E se insegnassimo sul serio l’italiano?

Ecco un bel tema per dare inizio come si conviene al nuovo anno. Come si sa ormai da diverso tempo, l’indagine internazionale PISA ha detto che i quindicenni svizzeri non sono dei lettori particolarmente capaci (eufemismo); nella scorsa primavera sono stati divulgati anche i dati ticinesi, che non solo dimostrano come siamo legittimi figli di mamma Elvezia, ma rivelano che qui al sud la situazione è anche peggiore. Tra il mal comune e il mezzo gaudio, c’è per fortuna chi si preoccupa e – banditi autocommiserazione e fatalismo – prende metaforicamente carta e penna per illustrare la situazione e proporre delle possibili soluzioni.
È ciò che hanno fatto a metà giugno gli esperti per l’insegnamento dell’italiano nella scuola media, che sono intervenuti su “La Regione” per spiegare quelle che, secondo loro, sono le due principali cause del fiasco. La prima risiederebbe nel fatto che la nota d’italiano, a differenza di quelle di matematica e delle attuali due lingue obbligatorie (francese e tedesco), conta meno del due di picche nell’ambito dei meccanismi di passaggio facilitato alla scuola media superiore. La seconda ragione, abbarbicata alla prima, è che l’italiano è sempre insegnato a classe completa, mentre le altre tre materie godono di un insegnamento con classi più piccole, in virtù della separazione tra corsi attitudinali (per i più “bravi” che dovranno frequentare le medie superiori) e corsi di base (per i futuri apprendisti).
Non me ne vorranno gli esperti se quest’analisi mi convince solo in parte. Ad esempio, non concordo sull’ineluttabilità del parametro “numero di allievi per classe” come elemento immediato di successo o insuccesso scolastico. Per restare all’italiano nella scuola media, sono d’accordo che un laboratorio di scrittura deve poter funzionare con gruppi medio-piccoli allo scopo di ottimizzare l’intervento mediatore dell’insegnante, mentre è almeno dubbio che un elevato numero di allievi possa peggiorare l’insegnamento della lettura, dell’ascolto o dell’oralità (e senza dimenticare che vi sono pur sempre forme di funzionamento pedagogico che superano l’insegnamento cattedratico, tanto vituperato ma tutt’ora in testa all’hit parade del modo di agire di molti docenti).
È vero che in un contesto di regole del gioco basato essenzialmente sulle note, quella di italiano dovrà per forza di cose assumere un peso maggiore rispetto alla sua quotazione odierna. Per quanto mi concerne, arriverei addirittura a dire che una buona nota in italiano dev’essere la condizione irrinunciabile per entrare nella scuola media superiore (come ragionamento è l’esatto contrario di quant’era successo nei primi anni ’70 alla scuola magistrale, dove per regolamento si poteva diventare maestri anche col 3 in italiano). Ma il paradigma può reggersi in piedi solo alla condizione che l’importanza dell’italiano come lingua di cultura sussista anche dopo la scuola media, con una tensione che impregni tutto il settore post-obbligatorio (il che potrebbe anche produrre interessanti ricadute sulla scuola elementare).
Per terminare, però, non si può sorvolare con malagrazia su ‘cosa’ succede durante le ore di italiano e con quale grado di intensità. È sempre difficile generalizzare, ma l’impressione è che il poco che sarebbe possibile fare lo si faccia male e senza troppo impegno: quali letture sono proposte ai nostri allievi? Quali autori incontrano durante i quattro anni della scuola media? Leggono ancora qualche romanzo e qualche poesia oppure si fa capo ai soliti articoli di giornale e ai testi delle canzonette? Quante volte all’anno devono cimentarsi con quel meraviglioso esercizio che è la scrittura? E cosa devono scrivere? E dove: a scuola o a casa? E l’ascolto? Come si insegna a parlare, se lo si insegna? Oppure – come sempre – parla solo chi ne è già capace?
In fondo non si tratta solo di “migliorare l’immagine dell’italiano” – come scrivono i quattro esperti – bensì di insegnarlo sul serio e di riportarlo al centro delle preoccupazioni di noi tutti, al di là di “tante inutili dichiarazioni di pura facciata o di tante vaghe conclamazioni sulla difesa dell’«italianità» ticinese”.

La grande ricreazione di fine anno

È tempo di passeggiate scolastiche. Come a ogni fine anno, se la meteo non tradirà, migliaia e migliaia di bambini e ragazzi potranno assaporare qualche giornata fuori dall’aula, andando per sentieri e per boschi, visitando musei, siti storici e archeologici, parchi dei divertimenti, ma anche luoghi più esotici. Le ultime tre o quattro settimane dell’anno rappresentano una specie di sovreccitazione pedagogico-turistica: tanto quel ch’è fatto è fatto, e se – come in questi giorni – scoppia un po’ di calura, non si capisce perché si dovrebbe restare in classe a tediarsi.
La passeggiata scolastica è un altro di quei reperti rimasti intatti col passare dei decenni. Si può dire che il ’68 ha spazzato via con un colpo di spugna vecchie consuetudini vuote di senso; non così la passeggiata, che è rimasta intatta nel tempo e resta – assieme alla festa di chiusura – uno dei momenti topici per allievi, maestri e professori. Anzi, sembrerebbe che la fregola da “fuggi fuggi” dalla sede scolastica si sia arricchita di nuove e mirabolanti mète, che hanno soppiantato la gita fuori porta, con l’immancabile pranzo al sacco. Oddio, destinazioni come lo zoo di Magliaso (e l’adiacente fabbrica di cioccolato di Caslano), la Swissminiature e i Castelli di Bellinzona resistono ai rigori del tempo che passa; ma, soprattutto alle medie, nuovi approdi hanno soppiantato la tradizionale due-giorni suoi luoghi sacri della Patria: mezzo secolo fa la gita al praticello del Grütli, con fatale tappa alla Tellplatte, era un must che inorgogliva genitori e autorità. Oggi, tutt’al più, il Ballenberg fa un po’ da surrogato all’itinerario delle radici mitiche, anche se la tensione e l’attenzione sono altre.
In effetti tutto questo correre qua e là di scolaresche più o meno sciamannate presenta molte similitudini con la frenesia di coloro che, tra luglio e agosto, affollano aeroporti stazioni porti e autostrade, alla ricerca di un po’ di riposo e di aria diversa dalla quotidianità. La sola, grande diversità è che molte famiglie non hanno alternative – anche per colpa dell’anno scolastico, che si riproduce identico decennio dopo decennio, come se il ritmo della vita sociale fosse ancora scandito da fienagioni e salite all’alpe. Per contro la scuola potrebbe utilizzare meglio il tempo e i soldi: che senso ha programmare una passeggiata di qualche giorno a Firenze o a Strasburgo quando manca una manciata di ore all’ultimo suono della campanella? Messa così, l’escursione di cui si è parlato per molti mesi si riduce a una banale scampagnata, dove i preparativi sono dominati dalla ricerca del finanziamento (chi non è mai incappato in studentelli che vendono torte e focacce per sostenere economicamente il vagabondaggio di fine anno?). Poi al posto di una città storica ci si può mettere di tutto, da alcuni sinonimi ai loro contrari. Perché a quel punto restano a galla gli aspetti avventurosi e un po’ adolescenziali dell’avvenimento, mentre dal punto di vista educativo – o, più in generale, pedagogico – non è ben chiaro quale sia il rapporto tra l’investimento finanziario (le torte rappresentano solo una quota dell’importo) e la ricaduta positiva su ogni singolo allievo.
In altre parole, davvero non si riesce a intuire il motivo per cui questi “grandi viaggi”, che portano spesso i nostri figli a diretto contatto con le più grandi testimonianze dell’arte e della storia, capitino nel peggiore periodo dell’anno, mentre potrebbero tangibilmente rappresentare dei preziosi momenti di studio e di apprendimento, se fossero programmati in tempi più consoni. Per ammazzare il tempo a fine anno – e magari per farsi perdonare mesi e mesi di inesorabile monotonia – sarebbe più formativo un soggiorno in una qualsiasi capanna alpina, di cui tutto il Ticino è ricco: una bella scarpinata a inizio giugno insegnerebbe cose importanti anche a molti capricciosi giovinetti di oggi, che riuscirebbero a spassarsela forse meglio che altrove (anche senza McDonald).
E poi, chi l’ha detto che la passeggiata scolastica debba a ogni costo tramutarsi in una gigantesca ricreazione?

Viviamo tempi inspiegabili

Viviamo tempi inspiegabili. La vicenda delle ragazze tangate della scuola medio di Lugano-Besso ne è l’ennesima riprova. Vediamo di riepilogare. Leggo sui giornali di fine aprile che il direttore di quell’istituto scolastico ha dichiarato guerra al tanga: non sulle spiagge adriatiche, ma nella sua sede. In altre parole, il direttore non vuole che quattro pivelline vengano a scuola abbigliate come puttanelle, con movenze da “miss maglietta bagnata”, pantaloni a vita calante – o, peggio ancora, minigonne ridotte al pube – e stringhe del tanga che fuoriescono in bella vista. Puntualizza il Dir. Gideon Bough: «La nostra non è certo una crociata moralistica, ma solo il rivendicare il diritto alla decenza», che a differenza di una grippe non è sancita da regolare certificato medico, magari compiacente.
Insomma: con titoli roboanti sparati a più colonne da tutti i quotidiani ticinesi, uno s’aspetta una sana polemica primaverile, tanto per sopperire alle cronache etteriane, ai fasti del Football Club Lugano o ai debiti del Maspoli, che languono e hanno ormai abbandonato le prime in cronaca. Cosa desiderare di meglio di una bella crociata? Non so, cari lettori, se qualcuno di voi ricorda le prime minigonne o i primi cappelloni: dispute infuocate, moralisti contro lassisti, epiteti irripetibili perfino a mezzo secolo di distanza. Così un normale cittadino, dopo aver letto certi titoli e dopo aver pesato lo spazio dedicato agli editti del nostro risoluto Dir. Bough, s’aspetta un bel rigurgito polemico. Cerca tra gli anfratti del Giornale del Popolo una bella articolessa intrisa di sessuofobia; s’immerge nella Regione per toccar con mano la sana equidistanza di stampo radical; salta il Corriere del Ticino – troppo compassato come al solito – e si getta sulla stampa di sinistra che, fiancheggiata da radio e televisione di Stato, mette cinicamente alla berlina l’atavico conservatorismo dell’autorità scolastica ed eleva i suoi salmi all’amore per il proprio corpo e all’ipocrisia borghese: épater le bourgeois. Poco poco, attende con ansia un comunicato ufficiale del PPD a sostegno della scuola privata, tempio di atteggiamenti misurati e rispettosi. Invece niente.
Finalmente, giovedì scorso, ecco l’irriverente “Falò”: per tutto il giorno la stentorea e tenace voce del promo radiofonico tuona: «Stasera, a ‘Falò’, la piccante vicenda del tanga di Besso! Sintonizzatevi!». E così anch’io, che solitamente seguo la TV con ritmi blandi e distratti, all’ora stabilita son lì ad attendere la detonazione. Mi cucco dapprima un (peraltro interessante) servizio sugli ecuadoriani, per poi scoprire che la moda del tanga adolescenziale (ma non solo) è la solita operazione mediatico-commerciale per vendere di più, conquistando il pubblico dei e delle teenagers: chi s’attendeva un minimo di controversia va a letto squadernato.
Non si capisce proprio più niente. Sarà perché tutti noi annoveriamo certamente nel nostro entourage qualche figlia o nipote che si diletta con le chiappe in bella mostra; sarà perché coi tempi che corrono non c’è tempo per sprecare energie in superflui dibattiti sulle moderne e precocissime prassi di simil-seduzione; sarà perché è tutto sommato meglio sfarfallare rasoterra, ma questa totale e bugiarda mancanza di dibattito e di passione mi ha lasciato indignato e incredulo. Forse neanche il Dir. Bough – un cognome che evoca ben altre mode, da Carnaby Street in giù… – si era immaginato tanta bonaccia attorno al suo provvedimento. Certamente si era preparato a difendersi dagli strali della sinistra e dai complimenti della destra più retriva: invece non è successo nulla.
Non so voi, ma io sono seriamente sbigottito: perché da una parte concordo pienamente con il direttore, mentre dall’altra mi sgomenta questa totale mancanza di dissenso. Pensate: neanche il Diavolo è riuscito a rabberciare almeno una vignetta sulla maliziosa vicenda. Sembra di vivere in un regime: roba da rimpiangere il vecchio “Politica Nuova”, che un’occasione così non se la sarebbe lasciata scappare.

Quell’educazione antiautoritaria e permissiva

Da più di trent’anni, maîtres à penser come Edgar Morin o Marshall McLuhan hanno attirato l’attenzione sull’importanza dei mezzi di comunicazione di massa in ambito educativo. Effettivamente non ci vuole molto acume per accorgersi che, al punto in cui siamo arrivati, hanno più incidenza sugli individui uno spot televisivo ben combinato o la velina di un qualsiasi partitino, che non il corso di educazione civica o la ramanzina del maestro. Se – appunto – trenta o quarant’anni fa i valori individuali e sociali si modellavano attraverso un’incisiva e pressoché logica sinergia tra scuola e famiglia, oggi un giudice preso con le mani nel sacco – col giusto corollario di notizie e pubblici commenti – può distruggere in un batter d’occhio valori costruiti pazientemente in lunghi anni di dedizione.
Questa riflessione mi è tornata alla mente quando sono incappato in un intervento del presidente onorario dell’UDC ticinese, Alessandro von Wyttenbach, sul Corriere del 19 aprile. Partendo dall’arresto di Roger Etter – uomo di punta del suo partito – von Wyttenbach così argomenta: a) la disavventura di Etter è solo una delle tante; b) in tutte le società ci sono santi e criminali; c) non sempre il criminale ce l’ha scritto in fronte; d) i partiti non possono “ingaggiare un investigatore privato per illuminare le ombre della vita dei suoi membri prominenti” [io avrei scritto “preminenti”, ma transeat]; e) chi fa di ogni erba un fascio è nel torto; f) la nostra società è sana, perché permette agli scandali di venire alla luce; g) Etter è stato più bravo di certi politici, perché se n’è andato da solo, prima che fosse sbattuto fuori.
Detta così la vicenda etteriana sembra un raccontino morale, scritto apposta per rieducare schiere di giovani e adulti moralmente degradati e far loro capire la solidità del sistema democratico, che sarà anche un po’ incancrenito da decenni di mene sinistrorse e rivoluzionarie, ma che è ancora in grado di mettere dietro le sbarre un parlamentare della Repubblica, integerrimo sino a pochi giorni fa. Scrive l’ineffabile presidente onorario: “L’ideologia dell’educazione antiautoritaria e permissiva sempre più diffusa – soprattutto dopo il ’68 – sia in famiglia, che nella scuola, ha infatti fatto perdere alle nuove generazioni la percezione dei limiti fra i comportamenti permessi e tollerabili e quelli invece incompatibili con una convivenza civile”.
Almeno su una cosa si può essere d’accordo con von Wyttenbach: senza un insano permissivismo non crescerebbero più epigoni del nazismo, coltivati da quei partiti che sognano una Svizzera autarchica, egoista, xenofoba e manesca, in cui le leve del potere sono mosse da pochi eletti, persone probe e moralmente ineccepibili che conoscono la Verità. Come scrive Il Caffè di domenica scorsa, è sicuro che “… scavando nel personaggio Roger Etter, di materiale per una perizia psichiatrica ce n’è davvero tanto”. Ma dimenticare le prediche di Etter – fatte di atti parlamentari e di proclami nazisteggianti sul suo sito nel web – e concentrarsi solo sui suoi (per ora presunti) misfatti, è una maniera almeno disinvolta per chiamarsi fuori. Non fosse stato per il recente arresto dell’uomo “prominente” dell’UDC, a von Wyttenbach non sarebbe certo venuto in mente di distanziarsi dall’Etter fautore della “barca piena”, dello straniero prevedibile criminale e di altri rigurgiti non proprio edificanti.
Non si può certo negare che il ’68 ha conosciuto le sue derive estremiste, le sue schegge impazzite e violente. Ma al ’68 occorre riconoscere il grande merito di essersi opposto con forza proprio agli Etter e compagni (pardon: camerati) dell’epoca, esortando alla creatività, alla tolleranza, alla solidarietà con i deboli, i poveri, le donne, i diversi… Questa malcelata voglia di manganello non è invece molto edificante, né è molto educativo proclamare che non si deve rubare (o farsi beccare?), mentre è giusto e lecito criminalizzare e dileggiare chi, democraticamente, propugna una Società davvero libera.

Insegnanti, vocazione e formazione

La professione di insegnante è diventata molto più difficile rispetto al passato. Diventare maestro, diciamo di scuola comunale (dell’infanzia o elementare nulla cambia), lo è finanche di più. Se oggi avessi quindici anni e volessi imboccare la strada che mi porterebbe a uno dei più antichi mestieri del mondo, dovrei convenire con me stesso di non esservi tagliato: intanto è probabile che non conquisterei nemmeno quella fatidica media del 4.65 che mi darebbe accesso al liceo senza esami di ammissione, perché la matematica e le lingue non sono mai state le mie materie preferite, e nemmeno quelle in cui eccellevo (o arrancavo meno: dipende dai punti di vista). Pensandomi in retrospettiva, debbo ammettere che ero un ragazzo timido e un po’ imbranato – come immagino ve ne siano tanti anche oggi – e non afferravo molto il senso della maggior parte delle cose che mi rifilava il ginnasio. Però leggevo molto,  avevo un’intensa vita mentale ed ero allenatore di un gruppo di bambini in ambito sportivo: così mi era sorto il desiderio di divenire maestro.
Oggi avrei lasciato correre. Il liceo mi avrebbe spiaccicato come un insetto immondo. Ne sarei uscito con le ossa frantumate a colpi di matematica e chimica e fisica, senza dimenticare quel gran paniere con le lingue moderne. Insomma, mi si sarebbe parato davanti un quadriennio di tormenti e di umiliazioni, e non so se la mia psiche, in quell’età di insicurezze e di trasformazioni, avrebbe potuto reggere l’urto. Credo che avrei scelto una strada meno rude: che so? l’educatore o qualcosa di simile, con tanto di maturità professionale nel settore socio-sanitario, conscio del fatto che il Gran Consiglio – con una pensata dell’ultimo momento – avrebbe introdotto la possibilità, per i portatori di maturità come la mia, di accedere all’Alta Scuola Pedagogica senza dover transitare dal liceo. Il resto è cronaca recente: mi sarei iscritto all’ASP sub condicione e con buona probabilità, dopo un anno, mi sarei ritrovato con un pugno di mosche.
Ora è difficile sostenere che si debba spianare la strada a chi vuol diventare insegnante, facilitandone l’accesso (e magari anche l’uscita). In fondo, da un punto di vista dottrinale, è giusto che il maestro abbia dalla sua una solida cultura di base; perciò il liceo sembra attualmente la scuola più indicata a livello propedeutico. Il problema, però, è che il liceo odierno si configura come una scuola fortemente caratterizzata dalle materie scientifiche e dalle lingue straniere, che rappresentano degli scogli fors’anche insuperabili da parte di chi – per educazione e per sua forma mentis – si ritrova con inclinazioni piuttosto umanistiche. Il difetto, quindi, non sta neanche tanto nell’ASP e nelle leggi che ne regolano il funzionamento, quanto nella difficoltà, tutta odierna, di capire qual è il profilo più adatto per diventare insegnante. Pensando alla recente avventura che hanno corso quelle decine di studenti entrati all’ASP con un sacco di sogni, ma senza la maturità giusta, corre voce che un qualcuno di loro sia stato escluso perché bocciato agli esami di recupero riservati ai portatori della maturità professionale, pur avendo passato con successo i tirocini pratici. Viceversa qualche studente regolare – con tanto di maturità liceale – è incespicato nel contatto con le classi e con gli allievi.
Non è un quadro molto confortante, quello che ne scaturisce, poiché si rischia di escludere dalla professione giovani motivati e capaci e, nel contempo, di diplomare persone più a loro agio con le circonvoluzioni del pensiero teorico che con la conduzione a lungo termine di una classe di scuola dell’infanzia o elementare. Se – come afferma qualcuno – oggi più che mai è necessario risvegliare un nuovo umanesimo, bisognerà cominciare proprio dalla formazione degli insegnanti, con un ragionamento che vada alla radice delle attitudini, delle competenze e delle conoscenze che devono far parte del bagaglio di un maestro, invece che dedicarsi surrettiziamente all’invenzione di scorciatoie per entrare all’ASP: che è e deve restare una scuola professionale.

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola