Da qualche giorno è giunto nelle librerie del Cantone il volume di Ivo Dellagana e Franco Losa “Dimat – Differenziare in matematica” (cfr. Corriere del Ticino del 26 ottobre ), un testo che prende le mosse da un originale approccio all’insegnamento della matematica nel II ciclo della scuola elementare. Dimat ha mosso i primi passi nell’ormai lontano 1990 e, a tutt’oggi, è stato adottato da un gran numero di insegnanti, beninteso con l’essenziale autorizzazione dell’autorità scolastica. Neanche il tempo di vendere le prime copie del libro, che già il parlamentare Norman Gobbi ha rivolto una malevola interrogazione al Governo.
Diremo subito che, a mente nostra, Dimat rappresenta un tentativo apprezzabile e concreto di adattare l’insegnamento – in questo caso della matematica – alle necessità di quella Scuola che, vieppiù, deve fare in modo che tutti gli allievi possano raggiungere gli obiettivi fissati dai programmi scolastici, differenziando i percorsi formativi e i tempi di apprendimento, partendo dalle attitudini e dalle caratteristiche individuali di ogni allievo. In altre parole, scegliere di insegnare la matematica basandosi sulla struttura pedagogica suggerita da Dimat, significa anteporre alla selezione scolastica, che ancor oggi è la vera palla al piede di ogni scuola repubblicana, l’apprendimento da parte del maggior numero possibile di allievi di ognuno degli obiettivi definiti dai programmi.
Secondo Gobbi, però, il metodo proposto da Dellagana e Losa è fallimentare. Scrive infatti al Governo: “La situazione che si presenta al primo anno delle scuole secondarie è tutt’altro che soddisfacente. Infatti, gli allievi che hanno appreso la matematica attraverso Dimat sono spesso carenti nelle conoscenze effettive della materia, tanto da dover recuperare il programma della scuola primaria, a scapito dell’insegnamento globale”. E domanda tra le altre cose: “Sono state fatte delle valutazioni e delle verifiche dei risultati di Dimat a livello di scuole secondarie? Se sì, con quali esiti?”. E ancora: “È stato fatto un sondaggio presso i docenti e i direttori d’istituto sull’approvazione e accettazione del programma?”. Diciamolo schiettamente: più che un’interrogazione, l’atto del parlamentare leghista sembra una sparatoria per conto terzi, tanto che prima afferma che la situazione è insoddisfacente e, poi, chiede se qualcuno si è preoccupato di valutare e verificare l’impatto con la scuola media da parte degli allievi che hanno seguito il “metodo” Dimat. Ma la perla, la vera conferma che Gobbi altro non è se non il megafono di un mandante interessato, è la domanda che riguarda il ruolo degli insegnanti. Interroga il parlamentare leghista: “Corrisponde al vero che nel processo Dimat il docente non ha alcuna influenza sull’apprendimento dell’allievo?” È questa la migliore dimostrazione che Gobbi – lui sì – non ha valutato un bel cavolo e non ha verificato minimamente l’attendibilità del suo mentore.
Giacché se c’è una componente che depone assolutamente a favore di Dimat, questa risiede proprio nel coinvolgimento degli insegnanti, perché l’approccio, quantunque munito di parecchio materiale didattico, non è un arido e ampolloso eserciziario, bensì un congegno pedagogico che dev’essere compreso e che impegna il maestro non solo a livello di formazione (svolta per lo più fuori dal tempo di scuola), ma anche – e si potrebbe dire soprattutto – nel contatto diretto e giornaliero con ogni allievo: sia con chi è giunto a scuola col turbo e vorrebbe estendere le sue conoscenze, che con quell’altro un po’ sgangherato, che necessita di maggiori attenzioni.
In verità i programmi di matematica della scuola elementare – che il consigliere di fiducia di Gobbi potrebbe leggersi con tutta calma – non contemplano obiettivi fuori dalla portata di ogni ragazzo di dieci anni normalmente dotato: perché, dunque, abbracciare percorsi pedagogici che sembrano fatti apposta per bocciarne almeno qualcuno? In questo senso, Dimat è una risposta concreta a una Scuola dell’obbligo veramente efficace. Che poi non tutto giri per il verso giusto – Dimat o meno – è un altro paio di maniche. Ma la scuola elementare, che sino ad oggi è ancora una scuola vivibile, non deve prendere lezioni da chi ha inventato i livelli e quelle cervellotiche medie che impediscono a più della metà degli allievi di accedere alla scuola media superiore. Anzi: c’è da augurarsi che Dimat penetri in fretta anche nella scuola media.
Ragionando sugli eucarioti…
Eucarioti! No, cari lettori, non vi sto ingiuriando, ma scommetto con un’altissima probabilità di vittoria che ’sta parola non l’avete mai udita. Riconosco che mi sto pavoneggiando tramite l’erudizione di mio figlio, che frequenta la scuola media. Ho scoperto di essere anch’io un eucariota (non garantisco la correttezza del singolare) da quando, svogliatamente e del tutto involontariamente, ho origliato mia moglie che lo aiutava a ripassare i suoi appunti, in vista del test di scienze.
Confesso che sono diventato adulto senza sapere di esserlo – un eucariota, voglio dire. Anzi, non sapevo nemmeno che esistesse questo vocabolo e, ciò malgrado, nella vita ho già fatto un po’ di tutto. A dire il vero, quando ho finito la scuola dell’obbligo – ormai tanti anni fa – non ero molto in chiaro neanche sui teoremi di Euclide. La scoperta dell’esistenza degli eucarioti, quindi, mi ha mostrato che, semmai, i meccanismi della selezione scolastica sono vieppiù peggiorati negli anni, malgrado il ’68, l’enorme espansione delle scienze dell’educazione e a dispetto della diffusa conoscenza accumulata al riguardo anche dai profani.
Tanto è vero che, mettendo ordine tra le mie carte, mi è capitato tra le mani un documento che una ventina di assemblee dei genitori delle scuole medie hanno consegnato al DIC (ora DECS) nel maggio scorso. Si tratta di una lunga serie di richieste e proposte per migliorare questo importante settore della scuola dell’obbligo; si legge tra le altre cose: “Costatiamo […] inspiegabili differenze per uno stesso allievo nei risultati e nelle note da docenti diversi nella stessa materia”. Verità scontata, che collima perfettamente con questo discorso sugli eucarioti, perché l’ignoranza di questo termine, appartenente al gergo della biologia, rischia di penalizzare la valutazione dell’allievo, mentre non è detto che due insegnanti di scienze diano la stessa importanza all’eucariota stesso. O no?
Tengo a precisare che non ce l’ho con gli eucarioti. Però, così come si può fare a meno degli eucarioti, si può anche vivere senza Leopardi e senza Mozart, si può visitare l’Australia senza sapere nulla del capitano Cook, si può andare a teatro senza aver mai sentito parlare di Shakespeare ed è persino possibile diventare gran consigliere della Repubblica senza aver mai sentito parlare del Sonderbund. Leopardi, Mozart, Shakespeare, il Sonderbund (e gli eucarioti) sono tutti elementi di conoscenza; nessuno, però, è essenziale nella formazione scolastica di base, tanto che la bella nota in italiano la si può rimediare anche senza aver mai letto una riga di Pascoli o Gadda: tutto dipende invece dagli interessi specifici del singolo insegnante, che privilegerà la chiacchiera alla lettura, l’analisi logica alla poesia, il giornale scolastico al cinema. Stesso discorso per la storia e la geografia; persino per la matematica – che ha programmi più puntuali – vi è chi dedica le maggiori attenzioni a chi meno ne ha bisogno, imprimendo all’insegnamento ritmi da Formula 1, nel risoluto intento di liberarsi in fretta degli allievi-catorcio: creandosi nel contempo un alibi di ferro.
Disgraziatamente si parla troppo poco di questo scempio dei cervelli perpetrato anno dopo anno dalla scuola dell’obbligo, dando per scontato che la selezione scolastica – le note e le relative conseguenze – avviene su basi scientifiche. Tanto che – narrano le cronache – il neo-presidente dei Giovani Liberali Ticinesi si serve addirittura dei meccanismi selettivi della scuola per spiegare la sua idea di liberalismo: “Lo Stato deve garantire al cittadino pari opportunità, ma poi è l’individuo che deve fare della propria vita ciò che sarà. Tutti hanno il diritto di andare a scuola, non tutti hanno il diritto di riuscire bene (a 12/13 anni, aggiungo). Sarà lo scolaro bravo, determinato, con la voglia di fare, che otterrà i migliori risultati”. Come se non fosse evidente che la nota scaturisce da un complesso di variabili che poco o nulla hanno a che fare con la buona volontà di un qualsiasi dodicenne tanto o poco dissennato. Invece – come ha scritto qualche anno fa il sociologo Philippe Perrenoud – la scuola, prima di erogare valutazioni a destra e a manca, dovrebbe insegnare.
Scuola pedagogica: ma chi sono i genitori?
La nascita è sempre un avvenimento di grande portata emotiva, in primo luogo per i genitori, i possibili fratelli maggiori e il parentado più prossimo. Quando i genitori, poi, sono persone importanti, il momento della venuta al mondo assume i contorni dell’Evento pubblico – oltre che lieto – con tanto di presentazione al Tempio e, ai giorni nostri, inevitabile intervento compatto dei massmedia.
Così è stato anche per l’Alta Scuola Pedagogica, nata più o meno in sordina il 19 febbraio di quest’anno, ma presentata al grande pubblico lunedì scorso, attraverso una gessatissima cerimonia di inaugurazione, che ha richiamato sulle scomode poltrone del Teatro di Locarno una lunga trafila di VIP del mondo pedagogico e politico ticinese, attorniata da zii e prozii, cugini di primo e di secondo grado, nonni, abiatici, suoceri e cognate.
Chi si aspettava una festa – un tripudio di idee e di fervori – ha però lasciato Locarno con le pive nel sacco. Diremo subito che le note più giovani e festose sono venute dall’ensemble di chitarristi della Scuola Popolare di Musica di Locarno, che ha ingentilito la liturgia, portando in platea una ventata di giovinezza e di futuro, che certo non stonava con quello che avrebbe dovuto essere uno sguardo sull’avvenire. Non che ci aspettassimo chissà quali circonvoluzioni retoriche da parte del Dipartimento e della Direzione della nuova scuola. Il Consigliere di Stato Gabriele Gendotti ha tracciato a grandi linee la genealogia recente dell’ASP e ha giustamente sottolineato l’importanza sempre più crescente della formazione dei formatori, affinché la scuola frequentata dai nostri bambini e dai nostri giovani possa crescere in sintonia con il resto della Società, dotandosi dei mezzi necessari per farli diventare cittadini consapevoli e critici.
Non così il Direttore della neonata Alta Scuola Pedagogica, che ha esordito con un breve richiamo alle radici lontane della Scuola Magistrale – voluta dal Franscini nella seconda metà dell’800 – per poi smarrirsi nei meandri tecnico-statistici dell’inauguranda scuola, in un crescendo di ingegneria proto-istituzionale e di ineluttabile invito allo sbadiglio. È poi toccato a Piero Bertolini, insigne professore dell’università di Bologna, tentare una prolusione degna di tale definizione: compito che Bertolini ha svolto in modo plausibile, mettendo in luce il lato più propriamente politico e ideologico della pedagogia e richiamando l’assoluta necessità, per una scuola democratica, di escogitare l’indispensabile coesione tra concetto di formazione e prassi educative. Insomma: i formatori di domani (ma già quelli di oggi!) dovranno sempre più fronteggiare l’ingrato compito di capire il mondo circostante per contribuire alla crescita culturale e civile del Paese, superando alcuni sciocchi ideologismi di un passato che sembra lontanissimo – quello dell’antiautoritarismo a oltranza –, ma evitando nel contempo di cadere negli autoritarismi tanto in voga di questi tempi.
Per carità, nulla di originale: son cose che Bertolini scrive da almeno vent’anni, tanto che qualcuno – al di là di ogni provincialismo – s’è chiesto se la lezione inaugurale non doveva essere assunta da Janner in persona. Ma qualcuno doveva pur dirle, certe cose, perché il lungo e tormentato travaglio dell’Alta Scuola Pedagogica e l’eccessiva (involontaria?) sobrietà del suo battesimo potevano suscitare una sorta di umiltà posticcia, quasi che i genitori si vergognassero della loro nuova creatura, di cui nessuno – sembrerebbe – vuole assumersi la paternità: e in tal senso, lunedì non sono mancati accenni plurimi alla Confederazione e al Gran Consiglio, considerati come scellerati e un po’ tetri ispiratori dell’Alta Scuola Pedagogica: come dicono i bambini, “Non sono stato io!”.
Da parte nostra auguriamo all’Alta Scuola Pedagogica di saper crescere forte e sana, a dispetto di chi ha voluto un battesimo in tono minore. Sappiamo che i problemi sono tanti e importanti, ma all’interno dell’ASP non mancano le personalità in grado di lasciare un’impronta qualificante, mirando ad una scuola autenticamente democratica e attenta alle aspirazioni delle nuove generazioni e alle speranze del Paese. C’è solo da augurarsi che al momento della Confermazione la festa sia finalmente tale e che a nessuno venga nuovamente in mente di metterne in dubbio la paternità: in fondo anche l’ASP è figlia di questo paese e merita tutti i nostri sforzi e tutto il rispetto dovuto.
A cominciare dai suoi padri.
Una tragedia per imparare a pensare
È fuor di dubbio che l’abbattimento delle Torri Gemelle e l’attacco al Pentagono, al di là della loro drammaticità e delle implicazioni politiche ed economiche, hanno rappresentato un evento mediatico di sicuro interesse pedagogico, vuoi per le sue dimensioni in termini di audience, vuoi per come l’informazione è stata trattata lungo tutto l’arco dell’anno trascorso. Qualche giorno fa discutevo coi miei figli e un loro amico – ragazzi in età di scuola media – dell’11 settembre. Com’è mia consuetudine, cercavo di far traballare qualche opinione manichea, richiamando le tesi sostenute da Thierry Meyssan nel suo “L’effroyable imposture” (in italiano “L’incredibile menzogna. Nessun aereo è caduto sul Pentagono”). Coi tre ragazzi – dicevo – stavo tentando di far sorgere qualche sana titubanza sui buoni e i cattivi della vicenda, quando uno mi chiede, a bruciapelo: “Cosa faresti se in questo momento suonassero alla porta e ti trovassi di fronte a Osama bin Laden in persona?”.
“Beh, farei in modo di fargli avere un giusto processo”. “E se fosse ferito?”, mi ha incalzato il ragazzo. “Chiamerei l’ambulanza”, ho replicato. Sono rimasti un po’ perplessi tutt’e tre. Ne ho così tratto la convinzione che nell’anno passato non hanno mai avuto una vera occasione per discutere dell’11 settembre, dell’Afghanistan, dei Talebani, di Bush, dell’antrace e di quant’altro ancora. Per loro solo certezze: di qua la triste combriccola di Al-Quaeda, i malvagi del racconto, capeggiati da un pazzo da sopprimere al più presto; di là i poliziotti del mondo, governati da quel simpaticone di un George W. Bush.
A scanso di equivoci, non sono antimaericano per partito preso, ma sulla vicenda ho tentato sin dall’inizio – non so con quanto successo – di mantenere una sana diffidenza verso tutti i mezzi di comunicazione di massa, tenuto conto che da un anno intero siamo esposti tutti insieme a un bombardamento di informazioni il cui orientamento è inequivocabile. Ora, per tornare ai nostri ragazzi e alle scuole che frequentano, non credo che il problema sia quello di convertirli alla “giusta causa”: in altre epoche di maggior fervore ideologico, varie faziosità avevano conquistato sprovveduti adolescenti al maoismo o al castrismo, senza fornir loro i mezzi adeguati per farsi un’onesta opinione personale: sfilare per le strade ticinesi al grido di “Ho Chi Minh! Ho Chi Minh!” mi appariva allora francamente ridicolo, mentre l’atteggiamento odierno del non prendere posizione e lasciar campo libero ai diversi tiggì mi spaventa ancor più.
È sicuro che per molti insegnanti, che erano studenti nel ’68 o giù di lì, dev’essere difficile oggi mettersi dalla parte dell’America; allo stesso tempo il mondo islamico – soprattutto per come lo conosciamo attraverso i nostri mass media – offre ancor meno spunti per rendercelo simpatico. Così si preferisce ammiccare, senza mettersi né di qua né di là, ma soprattutto senza appassionare i propri allievi attraverso una lettura di ciò che è successo, dei possibili protagonisti, dei molteplici elementi dell’intreccio. L’impressione è proprio che di questi avvenimenti a scuola non si parli, se non nei momenti di maggiore emotività. Tutto ciò mi ricorda il mio maestro di scuola elementare, che all’indomani del 22 novembre 1963 liquidò l’assassinio di John F. Kennedy con un predicozzo sulle armi giocattolo che poi insegnano a uccidere i presidenti…
Insomma, se sul serio desideriamo che la scuola (pubblica) educhi alla democrazia, dobbiamo fare il possibile affinché i nostri figli imparino a pensare e a crearsi delle opinioni personali, a capire la complessità delle cose, a dubitare sempre e comunque dei mass media, a porsi delle domande, a insospettirsi quando in troppi hanno la stessa opinione. In un suo articolo apparso sul “Corriere della Sera” di oltre trent’anni fa, Umberto Eco aveva sostenuto la tesi – cito a memoria – che “è importante imparare a confondersi le idee fin da piccoli, per avere le idee in chiaro da grandi”. Mi sembra – questo – un manifesto pedagogico di rilevante impatto, poiché l’insegnamento della civica, la famosa (e un po’ fumosa) educazione alla cittadinanza, non può fare astrazione da tutto il tortuoso mondo dell’informazione.
Dimenticavo: il mio giovane interlocutore, se dovesse incontrare bin Laden, lo ammazzerebbe con inconcepibile efferatezza, come ha imparato in dodici lunghi mesi di intenso condizionamento ideologico. Alla faccia della libertà.
Scuole comunali: quale futuro?
Con un titolaccio a effetto – “Scuole comunali al Cantone?” – il Giornale del Popolo ha lanciato negli ultimi scorci di questa penosa estate un interrogativo che non mancherà nei prossimi mesi di animare il dibattito attorno alla scuola pubblica ticinese. È difficile capire in dettaglio quali motivi stiano alla base di quello che il capo del nuovo Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport (nuovo nel nome, almeno per ora) non esita a indicare come uno dei temi della prossima legislatura. Ma già quell’articolo offre qualche riscontro.
Per prima cosa, Gabriele Gendotti afferma che “Il principio è giusto” perché “i Comuni, a parte le nomine, non hanno competenze di grande rilievo”. Nello stesso servizio, il capo della divisione della Scuola Diego Erba sottolinea che “… se è vero che il Cantone sussidia i docenti delle scuole dell’infanzia ed elementare, è pur anche vero che i Comuni mettono a disposizione edifici, personale amministrativo, di pulizia, materiale scolastico, scuole montane, doposcuola”. Erba, che è uno che soppesa le parole e non parla mai a vanvera (soprattutto coi giornalisti), non cita i direttori, i docenti speciali e quelli d’appoggio tra le “cose” messe a disposizione dai Comuni: l’omissione non è certo casuale, anche se – per il momento – è di ostica interpretazione.
In secondo luogo, lo stesso Consigliere di Stato mette l’accento sulla variopinta disponibilità finanziaria di cui possono fruire i Comuni, ciò che rischia di creare scuole di categoria A e Z: ecco quindi che l’accentramento di tutte le scuole sotto un unico cappello ministeriale riuscirebbe là dove la politica sussidiaria del Cantone sembra non poter arrivare: creare delle scuole comunali di categoria M, tutte uguali, tutte equamente né ricche né povere. Tutte medie. Ora è indubbio che non tutte le scuole comunali possono appoggiarsi su risorse finanziarie considerevoli; c’è chi è costretto a tirare la cinghia e a farla tirare ai suoi insegnanti, e c’è chi – al contrario – si può permettere fastosità che, in ogni modo, non necessariamente incidono sulla qualità dell’istruzione e dell’educazione.
Ma è pur lecito ricordare che le ristrettezze economiche in cui versano alcune scuole comunali sono state determinate da quello stesso Cantone che, negli ultimi anni, ha imposto nuovi servizi e nuove disposizioni e nuove spese e, nel contempo, ha falcidiato sussidi con la leggiadria di un norcino. Si pensi, ad esempio, che durante l’ultimo decennio i disposti cantonali in materia scolastica hanno indotto la creazione di direzioni scolastiche un po’ dappertutto, tanto che i direttori son quasi raddoppiati, anche se sono stipendiati interamente dai Comuni e dai Consorzi (ed è forse anche grazie all’incremento del numero dei direttori che il Cantone, a partire da lunedì prossimo, potrà fare a meno di un cospicuo numero di ispettori scolastici).
Fortunatamente, almeno fino all’altro ieri, non c’era l’abitudine di valutare le scuole in base alla tempra finanziaria. E in effetti non ci vuol molto a capire che vivere a caviale e champagne non sia più giovevole alla salute che una sana – e non certo principesca – dieta mediterranea. In altre parole: siamo sicuri che le scuole dei comuni più spiantati falliscano, là dove la prosperosa Lugano riesce a plasmare allievi “…in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà”? Chi l’ha detto? Quand’è stata fatta l’ultima verifica comparata? Quali sono gli indicatori da esaminare per affermare se una scuola funziona bene o male?
Oggi, a sentire i grands commis della scuola di Stato, si direbbe che i tratti qualificanti della scuola risiedano nell’informatica e nell’insegnamento delle lingue moderne, inglese in primis. Nel frattempo abbiamo visto che anche i quindicenni ticinesi, in quanto a padronanza della lingua madre, se la cavano maluccio. Certo, non tutte le scuole comunali sono allacciate a internet e, come afferma Gendotti parlando col GdP, qualche maestro è in difficoltà davanti all’insegnamento del francese. Ma, nel contempo, ci si è sempre vantati del fatto che la scuola comunale è una scuola viva e vivibile, che ha saputo affrontare prima del Cantone problematiche nuove e, a volte, complesse: con l’intelligenza e la fantasia prima che col vil denaro. Perché l’eutanasia, allora?