Una tragedia per imparare a pensare

È fuor di dubbio che l’abbattimento delle Torri Gemelle e l’attacco al Pentagono, al di là della loro drammaticità e delle implicazioni politiche ed economiche, hanno rappresentato un evento mediatico di sicuro interesse pedagogico, vuoi per le sue dimensioni in termini di audience, vuoi per come l’informazione è stata trattata lungo tutto l’arco dell’anno trascorso. Qualche giorno fa discutevo coi miei figli e un loro amico – ragazzi in età di scuola media – dell’11 settembre. Com’è mia consuetudine, cercavo di far traballare qualche opinione manichea, richiamando le tesi sostenute da Thierry Meyssan nel suo “L’effroyable imposture” (in italiano “L’incredibile menzogna. Nessun aereo è caduto sul Pentagono”). Coi tre ragazzi – dicevo – stavo tentando di far sorgere qualche sana titubanza sui buoni e i cattivi della vicenda, quando uno mi chiede, a bruciapelo: “Cosa faresti se in questo momento suonassero alla porta e ti trovassi di fronte a Osama bin Laden in persona?”.
“Beh, farei in modo di fargli avere un giusto processo”. “E se fosse ferito?”, mi ha incalzato il ragazzo. “Chiamerei l’ambulanza”, ho replicato. Sono rimasti un po’ perplessi tutt’e tre. Ne ho così tratto la convinzione che nell’anno passato non hanno mai avuto una vera occasione per discutere dell’11 settembre, dell’Afghanistan, dei Talebani, di Bush, dell’antrace e di quant’altro ancora. Per loro solo certezze: di qua la triste combriccola di Al-Quaeda, i malvagi del racconto, capeggiati da un pazzo da sopprimere al più presto; di là i poliziotti del mondo, governati da quel simpaticone di un George W. Bush.
A scanso di equivoci, non sono antimaericano per partito preso, ma sulla vicenda ho tentato sin dall’inizio – non so con quanto successo – di mantenere una sana diffidenza verso tutti i mezzi di comunicazione di massa, tenuto conto che da un anno intero siamo esposti tutti insieme a un bombardamento di informazioni il cui orientamento è inequivocabile. Ora, per tornare ai nostri ragazzi e alle scuole che frequentano, non credo che il problema sia quello di convertirli alla “giusta causa”: in altre epoche di maggior fervore ideologico, varie faziosità avevano conquistato sprovveduti adolescenti al maoismo o al castrismo, senza fornir loro i mezzi adeguati per farsi un’onesta opinione personale: sfilare per le strade ticinesi al grido di “Ho Chi Minh! Ho Chi Minh!” mi appariva allora francamente ridicolo, mentre l’atteggiamento odierno del non prendere posizione e lasciar campo libero ai diversi tiggì mi spaventa ancor più.
È sicuro che per molti insegnanti, che erano studenti nel ’68 o giù di lì, dev’essere difficile oggi mettersi dalla parte dell’America; allo stesso tempo il mondo islamico – soprattutto per come lo conosciamo attraverso i nostri mass media – offre ancor meno spunti per rendercelo simpatico. Così si preferisce ammiccare, senza mettersi né di qua né di là, ma soprattutto senza appassionare i propri allievi attraverso una lettura di ciò che è successo, dei possibili protagonisti, dei molteplici elementi dell’intreccio. L’impressione è proprio che di questi avvenimenti a scuola non si parli, se non nei momenti di maggiore emotività. Tutto ciò mi ricorda il mio maestro di scuola elementare, che all’indomani del 22 novembre 1963 liquidò l’assassinio di John F. Kennedy con un predicozzo sulle armi giocattolo che poi insegnano a uccidere i presidenti…
Insomma, se sul serio desideriamo che la scuola (pubblica) educhi alla democrazia, dobbiamo fare il possibile affinché i nostri figli imparino a pensare e a crearsi delle opinioni personali, a capire la complessità delle cose, a dubitare sempre e comunque dei mass media, a porsi delle domande, a insospettirsi quando in troppi hanno la stessa opinione. In un suo articolo apparso sul “Corriere della Sera” di oltre trent’anni fa, Umberto Eco aveva sostenuto la tesi – cito a memoria – che “è importante imparare a confondersi le idee fin da piccoli, per avere le idee in chiaro da grandi”. Mi sembra – questo – un manifesto pedagogico di rilevante impatto, poiché l’insegnamento della civica, la famosa (e un po’ fumosa) educazione alla cittadinanza, non può fare astrazione da tutto il tortuoso mondo dell’informazione.
Dimenticavo: il mio giovane interlocutore, se dovesse incontrare bin Laden, lo ammazzerebbe con inconcepibile efferatezza, come ha imparato in dodici lunghi mesi di intenso condizionamento ideologico. Alla faccia della libertà.

Scuole comunali: quale futuro?

Con un titolaccio a effetto – “Scuole comunali al Cantone?” – il Giornale del Popolo ha lanciato negli ultimi scorci di questa penosa estate un interrogativo che non mancherà nei prossimi mesi di animare il dibattito attorno alla scuola pubblica ticinese. È difficile capire in dettaglio quali motivi stiano alla base di quello che il capo del nuovo Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport (nuovo nel nome, almeno per ora) non esita a indicare come uno dei temi della prossima legislatura. Ma già quell’articolo offre qualche riscontro.
Per prima cosa, Gabriele Gendotti afferma che “Il principio è giusto” perché “i Comuni, a parte le nomine, non hanno competenze di grande rilievo”. Nello stesso servizio, il capo della divisione della Scuola Diego Erba sottolinea che “… se è vero che il Cantone sussidia i docenti delle scuole dell’infanzia ed elementare, è pur anche vero che i Comuni mettono a disposizione edifici, personale amministrativo, di pulizia, materiale scolastico, scuole montane, doposcuola”. Erba, che è uno che soppesa le parole e non parla mai a vanvera (soprattutto coi giornalisti), non cita i direttori, i docenti speciali e quelli d’appoggio tra le “cose” messe a disposizione dai Comuni: l’omissione non è certo casuale, anche se – per il momento – è di ostica interpretazione.
In secondo luogo, lo stesso Consigliere di Stato mette l’accento sulla variopinta disponibilità finanziaria di cui possono fruire i Comuni, ciò che rischia di creare scuole di categoria A e Z: ecco quindi che l’accentramento di tutte le scuole sotto un unico cappello ministeriale riuscirebbe là dove la politica sussidiaria del Cantone sembra non poter arrivare: creare delle scuole comunali di categoria M, tutte uguali, tutte equamente né ricche né povere. Tutte medie. Ora è indubbio che non tutte le scuole comunali possono appoggiarsi su risorse finanziarie considerevoli; c’è chi è costretto a tirare la cinghia e a farla tirare ai suoi insegnanti, e c’è chi – al contrario – si può permettere fastosità che, in ogni modo, non necessariamente incidono sulla qualità dell’istruzione e dell’educazione.
Ma è pur lecito ricordare che le ristrettezze economiche in cui versano alcune scuole comunali sono state determinate da quello stesso Cantone che, negli ultimi anni, ha imposto nuovi servizi e nuove disposizioni e nuove spese e, nel contempo, ha falcidiato sussidi con la leggiadria di un norcino. Si pensi, ad esempio, che durante l’ultimo decennio i disposti cantonali in materia scolastica hanno indotto la creazione di direzioni scolastiche un po’ dappertutto, tanto che i direttori son quasi raddoppiati, anche se sono stipendiati interamente dai Comuni e dai Consorzi (ed è forse anche grazie all’incremento del numero dei direttori che il Cantone, a partire da lunedì prossimo, potrà fare a meno di un cospicuo numero di ispettori scolastici).
Fortunatamente, almeno fino all’altro ieri, non c’era l’abitudine di valutare le scuole in base alla tempra finanziaria. E in effetti non ci vuol molto a capire che vivere a caviale e champagne non sia più giovevole alla salute che una sana – e non certo principesca – dieta mediterranea. In altre parole: siamo sicuri che le scuole dei comuni più spiantati falliscano, là dove la prosperosa Lugano riesce a plasmare allievi “…in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà”? Chi l’ha detto? Quand’è stata fatta l’ultima verifica comparata? Quali sono gli indicatori da esaminare per affermare se una scuola funziona bene o male?
Oggi, a sentire i grands commis della scuola di Stato, si direbbe che i tratti qualificanti della scuola risiedano nell’informatica e nell’insegnamento delle lingue moderne, inglese in primis. Nel frattempo abbiamo visto che anche i quindicenni ticinesi, in quanto a padronanza della lingua madre, se la cavano maluccio. Certo, non tutte le scuole comunali sono allacciate a internet e, come afferma Gendotti parlando col GdP, qualche maestro è in difficoltà davanti all’insegnamento del francese. Ma, nel contempo, ci si è sempre vantati del fatto che la scuola comunale è una scuola viva e vivibile, che ha saputo affrontare prima del Cantone problematiche nuove e, a volte, complesse: con l’intelligenza e la fantasia prima che col vil denaro. Perché l’eutanasia, allora?

Riflettendo sulle vacanze estive

Tra due giorni per gli scolari ticinesi inizierà la lunga pausa estiva: fino al due settembre, insieme alle loro famiglie, assaporeranno le spiagge tropicali, s’inerpicheranno per boschi e monti alla ricerca di tranquillità, avventura e aria salubre, e i più grandicelli non disdegneranno un breve periodo sulla costa adriatica, non tanto per immergersi in quel mare oleoso e stipato di carni frollate, quanto per tuffarsi nel più colossale divertimentificio d’Europa. In fin dei conti undici settimane di incontrastate vacanze permetteranno una reale decontaminazione dall’affaticamento scolastico, soprattutto quest’anno che le vacanze pasquali risalgono ormai a tanto tempo fa. Naturalmente la pausa estiva allieterà anche gli insegnanti, pur considerando che – per la logica delle cose – durerà un po’ meno. Lungi da me l’idea o la voglia di far dell’ironia e di togliere dalla naftalina la vetusta barzelletta sui tre maestri che, insieme, fanno un anno di vacanza: un po’ perché essere insegnante oggi è difficile e logorante, e un po’ perché, nel complesso, noi ticinesi non facciamo più vacanze dei nostri connazionali a est o a ovest del Röstigraben.
Però dovrò ugualmente rassegnarmi all’annuale – e tutta estiva – tiritera del mio vicino di casa: l’amico Fritz affitta un appartamento di vacanza in cui trascorre gran parte delle sue vacanze scolastiche con la famiglia; arriverà quando io sarò già in vacanza da tre settimane e, a inizio agosto, quando comincerà a far le valigie per lasciare il Ticino, mi chiederà quando esordirà il nuovo anno scolastico nella Sonnenstube: quando gli dirò che torneremo a scuola ad inizio settembre, non saprà starsene zitto e controllare i movimenti del viso. Come al solito sarò vittima della sua ironia e dei logori luoghi comuni sui ticinesi: levantini e un po’ indolenti, più cicale che formiche, amanti dell’ozio e del divertimento, denigratori dell’impegno e dell’operosità teutonica.
È vero che nessuno fa tante vacanze durante l’estate come noi. Mediamente, in Svizzera, la pausa estiva dura sei settimane, con una punta minima di tre settimane in Argovia e una massima di otto nel Vallese. Però si dà il caso che la durata dell’anno scolastico è più o meno simile in tutto il Paese, il che significa che gli altri cantoni avranno più vacanze di noi in autunno, a carnevale (loro le chiamano Sportferien) e a Pasqua. O no? A dire il vero, anche Fritz qualche ragione ce l’ha, perché in tutta la Svizzera si va obbligatoriamente a scuola per almeno nove anni e per un minimo di trentotto settimane all’anno. Questo è quanto hanno stabilito i cantoni svizzeri nel 1970 (Concordato sulla coordinazione scolastica), ma il Ticino a quell’accordo non ha ancora aderito: da noi, come si sa, la scuola obbligatoria dura nove anni, ma la durata dell’anno scolastico è di trentasei settimane e mezza.
Proprio così, non trentasei o trentasette, ma trentasei e mezza. Quali alchimie sorreggano tutti questi modelli di calendario scolastico del nostro paese non è dato sapere. È legittimo credere che dietro decisioni tanto o poco definitive e incontrovertibili non vi sia null’altro che la tradizione. Una pausa più lunga o più corta in estate o in autunno, solleverebbe qui e altrove chissà quale putiferio. Ma tant’è: dal punto di vista scientifico non esiste un calendario “giusto”. Se si chiede un parere ad un qualsiasi ticinese, vi dirà che, in ogni modo, d’estate fa troppo caldo per andare a scuola, mentre un argoviese, quasi certamente, argomenterà che due e più mesi di vacanza rappresentano una sorta di formattazione del cervello. In realtà romandi, svizzerotedeschi e ticinesi s’assomigliano più di quel che si è portati a credere, e in base alle attitudini e alle conoscenze sarà duro distinguere un adulto che passava le estati della sua giovinezza a pancia all’aria, da quell’altro che, al contrario, sgobbava sui libri a mezz’agosto.
Per quanto mi concerne, non è tanto importante la quantità di scuola da affrontare, ma la sua qualità. I calendari scolastici rispondono soltanto a esigenze di custodia; sul piano dei sostanziali obiettivi della scuola, potremmo restarci di meno o di più, potremmo allungare o accorciare le giornate di scuola, le settimane, le vacanze. Oggi non esiste più – né in Ticino né altrove – una data “giusta” per dare inizio all’anno scolastico, una durata “giusta” delle vacanze estive, un’ora “giusta” per iniziare e terminare le lezioni… Di questi tempi il nostro DIC sta incentivando doposcuola e mense a tutto raggio, per sopperire ai bisogni di custodia dei nostri allievi. A questo punto varrebbe la pena d’essere conseguenti fino in fondo, creando un anno scolastico flessibile di venticinque settimane per gli allievi e di quaranta per i loro insegnanti: si risolverebbe il problema dell’aggiornamento e della formazione continua e ci si adatterebbe di più alle esigenze di padri e madri che lavorano.

Dell’inutilità della nota di condotta

Mancano ormai pochi giorni al rito dei libretti. La sfilata dei consigli di classe, degli esami o pseudo-tali, dei predicozzi ammonitori agli allievi è nella sua fase più acuta. Fra due settimane gli allievi della scuola dell’obbligo potranno verificare nero su bianco l’attendibilità delle proprie previsioni. Più di una volta in questa rubrica ho fatto degli accenni alle note, per sbeffeggiarne la soggettività, il grande arbitrio che solitamente vi soggiace e gli effetti spesso devastanti di questo sistema di classificazione degli allievi basato su convenzioni instabili e – in ogni modo – prive di qualsivoglia fondamento scientifico: tutti conoscono, per averlo sperimentato, il vantaggio di avere il Professor A al posto del Professor B, che non t’inguaia con test tipo “percorso di guerra” ed è di manica larga (e poi, magari, insegna anche meglio).
Oggi però non ho voglia di parlare delle mie pessime valutazioni in chimica, né delle belle note qualche volta rapinate ai tempi del ginnasio (tra le regole del gioco c’è anche la scorciatoia allo studio: l’importante è che l’insegnante si convinca delle mie conoscenze e, in questo senso,  i modi per persuaderlo non hanno molto peso: basta farla franca, con o senza bigino). Piuttosto voglio parlare del nobel delle valutazioni abusive, l’oscar del tentativo di omologazione dei comportamenti, l’inutilità contrabbandata per rimedio efficace dagli spalloni della scuola: la nota di condotta. Perché tanta stizza annunciata? Per almeno sei ragioni.
1. La nota di condotta è la più importante. La si chiami poi condotta o comportamento, atteggiamento o contegno, è la prima nota che si incontra sul libretto o sulla cosiddetta pagella. Ciò significa che, almeno nelle intenzioni, magari subliminali, per la scuola l’atteggiamento dell’allievo rispetto alle regole della classe o dell’istituto, è la madre di tutte le note. Di regola, una brutta valutazione del comportamento prelude ad una lunga teoria di altre insufficienze. Un quattro in condotta, insomma, sembrerebbe esser lì per dimostrare che se non ci si impegna e ci si comporta da allocchi è quasi naturale che ne soffrano poi la matematica e il francese, la geografia e l’educazione fisica.
2. La nota di condotta non è un apprezzamento dell’allievo, ma dei suoi genitori. Nessuno se ne accorge, ma siamo al popolare gatto che si morde l’altrettanto tradizionale coda. Dal giudizio sul comportamento trasudano le opinioni che la scuola si è costruita dei genitori: il ragazzo è gentile oppure insolente, s’avvale d’un gergo dantesco o affonda le sue radici comunicative nel peggio del porto, è manesco o mansueto come un vecchio soriano da calorifero. E chi è mai il responsabile primo del modo di fare dei pargoli? La famiglia, indubbiamente.
3. La nota di condotta è un’ipotesi sul futuro. Quando il collegio dei docenti dà un quattro in condotta a un allievo, emette in realtà una divinazione: tu sarai un ladruncolo, tu un eroinomane, tu batterai in Viale Stazione. Evasori fiscali e grandi maneggioni non rientrano nella categoria: è facile che siano garbati con chiunque – e, soprattutto, col potere, che a quell’età si specchia nel prof –, poiché ciò fa parte del mestiere. Nel contempo chi sarà baciato dal sei è come se ricevesse una maledizione, che si trasformerà nei continui sfottò dei compagni: secchione.
4. La nota di condotta è socialmente discriminatoria. Statisticamente è più facile per un ex balcanico o un mediorientale racimolare una notaccia come giudizio del suo atteggiamento, anche perché la sua condotta è quasi sempre il prodotto dall’ambiente che respira giorno dopo giorno. Forse la mamma la vede poco, impegnata com’è con gli orari della casa per anziani; e il papà fa il camionista, ed è già qualcosa se ha il tempo per telefonare all’Armida e dedicare una canzone di Baglioni ai suoi cari.
5. La nota di condotta è una spia dell’inettitudine. Della scuola, questa volta, e non dell’allievo. Quando un intero consiglio di classe sente il bisogno irrefrenabile di assegnare una pessima valutazione in condotta ad un suo allievo, ammette la sua incapacità (o, peggio, la sua ignavia). O non è vero che la scuola, oltre che istruire, dovrebbe anche Educare?
6. La nota di condotta è come la pena di morte. Serve a niente e non è un deterrente di alcunché, ma mette in pace la coscienza di chi la commina.

Quando si contano gli allievi nelle classi

Puntuale come una grippe, con i primi tepori primaverili è arrivata l’ammuffita questione del numero di allievi per classe, che i maestri ritengono da sempre troppo elevato. Quand’erano quaranta se ne volevano trentacinque – e chi ha frequentato le classi di quaranta allievi tende oggi a divinizzare il suo maestro, perché quelli erano tempi e quelli sì ch’erano maestri.
Ne dà notizia l’ultimo numero del Risveglio, l’organo della Federazione dei Docenti Ticinesi (sarebbe poi l’associazione dei docenti pipidì), che ha in Agostino Savoldelli – già fervente sostenitore del sussidio alle scuole private, dove notoriamente le classi hanno effettivi esagerati… – uno dei suoi uomini più acuti. Quest’anno l’influenza è salpata da Arbedo-Castione, dove insegna Savoldelli e dove gli insegnanti hanno dato l’allarme e, a quanto scrive La Regione del 7 maggio, hanno scritto un’accorata [sic] lettera a Gabriele Gendotti, chiedendo che sia adottata “urgentemente […] una diminuzione sostanziale del numero massimo di allievi per classe”.
I motivi della richiesta sono più o meno i medesimi che gli epidemiologi avevano già reperito l’ultima volta che la tutto sommato innocua influenza aveva tormentato il nostro Cantone. La lettera cita tre fattori scatenanti. Il primo è “un grosso [doppio sic] aumento di allievi stranieri” che “si integrano nelle nostre scuole e contribuiscono all’arricchimento culturale”, ma che “hanno bisogno di un’attenzione particolare”. Il secondo è relativo ad una modifica dei programmi, che sono effettivamente cambiati, ma per colmo di sventura l’ultima revisione risale a diciotto anni fa. Il terzo, infine, parte da un presunto disorientamento di alcune famiglie sui metodi di educazione dei figli e sul modo di affrontare problemi particolari, che causano “un aumento di bambini con difficoltà di adattamento, di comportamento, di educazione che non sono facilmente gestibili in classe”.
Naturalmente Diego Erba, direttore della Divisione della scuola del DIC, a precisa domanda postagli da non so più quale quotidiano ticinese, ha precisato che la media cantonale di allievi per classe è attestata attorno a venti, facendo finta di non sapere che in giro per il Cantone vi sono sezioni ridotte all’osso, mentre le classi di 24 o 25 sono assai copiose, indipendentemente dalle qualità specifiche delle popolazioni scolastiche locali. Giocare a rimpiattino col numero massimo di allievi per classe è, in fondo, un modo poco raffinato per evitare il nocciolo della questione, che risiede in parte in ciò che la scuola elementare dovrebbe insegnare e in parte nella stessa struttura organizzativa della scuola, ancor sempre basata sul trinomio «un maestro, un’aula, una classe». Cerchiamo di capirci: non è vero, per cominciare, che esiste un numero adeguato di scolari per far scuola (bene), ma ne esistono più d’uno. Un dettato può essere assegnato indifferentemente a tre o a trenta allievi, così come il numero di allievi è irrilevante per ascoltare una storia raccontata dal maestro o per seguire un documentario. Viceversa, aiutare un allievo in difficoltà a superare un ostacolo linguistico o matematico presuppone un impegno più individualizzato.
Oltre a ciò il numero di allievi per classe rappresenta una media, che come tale dice tutto e tace su tutto. Ad esempio, in un istituto di duecento allievi potremmo avere sette sezioni più che adeguate – 17/18 allievi per classe – e tre sezioni numericamente spropositate. Far fronte al problema ritoccando il numero massimo di allievi per classe, invece, si traduce in un assurdo aumento dei costi, in un’altrettanto insensata diminuzione del numero minimo di allievi e, soprattutto, assicura che si continuerà sulla strada dell’omologazione delle pratiche pedagogiche odierne, anche laddove la realtà contraddice platealmente talune enunciazioni di principio.
Nel caso dell’esempio appena citato, quindi, basterebbe che i maestri collaborassero concretamente tra loro – e con i loro colleghi che insegnano le cosiddette materie speciali – per far variare il numero di allievi, adattandolo alle necessità sostanziali e considerando di volta in volta che certe pratiche presuppongono gruppi di allievi omogenei, altre danno risultati migliori grazie all’interazione tra competenze e capacità molto diverse, e altre ancora sono basate sul lavoro individuale di ogni singolo allievo. La rivendicazione che parte stavolta da Arbedo-Castione e vien fatta propria dal Risveglio – che in tal modo fa stucchevolmente suo un tema che fino a ieri era peculiare alla sinistra – rischia unicamente di lasciar sul campo di battaglia qualche morto e qualche ferito, senza riuscire a intaccare minimamente la qualità della scuola: in realtà per guarire dalla grippe, non sempre la soluzione ideale sta nel primo medicamento che salta in mente.

Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola