Insegnanti, vocazione e formazione

La professione di insegnante è diventata molto più difficile rispetto al passato. Diventare maestro, diciamo di scuola comunale (dell’infanzia o elementare nulla cambia), lo è finanche di più. Se oggi avessi quindici anni e volessi imboccare la strada che mi porterebbe a uno dei più antichi mestieri del mondo, dovrei convenire con me stesso di non esservi tagliato: intanto è probabile che non conquisterei nemmeno quella fatidica media del 4.65 che mi darebbe accesso al liceo senza esami di ammissione, perché la matematica e le lingue non sono mai state le mie materie preferite, e nemmeno quelle in cui eccellevo (o arrancavo meno: dipende dai punti di vista). Pensandomi in retrospettiva, debbo ammettere che ero un ragazzo timido e un po’ imbranato – come immagino ve ne siano tanti anche oggi – e non afferravo molto il senso della maggior parte delle cose che mi rifilava il ginnasio. Però leggevo molto,  avevo un’intensa vita mentale ed ero allenatore di un gruppo di bambini in ambito sportivo: così mi era sorto il desiderio di divenire maestro.
Oggi avrei lasciato correre. Il liceo mi avrebbe spiaccicato come un insetto immondo. Ne sarei uscito con le ossa frantumate a colpi di matematica e chimica e fisica, senza dimenticare quel gran paniere con le lingue moderne. Insomma, mi si sarebbe parato davanti un quadriennio di tormenti e di umiliazioni, e non so se la mia psiche, in quell’età di insicurezze e di trasformazioni, avrebbe potuto reggere l’urto. Credo che avrei scelto una strada meno rude: che so? l’educatore o qualcosa di simile, con tanto di maturità professionale nel settore socio-sanitario, conscio del fatto che il Gran Consiglio – con una pensata dell’ultimo momento – avrebbe introdotto la possibilità, per i portatori di maturità come la mia, di accedere all’Alta Scuola Pedagogica senza dover transitare dal liceo. Il resto è cronaca recente: mi sarei iscritto all’ASP sub condicione e con buona probabilità, dopo un anno, mi sarei ritrovato con un pugno di mosche.
Ora è difficile sostenere che si debba spianare la strada a chi vuol diventare insegnante, facilitandone l’accesso (e magari anche l’uscita). In fondo, da un punto di vista dottrinale, è giusto che il maestro abbia dalla sua una solida cultura di base; perciò il liceo sembra attualmente la scuola più indicata a livello propedeutico. Il problema, però, è che il liceo odierno si configura come una scuola fortemente caratterizzata dalle materie scientifiche e dalle lingue straniere, che rappresentano degli scogli fors’anche insuperabili da parte di chi – per educazione e per sua forma mentis – si ritrova con inclinazioni piuttosto umanistiche. Il difetto, quindi, non sta neanche tanto nell’ASP e nelle leggi che ne regolano il funzionamento, quanto nella difficoltà, tutta odierna, di capire qual è il profilo più adatto per diventare insegnante. Pensando alla recente avventura che hanno corso quelle decine di studenti entrati all’ASP con un sacco di sogni, ma senza la maturità giusta, corre voce che un qualcuno di loro sia stato escluso perché bocciato agli esami di recupero riservati ai portatori della maturità professionale, pur avendo passato con successo i tirocini pratici. Viceversa qualche studente regolare – con tanto di maturità liceale – è incespicato nel contatto con le classi e con gli allievi.
Non è un quadro molto confortante, quello che ne scaturisce, poiché si rischia di escludere dalla professione giovani motivati e capaci e, nel contempo, di diplomare persone più a loro agio con le circonvoluzioni del pensiero teorico che con la conduzione a lungo termine di una classe di scuola dell’infanzia o elementare. Se – come afferma qualcuno – oggi più che mai è necessario risvegliare un nuovo umanesimo, bisognerà cominciare proprio dalla formazione degli insegnanti, con un ragionamento che vada alla radice delle attitudini, delle competenze e delle conoscenze che devono far parte del bagaglio di un maestro, invece che dedicarsi surrettiziamente all’invenzione di scorciatoie per entrare all’ASP: che è e deve restare una scuola professionale.

Elezioni: quando si parla della scuola

Era ormai da diversi anni che non si parlava più di scuola durante le campagne elettorali per le elezioni cantonali: a occhio e croce è dai tempi dell’entrata in governo di Ugo Sadis (quand’è stato? trent’anni fa?). Invece quest’anno la scuola e l’educazione sono tornate a far capolino dalle bocche dei candidati e dei partiti. Sarà l’onda lunga del 18 febbraio, sarà per qualche altra oscura ragione, fatto sta che in molti han ricominciato a dire la loro – e, in qualche caso, a spararle grosse. Rispetto a certe campagne elettorali a cavallo del ’68, qui le idee sembrano un po’ più confuse. Si direbbe addirittura che ognuno pensi a un suo ideale di scuola, che non necessariamente ha a che fare con le più alte aspirazioni della scuola pubblica, laica e democratica.
Ecco allora che sette giovani candidati al Gran Consiglio hanno pubblicato nei giorni scorsi un’inserzione a pagamento, dove campeggiano le loro foto del primo giorno di scuola (“di qualche anno fà”, scrivono: sperando che l’accento assassino sia un refuso…). Sopra, un titolone: “Per una scuola sempre più giovane!”; di fianco, “W la scuola!”: un florilegio di punti esclamativi per arrivare al dunque: loro sette, sostenuti da quasi 12 mila cittadini, hanno riportato la civica sui banchi di scuola e ora vorrebbero “portare un PC affinché gli scolari e gli studenti ticinesi possano utilizzarlo per l’apprendimento di quasi tutte le materie scolastiche”. E spiegano – uno spot con l’approfondimento – che, tra le altre meraviglie prodotte dal PC, i giovani saranno più competitivi sul mercato del lavoro, contribuendo al rilancio economico delle nostre regioni.
Proprio lo stesso giorno dell’inserzione, oltre un migliaio di studenti manifestavano a Bellinzona “Uniti contro la scuola dei padroni”. Devo dire che, al di là delle modalità organizzative e delle possibili manipolazioni esterne (in ciò sono d’accordo con il Consigliere di Stato Gabriele Gendotti, che ha reagito con la giusta fermezza), alcune rivendicazioni degli studenti mi sono sembrate sacrosante, certo molto più di una spolverata di educazione civica e della nuova campagna per i PC. Ad esempio, i manifestanti hanno criticato “il perseverare di una selezione scolastica, che inizia nelle scuole medie e che genera l’esclusione dalla cultura di una parte della popolazione e un clima insano di competizione fra gli studenti”; oppure lo “scarso peso delle scienze umane a favore delle materie scientifiche, che comporta una formazione funzionale esclusivamente al mercato”. Il linguaggio – come sempre in simili occasioni – è di stampo anarco-sindacalista, ma il succo è proprio quello.
Il liceo, ormai, è giustamente assurto al ruolo di filtro formativo verso una gran parte di professioni, tanto che per entrare all’Alta Scuola Pedagogica e diventare maestro di scuola elementare, bisogna passare da lì. A parte il fatto che la scuola media è sempre più propedeutica al liceo, ci si dovrebbe anche chiedere se l’intensa gragnola di scienze esatte e di lingue moderne sia il profilo più vantaggioso sul quale fondare la cultura dei maestri (e dei cittadini in genere) di domani: i maturati degli ultimi anni sono senz’altro bravissimi con la matematica e la fisica, la chimica e la biologia, ma rischiano (eufemismo) di essere in seria difficoltà a “leggere” il contesto culturale europeo (e ticinese) con gli occhiali dello storico, del letterato, del filosofo. Eppure sono proprio le scienze umane che ci potrebbero aiutare a costruire la scuola vagheggiata da Gendotti: “Formare i cittadini di domani: consapevoli, responsabili, ricchi di spirito critico, sereni nel dialogo con gli altri”. A cominciare dalla scuola elementare, l’esigenza di una più solida cultura umanistica si fa sempre più imperiosa; nel contempo non vi è certezza che per fare onestamente il maestro sia necessario il livello di competenze, poniamo matematiche, richieste dal liceo. Mentre conoscere Leopardi e l’Atto di mediazione sì.

Giovani, buone maniere e impegno dei genitori

“I giovani di oggi non hanno rispetto di nulla e di nessuno!”: lo si sente spesso ripetere, soprattutto da chi era ragazzo durante l’ultima guerra. Loro lo dicono e molti altri lo pensano. E aggiungono: tutta colpa della scuola, che non insegna più le buone maniere e – quindi – anche il rispetto per le persone e per le cose. Leggendo La Regione di sabato scorso si direbbe che abbiano ragione. Il quotidiano bellinzonese descrive le eroiche gesta di una banda di cialtroni che, a quanto pare, imperversa da un po’ di tempo alla stazione Ffs di Locarno: i teppistelli insultano, ti sputano in faccia, occupano convogli, rubano, insudiciano, graffiano carrozzerie, si ubriacano, minacciano. Scrive il cronista: “Tutti i giorni il gruppo gioca al gatto e al topo con la Polizia e con i ferrovieri, in un continuo rincorrersi per la stazione. Lo scopo degli uni è danneggiare convogli, disturbare il normale lavoro degli impiegati Ffs, salire sui treni in sosta per occuparli e renderne di fatto impossibile l’utilizzazione da parte dei passeggeri; l’obiettivo degli altri è cercare di limitare i danni, di ‘far presenza’ per circoscrivere lo strapotere della banda”.
Beh, a leggere notizie come questa verrebbe voglia di dar ragione a chi se la prende con la scuola e con la gioventù, anche se è grande il pericolo di buttar via il pupo con l’acqua sporca. D’altra parte in chi è adulto, ma non ancora in odore di pensionamento, cresce l’impressione che a fronte di genitori assolutamente incapaci di educare i loro figli, vi sia uno Stato vieppiù rinunciatario. Sul CdT di venerdì scorso Romano Piazzini, comandante della Polizia cantonale, ha scritto che “Non sono rari i casi in cui pattuglie di polizia, accompagnando a casa giovani minorenni sorpresi in giro a notte fonda spesso in preda ad alcol e droghe, vengono aspramente biasimate dai genitori. ‘Non avete di meglio da fare? Correte dietro ai ladri invece di infastidire i nostri figli’, sono frasi ricorrenti (e fra le più gentili).”
È ovvio che se il comandante della polizia si limitasse a prendere atto di una simile tendenza senza nulla aggiungere, dovremmo concludere che è uno sprovveduto e che la nostra sicurezza è in pessime mani. Ma Piazzini, partendo dal rilievo dei suoi agenti, lancia un poderoso macigno nell’acqua cheta dello stagno, riferendo di un ampio dibattito che ha attualmente corso in Francia. Le autorità politiche e giudiziarie transalpine sembrano infatti decise a richiamare i genitori dei minorenni alle loro precise responsabilità, tanto che – riferisce Piazzini – “Nel 1998 il ministro di giustizia rammentava ai procuratori pubblici l’esistenza dell’art. 227-17 del Codice penale francese in virtù del quale è possibile condannare un genitore a due anni di detenzione qualora abbia compromesso la salute, la sicurezza, la moralità o l’educazione di un figlio minorenne”.
Insomma: in Francia il dibattito è aperto e sarebbe utile che s’aprisse anche da noi. Perché un conto è incolpare la scuola di non educare e la polizia di non occuparsi dei ladri (ma i ragazzi della stazione locarnese che fanno? un garbato minuetto?), e un altro tentare seriamente di risolvere un problema che di sicuro si acuirà, se tutti insieme non saremo in grado di analizzare lucidamente la situazione che si è creata: urge un contributo che non sia solo, e ipocritamente, “politically correct”, ma che abbia il pregio di chiamar le cose col loro nome. In buona sostanza, non si tratta di legittimare il manrovescio e il manganello gratuito, ma di costringere i genitori ai loro obblighi parentali: crescere e educare un figlio è troppo importante, per poterlo delegare alla scuola e, più in generale, allo Stato.
Per una volta, dunque, scuola e polizia hanno qualcosa in comune: l’impotenza di fronte a comportamenti che solo la malafede può addossare alla società. Frattanto lo Stato banalizza l’alcol, riducendo l’età in cui lo si può assaporare indisturbati al bar o – più prosaicamente – al pub.

Ma è una scuola o un “asilo”?

Qualche anno fa il vecchio e indimenticabile Asilo ha cambiato nome, diventando Scuola dell’infanzia. In verità non era la prima volta: da Casa dei bambini era passato a Scuola materna, ma tutti noi persistiamo a chiamarlo Asilo. Se me ne occupo in questa rubrica è perché anche questa gloriosa istituzione – che dà lustro al Ticino scolastico, forte di una tradizione che affonda le sue radici lontano nel tempo – comincia a dar segni di qualche ineluttabile confusione. L’asilo, molto più che i gradi scolastici successivi, è un cocktail di educazione, insegnamento e sorveglianza. Anche se sui codici non lo si scrive mai, la scuola dell’infanzia e la scuola elementare ricoprono anche un fondamentale ruolo di custodia dei frugoletti, per far sì che i loro genitori possano occuparsi d’altro e mandare avanti la famiglia.
Si tratta di un compito assolutamente gradito, oltre che utile all’intero Paese, poiché in caso contrario molte famiglie si troverebbero in difficoltà, non potendo conciliare turni di lavoro e esigenza di accudire i pargoli. D’altra parte la stessa Legge specifica che “…la scuola dell’infanzia e la scuola elementare favoriscono il processo di socializzazione del bambino, sviluppando le sue facoltà motorie, affettive e cognitive”: scuola in tutti i sensi, quindi, anche se forse sarebbe il caso di cominciare a pensare a qualche correttivo, soprattutto dopo che il successo massiccio della votazione del 18 febbraio 2001 ha fatto prosperare le richieste sul fronte del sociale. Ad esempio: come si sa, la scuola dell’infanzia può accogliere bambini dai 3 ai 6 anni di età. È pure vero che, di regola, poco più della metà dei bambini di tre anni la frequenta: in parte per scelta delle famiglie, in parte per mancanza di spazi.
È così che già nell’aprile del 2001 la parlamentare Monica Duca Widmer aveva chiesto una modifica della Legge per sostenere l’ammissione del maggior numero possibile di bambini di tre anni, modifica che il Parlamento non ha accettato, invitando però i Comuni a darsi da fare per accogliere nei propri asili il maggior numero possibile di treenni. Al di là delle indubbie ricadute sul piano della socializzazione e delle acquisizioni – la vita di gruppo porta sempre a imparare – è comunque utile chiedersi fino a che punto questa (nuova) esigenza faccia parte dei compiti del Dipartimento dell’Educazione. Personalmente non ne sono tanto convinto, anche perché la convivenza in uno stesso gruppo di allievi di età così diverse pone da sempre irrisolti problemi. Oltre a ciò, noi sappiamo che i bimbi di tre anni iscritti all’asilo hanno una frequenza molto parziale, spesso limitata a qualche ora e a qualche mattina, e che non necessariamente usufruiscono dell’insegnamento riservato ai loro compagni più grandicelli.
Che vi sia poi una certa promiscuità nel definire ruoli di sorveglianza e ruoli educativi è dato dalla grande differenza che intercorre tra asili dotati di mensa e asili che ne sono sprovvisti. A parte le disparità salariali tra maestre che mangiano coi loro allievi e colleghe che se ne vanno a casa loro (per intenderci: chi lavora oltre un’ora in più al giorno percepisce tre e una cicca), non è chiaro il senso stesso della refezione: perché la legge afferma che “…la refezione è parte integrante dell’attività educativa e, quindi, il docente titolare ne è responsabile”. Ciò potrebbe significare che gli istituti senza refezione sono meno educativi degli altri. D’altra parte pochi anni fa anche l’asilo si è dotato del mercoledì pomeriggio di vacanza, come le altre scuole, e addirittura di programmi scolastici che stabiliscono i principi generali dell’impostazione pedagogica, i criteri organizzativi generali, le aree educative e i relativi obiettivi. Ma allora: è una Scuola o è un Asilo?
Come detto, la scelta toponomastica è stata precisa e cosciente. Ora è giunto il momento di rimettere al Dipartimento della Socialità tutto ciò che con la scuola non ha niente a che fare, erodendo però energie e soldi.

Una missione sempre più donchisciottesca

Sul Corriere del 1° febbraio, il garbato lettore Franco Cavallero di Lugano ha fatto le pulci al mio ultimo intervento su questo giornale, quando me l’ero presa con un gruppo di parlamentari che, attraverso una mozione, sollecita la creazione di strutture adeguate per occuparsi degli allievi superdotati. “Secondo me – scrive il signor Cavallero, che ringrazio per l’opportunità che mi offre di aggiungere qualche spunto al ragionamento – la scuola fa male a snobbare i migliori”. E sottolinea che “…esistono tanti altri allievi (quanti?), di oro meno fino, che a scuola si annoiano di noia mortale”.
Per quanto mi concerne, ho da tempo il dubbio che a scuola siano in molti a tediarsi – allievi, sì, ma anche insegnanti e dirigenti. A differenza però del mio civile interlocutore, non me la sento di addossare la colpa ai pedagogisti, rei di aver imposto un modello basato sull’appiattimento dei comportamenti e dei saperi, che tenderebbe a farsene un baffo di tutte le punte per creare una siepe bassa e ben livellata. D’altra parte è pur vero che per molti anni la scuola è andata avanti a occuparsi solo dei diseredati – socialmente e per dotazione naturale – scordandosi dei migliori e dei normalmente dotati, col bel risultato che l’appiattimento su una specie di pensiero misero e uniforme si sta sedimentando, se già non è una realtà.
Ma versare lacrime su sbagli commessi in tempi nemmeno troppo lontani non serve a migliorare una scuola che, a tutt’oggi, è comunque confrontata con problemi d’identità e di ruolo che fino a vent’anni fa neppure si potevano immaginare. Per la prima volta nella storia, la scuola non è più specchio della società, ma la insegue ansimando, con incedere sgangherato. Di certo non è con la restaurazione di metodologie d’antan che si possono risolvere i tormenti di un’istituzione che per davvero dovrebbe essere in grado di offrire il massimo a tutti i suoi allievi, siano essi debolucci o superdorati, figli di medici o di lavapiatti, indigeni o stranieri. La scuola di un tempo, quella dove i migliori (i più fortunati?) erano additati come esempio per gli altri – che in qualche caso riuscivano pure a imitarli e a trarne qualche vantaggio – si fondava su alcuni punti fissi condivisi da tutti, ma proprio tutti. I programmi scolastici e l’immagine di “buona educazione” si tramandavano di generazione in generazione, con variazioni minute, e la scuola – soprattutto quella dell’obbligo – fungeva da cinghia di trasmissione e da catalizzatore dell’immutabilità dell’appartenenza socio-culturale.
Oggi, per cause che vanno certo al di là delle responsabilità o dei meriti del sistema scolastico, il divario culturale tra due generazioni consecutive è sempre più alto, tanto che i dirigenti scolastici di tutto l’occidente non sanno più con precisione che pesci pigliare, particolarmente dopo l’ubriacatura di sapere scientifico e tecnologico che ha seriamente inquinato le nostre culture. Quale valore hanno ancora la letteratura e la filosofia, l’arte e l’etica della convivenza civile, lo studio della storia e il piacere della poesia? Avessi la bacchetta magica, saprei come (ri)fondare una scuola dell’obbligo che sappia educare cittadini critici, consapevoli e istruiti. Ma occorrono scelte precise, non cerotti per tamponare oggi una lacerazione e domani quell’altra, lasciando tutto il resto alla mercé del mondo economico e dei mass media.
Così sarebbe conveniente avere finalmente il coraggio di metter mano a quelle importanti riforme strutturali evocate da almeno un decennio e continuamente insabbiate sotto una montagna di pretesti: di certo una scuola che funziona a compartimenti stagni, ancorata alla certificazione annuale, a griglie orarie assurde e desuete, alla pedagogia del test, non può in nessun modo rispondere a esigenze sempre più differenziate: malgrado tutta la buona volontà di chi, dentro l’aula, cerca davvero di dare il massimo ad ogni suo allievo, nel rispetto della classe e del Paese. Ma sta diventando una missione sempre più donchisciottesca.

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola