65, la frequenza dei corsi attitudinali di matematica e tedesco (e perché non – tanto per dire – storia?) e come minimo il 4½ in italiano. Chi non raggiunge questi obiettivi – ed è una percentuale piuttosto significativa – può tentare, con scarse possibilità di successo, gli esami di ammissione alla scuola media superiore, oppure ripiegare sull’apprendistato. Di transenna, ma non è certo la scoperta dell’America: al convegno di Manno si è pure detto che «l’apprendistato è generalmente frequentato dalle classi sociali più basse».
Dunque chi, come me, era fermo alla realtà di un elevato tasso di bocciatura soprattutto nei primi anni del liceo e della scuola di commercio – dal 20 al 30% – ora è servito con questo supplemento offerto dalle scuole professionali, che descrivono uno scenario inquietante, fatto da fallimenti che toccano fino alla metà degli apprendisti. Ma c’è un’altra circostanza altrettanto allarmante che ha fatto capolino al convegno di Manno: sempre secondo la Resmi, «Oggi gli allievi che escono dalla scuola obbligatoria hanno sì un’infarinatura su molti argomenti, ma molto superficiale». Ecco allora che balza nuovamente all’attenzione una duplice urgenza. La prima: la scuola dell’obbligo deve urgentemente ritrovare quell’essenzialità imprescindibile, e da sostenere col necessario rigore, affinché sia chiaro a tutti – insegnanti, allievi, genitori, settori formativi post-obbligatori – cosa un allievo di quindici anni deve conoscere e padroneggiare. È la prima e fondamentale finalità di una scuola che è in grado di insegnare delle conoscenze e delle competenze che si ritengono indispensabili per ogni successivo percorso formativo, ed è un obiettivo sulla cui limpidezza è poi possibile costruire l’Educazione di tutti gli allievi.
La seconda, vincolata alla prima: a ormai più di trent’anni dall’entrata in vigore della scuola media, la scuola dell’obbligo deve diventare la scuola di tutti, affinché ognuno, entro i quindici anni, abbia acquisto l’essenziale bagaglio di conoscenze culturali, linguistiche, storiche, geografiche, artistiche, “filosofiche”, … che permetta una scelta futura ben ponderata. Insomma: è una sciagura se centinaia di giovani si sfracellano ogni anno contro le valutazioni sommative della scuola scelta, sia che si tuffino nell’acqua alta e scura del liceo, sia che entrino correndo e ridacchiando nel mare apparentemente tranquillo della scuola professionale. Si tenga conto che tra sei e quindici anni, un allievo che non ripete neanche una classe trascorre a scuola – obbligatoriamente – oltre diecimila ore. Come ha scritto il sociologo Philippe Perrenoud, se la medicina potesse occuparsi della popolazione, per obbligo statale, anche solo per una porzione infinitesimale di questo tempo, non le si perdonerebbe neanche un raffreddore.

La televisione educa: che lo si voglia oppure no

A fine agosto il consiglio del pubblico della CORSI ha stigmatizzato un’intervista a Roger Etter mandata in onda dalla nostra TSI, ritenendo «fuori luogo, anche dal profilo etico ed educativo, la diffusione di questo servizio». A «La Regione» il rimprovero è andato di traverso, tanto che – per zampetta della sua formichina – ha paragonato il consiglio del pubblico al MinCulPop di totalitaria memoria. Scrive: «siamo ormai al giornalismo ‘pedagogico’, caldeggiato in particolare dalle dittature», mentre «il giornalismo [deve] anche e soprattutto informare». Öh, la pèpa: se «La Regione» ha ragione, devo aver perso qualche puntata.
Non ho visto l’intervista a Etter, ma sono rimasto sconcertato da quel «siamo ormai» che la formichina ha usato per enfatizzare la sua improvvisa avversione a un giornalismo, televisivo o meno, che ogni tanto dovrebbe ricordare la sua funzione di servizio pubblico o i suoi impegni etici (ovviamente al di là delle più prosaiche occorrenze di audience e/o di tiratura: francamente, un bel dilemma). Senz’altro non da oggi, si dice che una delle difficoltà della scuola a tener dietro ai suoi obiettivi risieda proprio nella «cattiva maestra televisione», come la definì Karl Popper. Perché la TV educa, che lo si voglia o no, così come educano tutti i mezzi di comunicazione di massa. E allora come si fa a paventare un rigurgito di dittatura davanti a un legittimo diritto espresso da un organo costitutivo della CORSI? Oppure si ritiene che il Consiglio del pubblico si sia improvvisamente tramutato in un’ammucchiata di bacchettoni, che tramano il colpo di stato e, all’occorrenza, potrebbero tramutare Nostra Signora di Comano in un servile portaborse del potere? La prospettiva fa almeno abbozzare un sorriso.
Non si capisce, insomma, perché mai un giornalismo ‘pedagogico’ dovrebbe finire al rogo, sbertucciato peggio della spazzatura che imperversa in ordine sparso su un po’ tutti i canali televisivi e le tante testate. Tanto più che un’azienda di servizio pubblico, come la SSR, ha «il compito di produrre e distribuire programmi radiofonici e televisivi su tutto il territorio della Confederazione» con il preciso mandato di «tutelare e promuovere i valori culturali del Paese e contribuire alla formazione dell’opinione e dello svago del pubblico». Oppure si ritiene che scopi del genere non siano (più) educativi, nell’accezione più neutra del termine?
È chiaro che, per assurdo, il problema non si porrebbe se solo ogni telespettatore fosse autonomamente in grado di farsi un’opinione critica e consapevole di ciò che gli viene propinato o di ciò che preferisce farsi rifilare. Ma sappiamo che non è così. Benché i programmi scolastici contemplino da qualche decennio anche l’educazione ai mass media, in concreto si tratta di un’istruzione che non passa, che stenta a entrare nella «cassetta degli attrezzi» che ogni cittadino dovrebbe avere a disposizione per leggere il mondo. Il guaio è che, con la crescita quantitativa dell’offerta televisiva e massmediatica in generale, sono pure prosperati gli ambiti di cui la scuola ha creduto di doversi occupare e quelli che le sono stati affibbiati: col risultato che la scuola annaspa ed è sempre più insistentemente chiamata a operare delle scelte radicali, per andare al cuore delle essenzialità e di ciò che è in grado di fare bene. Perché nella realtà dei fatti la ressa pasticciona dei programmi televisivi – che accosta sul medesimo scaffale l’informazione e il reality show, l’approfondimento giornalistico e il quiz cretino, il capolavoro cinematografico e il telefilm insulso – ha finito col favorire lo zapping e il pensiero a singhiozzo.
Nell’universale marasma, quindi, un giornalismo ‘pedagogico’ – che non è sinonimo di ‘censorio’ o ‘dispotico’ – potrebbe contribuire al vasto progetto di educazione che è proprio di ogni Paese civile. Non si vede per quale astruso motivo la scuola (pubblica) e la televisione (pubblica) dovrebbero essere tradizionalmente «l’un contro l’altra armate». Perché la libertà di stampa è un po’ come la libertà d’insegnamento: dovrebbe terminare laddove inizia la libertà dell’altro. Almeno nel settore pubblico.

Quella scuola che sfrittella il pensiero

Questo articolo è apparso nell’inserto culturale del Corriere del Ticino del 12 gennaio 2004 (Eccolo!).

Sarà l’effetto del Supercampiello 2004, vinto con il romanzo Una barca nel bosco, fatto sta che questo La scuola raccontata al mio cane, della torinese Paola Mastrocola, è diventato in pochi giorni uno dei libri più acquistati in Italia, successo di vendite non così scontato se si pensa che il volume è una sorta di saggio su un «mestiere che non c’è più». «Io insegnavo facendo letteratura» scrive unel prologo. «Tutto qui. Per me, il  mio mestiere era semplicemente questo: insegnare letteratura. Adesso, improvvisamente, direi da un giorno all’altro, chi la pensa così è tagliato fuori».

La scuola raccontata al mio cane è un’aspra e circostanziata requisitoria contro il liceo italiano, giocata sui registri dell’ironia e del sarcasmo, della rabbia e dell’amore profondo nei confronti della Scuola e della gioventù: confrontata con i POF – i cosiddetti Progetti d’Offerta Formativa della riforma morattiana – e con il primato della lingua “che comunica”, Paola Mastrocola reagisce con una forza argomentativa inusitata per denunciare senza mezzi termini una Scuola che «Si adegua pari pari al mondo, non gli va contro neanche un po’, combacia perfettamente: lo riflette, lo copia, lo reduplica. Non oppone nulla di alternativo. È una scuola che “connive” con la società. Lo so che il verbo connivere non esiste, ma vorrei usarlo lo stesso; in latino voleva dire: “chiudere gli occhi”, quindi far finta di niente, essere complici». POF e comunicazione: con i POF la scuola si prostituisce, adeguandosi a richieste bottegare, che mettono il corso di chitarra o quello di giardinaggio davanti a Dante e ad Alessandro Manzoni. La lingua “per comunicare” è l’altra perversione, che intacca e avvolge anche l’insegnamento delle lingue straniere. «La nostra prima e forse unica preoccupazione – scrive in uno tra i tanti gustosi capitoli – è di renderli in grado [gli studenti] di… andarsi a comprare la baguette a Parigi! E va anche bene così, ma… forse ci sarebbe un altro modo, più “alto”: il modo indiretto e alto della lettera­tura. Potrei far leggere loro i romanzi di Gide e Stendhal, le poesie di Rimbaud e Apollinaire. Lì non sta scritto come si chiede una baguette in panetteria, è vero: c’è scritto molto di più! E davvero noi crediamo che un ragazzo che sappia leggere Rimbaud non sia poi in gra­do di andarsi a comprare una stupida baguette? Credia­mo questo veramente? Diamo così poca fiducia alla let­teratura? Sì. Non la riteniamo in grado di “fornire gli strumenti adeguati”. Diamo invece un’enorme fidu­cia… agli strumenti adeguati in sé: insegniamo per cin­que anni a chiedere una baguette! Non pensiamo che, se è facilissimo scendere da Rimbaud alla baguette, non è invece affatto facile, anzi, forse è impossibile, salire dalla baguette a Rimbaud: questo vuol dire che noi pri­viamo per sempre i nostri ragazzi dell’“altezza” di Rim­baud, e li releghiamo per sempre alla “bassezza” quoti­diana e concreta della baguette».

Certo, il liceo italiano non è il liceo ticinese, così come l’attuale Ministero Italiano dell’Istruzione ha apparentemente poco a che vedere col più nostrano e metamorfico DECS, che in fondo – come nell’intera Europa occidentale – null’altro ha fatto se non adeguarsi alle tendenze più pacchiane e diffuse. In fondo, come annota argutamente Paola Mastrocola, il ’68 è la matrice primigenia dell’attuale stato delle cose: «… era giusto volere una scuola meno autoritaria, nozionistica, severa, elitaria, separata, astratta, non socialmente attenta. Giusto. Ma era giusto trent’anni fa! La Battaglia è stata fatta, e ha ottenuto esiti direi mol­to positivi. Bene. Quello che oggi mi sconcerta è il con­statare che si continua imperterriti quella stessa Batta­glia, una Battaglia cioè che non solo è già stata vinta, ma che oggi non ha più alcun senso combattere, dal mo­mento che il nemico è cambiato, anzi… è esattamente il nemico opposto a quello che avevamo allora». Che fare dunque? Come tentare di avviare una nuova Rivoluzione affinché la scuola – e il liceo in particolare – riesca a uscire in fretta e con prepotenza dallo strapiombo strumentale in cui si è ficcata, in parte per comodità e in parte per cecità? Come rimediare alla realtà, che ha disinvoltamente trasformato l’utopica democratizzazione degli studi nella democratizzazione dei diplomi e dei titoli di studio?

A Paola Mastrocola piace vestire i panni dell’«avvertitore di verità». Nella fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore «…c’è un bambinetto da nulla che, in mezzo al corteo osannante, avverte: l’imperatore è nudo!». Ed è nudo proprio in virtù di una formazione annientata dai bisogni immediati, mercantili, utilitaristici e – soprattutto – facili. Chiaro: per imboccare un nuovo corso consacrato all’educazione inutile – la letteratura italiana, secondo Paola Mastrocola; ma si potrebbero ricordare per analogia la storia e la filosofia, le lingue ‘morte’ e tutto quanto rende grande la tradizione umanistica – ci vogliono Maestri in gamba, la cui definizione non è davvero facile: «Diciamo che noi, quando uscivamo dalla lezione di un maestro, camminavamo per un bel po’ a un metro da terra. Diciamo che quel metro da terra fa la differenza. […] Diciamo che forse questo contraddistingue un maestro: ti contagia». Il problema è come misurarlo, quel metro in più, considerato che «… un insegnante che non insegna procura un danno davvero incalcolabile al singolo allievo, e quindi anche all’intera società: condanna all’ignoranza, […] quindi al vagolamento professionale infinito».

La scuola raccontata al mio cane non è e non pretende di essere un libro di pedagogia, scritto da addetti ai lavori per addetti ai lavori, e nemmeno contempla un catalogo di soluzioni. Paola Mastrocola si diverte a raccontare la sua storia di insegnante di lettere del liceo italiano, confrontata oggi con una miriade di interferenze e di pedagogismi che hanno finito per stravolgere il senso stesso della Scuola: da luogo di trasmissione e di formazione, a parco giochi e centro sociale, dove il pensiero si sfrittella invece di strutturarsi. L’autrice, che rivendica dalla prima all’ultima pagina il suo diritto di essere solo e semplicemente un’insegnante di lettere, mette in luce con grande intelligenza le derive che scaturiscono dal primato della pedagogia e della didattica sulle competenze disciplinari. Essere bravi insegnanti, oggi più di ieri, significa riuscire a destreggiarsi in perfetto equilibrio tra la profonda conoscenza di ciò che s’insegna e la cultura pedagogica per saperlo insegnare. Dal ’68 in poi si è fatto un gran parlare dell’importanza del “saper essere” e del “saper fare” rispetto al “sapere-e-basta”: ogni pedagogista accorto sa però che non è possibile costruire tali attitudini sul vuoto pneumatico. In tutta evidenza il discorso non tocca solo il liceo, né quello italiano in particolare.

Perché ci vuole orecchio

La scuola è un argomento che tira. Lo dimostrano l’appena conclusa consultazione sulla riforma dell’insegnamento delle lingue proposta dal DIC, così come la votazione di un anno fa. Era praticamente dal ’68 che non ci si scaldava più tanto: forse siamo di fronte ad una svolta epocale, il che può essere di conforto, anche se il livello del dibattito, alle nostre latitudini, non è tra i più elevati in Europa e desta qualche seppure impercettibile apprensione.
Esattamente un anno fa il Ticino era andato alle urne sul finanziamento alle scuole private, respingendo seccamente l’iniziativa popolare. Anche in quel frangente il dibattito tra fautori e detrattori era stato ampio e agguerrito. Allora come oggi, però, non si era capito bene quale fosse il modello di scuola auspicato dai pro e dai contro, tanto che il fronte dei partigiani della privatizzazione aveva utilizzato l’icona di Stefano Franscini per la propria propaganda, sollevando le ire del fronte opposto, che si reputava l’unico depositario dell’idea repubblicana sostenuta nell’800 dallo statista leventinese. Ora, con la vertenza sulle lingue da insegnare, siamo daccapo, anche se i fronti sembrano essersi rimescolati.
È sempre difficile, in effetti, capire quale scuola si voglia, quali progetti si celino dietro le singole prese di posizione sul finanziamento, sulle mense, sull’inglese e via di questo passo. Prendiamo i collegi dei docenti delle scuole cantonali, le cui dichiarazioni sono diventate un must: evidenziano il loro essere al servizio dell’intero Paese, frignano se c’è qualche franco che rischia di prendere destinazioni diverse, si oppongono ad ogni minimo cambiamento e – alla faccia della scuola di tutti – continuano imperterriti ad esercitare il ruolo di braccio selettivo della finanza e dell’economia. Come non leggere tra le righe un’indegna difesa corporativistica?
Ha ragione, quindi, l’attuale presidente della commissione scolastica del Gran Consiglio, che dichiara ad un foglio domenicale: “Io credo che a decidere quali lingue si devono studiare a scuola non dovrebbe essere lo Stato né il DIC, bensì la società, il mercato”. Patapumm! Questo vuol dire parlar chiaro: il signor Claudio Bordogna dev’essere uno che ha orecchio e che, conseguentemente, ha inteso cos’è lo Stato, e non confonde una stecca con una geniale armonia. Intendiamoci, non si capisce se per Bordogna società e mercato siano la stessa cosa, oppure se l’una è complementare all’altro; ma ciò che conta è il significato generale del Bordogna-pensiero – che è poi il pensiero di molti, soprattutto dopo che il Dipartimento dell’istruzione e della Cultura si è adeguato, negli ultimi anni, all’idea di una scuola di servizio.
A questa stregua si potrebbe immaginare, in un futuro prossimo, di differenziare maggiormente l’offerta sin dalla scuola dell’infanzia, in modo da esaudire i sogni educativi dei genitori, specie da quando il mitico doposcuola – che sta proliferando un po’ in tutto il Cantone – ha sempre più connotazioni scolastiche (Non c’è l’inglese nei programmi scolastici? E allora la scuola organizzi il doposcuola!). Oltre agli indubbi risparmi (ottenibili con l’eliminazione di certo vecchiume dai programmi), non vi sarebbero più genitori insoddisfatti e rompiscatole, non dovremmo più preoccuparci del numero di allievi per classe e l’assunzione dei docenti avverrebbe a scadenze periodiche, in base alle richieste del mercato. Insomma: dopo la tassa sul sacco (chi consuma paga), si potrebbe cominciare a progettare la tassa sul banco, il che permetterebbe nuovi inevitabili sgravi fiscali, qualche licenziamento e, soprattutto, grane al ribasso. Con le leggi del mercato portate a questo livello, perché non architettare, dopo un doveroso periodo di prova, la tassa sul fucile d’assalto o quella sul decreto d’accusa? Perché, insomma, non studiare la possibilità di sottomettere anche l’esercito e la giustizia alle leggi del mercato?
Erano anni che il dibattito sulla scuola – anzi: sulla Scuola – non si spingeva più a simili altezze, ed è legittimo chiedere al presidente della commissione scolastica e ai suoi accoliti cosa aspettino a chiedere l’irrimediabile modifica delle finalità della Legge della scuola, scuola che – secondo il Parlamento cantonale – deve promuovere “…lo sviluppo armonico di persone [Tutte?] in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà”. Con l’applicazione delle leggi del mercato anche alla scuola, all’esercito e alla giustizia, plasmeremmo senz’altro una nuova aristocrazia, con il piccolo pregiudizio di quei concittadini che resterebbero sempre off. Ma il mercato non avrebbe problemi a smaltirli: in fin dei conti c’è sempre un gran bisogno di braccia.