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Un’educazione del sentimento civico

Per non confondere, nella scuola, una pretesa educazione civica con una più appropriata educazione alla cittadinanza e alla democrazia

La pensata comune tende a ridurre l’educazione civica a quelle quattro nozioni in croce. «A livello di scuola media – ha detto Greta Gysin in un’intervista a Enrico Lombardi (Tre domande a Greta Gysin) – si impara ancora quante persone siedono in Consiglio nazionale e quante ce ne sono agli Stati: questi, in fondo, sono dei dettagli che non importano poi così tanto». Invece, continua, «bisogna far crescere la passione per la politica, quindi far capire come si discutono le cose, andare a palazzo federale, andare a palazzo delle Orsoline. Far sentire quella che è la politica, ma proprio sulla pelle, e forse così si riuscirebbe, almeno nelle persone giovani, a risvegliare un po’ di interesse, e così, in definitiva, aumentare un po’ la partecipazione».

Che bello. Ho sott’occhio l’introduzione di un testo di educazione civica di quasi cent’anni fa. «Mentre altri testi hanno cercato di procurare agli allievi molte nozioni esatte intorno all’organizzazione dei pubblici poteri e di fornire al docente un prontuario delle cose che il programma a lui richiede – sono le parole di Brenno Bertoni, autore di uno storico testo di educazione civica – io mi sono sforzato di eliminare tutti i particolari, tutte le singolarità che oggi sono e domani non sono, e forse saranno murate quando lo scolaro sarà fatto uomo. Per contro ho cercato di conseguire l’educazione del sentimento civico, coltivando nel cuore dell’allievo il naturale amore al suo paese, la naturale inclinazione al bene, il naturale aborrimento del male. Mi sono ingegnato di inspirare nell’animo del giovinetto un ideale semplice ma bello di ciò che dev’essere il suo comune, la sua valle, lo stato di cui sarà il futuro cittadino e difensore».

In realtà già l’educazione alla cittadinanza è un proposito piuttosto complesso da definire; se poi si vogliono anche raggiungere obiettivi inequivocabili, il rischio è di creare illusioni, per nascondere la solita figura da cioccolataio. Far crescere la passione per la politica, realizzare il sentimento civico, l’amore per il paese, l’inclinazione al bene e il disprezzo del male, sono fondamenti etici propri di ogni educatore che si muove nell’ambito di una società democratica. Da qui al declinare il desiderio in un percorso pedagogico con le migliori scelte didattiche il passo è sicuramente più lungo della gamba, e forse lo è sempre stato sin dai tempi del “Frassineto”.

Il Piano di studio della scuola dell’obbligo dedica ampio spazio al tema dell’Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia, con il lodevole tentativo di precisarne il significato e i traguardi formativi, il modello e i traguardi di competenza, le indicazioni metodologiche e didattiche. È possibile che questo sforzo sia scaturito, almeno in parte, dalle diverse pressioni giunte allo Stato attraverso iniziative che si sono inseguite per almeno vent’anni, da quella dei giovani liberali per l’introduzione dell’ora di civica, all’iniziativa popolare «Educhiamo i giovani alla cittadinanza (diritti e doveri)», al beneplacito del parlamento per una nuova disciplina nelle scuole medie e medio-superiori e, infine, il verdetto popolare del 24 settembre 2017: 44% di votanti, 63% di voti favorevoli. 56% da educare, per farli andare appassionatamente alle urne.

Come capita spesso, un conto è raccogliere firme e marcare il territorio mandando il popolo alle urne; un altro, invece, credere per davvero che la scuola sia in grado, da sola, di raggiungere obiettivi educativi di questa portata. Che poi, a ben guardare, non c’è bisogno di una nuova disciplina scolastica con le sue brave note – brave nel senso manzoniano del termine. La Legge della scuola, per tanti versi vecchiotta e incerottata, dice tutto già col suo art. 2 dedicato alle finalità. Bisogna leggerlo bene, ricordarselo e fare sempre il possibile per realizzare pienamente quel grande progetto educativo, che si sviluppa attraverso la scuola, la famiglia e – dice la legge – le altre istituzioni educative, vale a dire quella realtà sociale e culturale in cui tutti i cittadini sono immersi: i mass media, i luoghi di studio e di lavoro, i contesti artistici, sportivi, del divertimento.

La scuola di Atene (Raffaello Sanzio, 1509-1511)

 

È lì che avviene la vera educazione civica e alla cittadinanza, e lo è soprattutto nella società di oggi, che ha caratteristiche ben diverse dalla Svizzera e dal Ticino del secolo passato: basta pensare alla moltitudine di culture che vivono e danno vita alla nostra quotidianità, svizzeri o stranieri che siano. La vera sfida di cittadinanza, semmai, è quella di riuscire a rafforzare una convivenza che non sia solo tollerante, rispettosa e laboriosa, ma che sia anche partecipativa nel senso più largo ed empatico del termine. Proprio lì, forse, ci potrebbe essere il vero punto di forza della scuola, già a partire da quella dell’infanzia. Perché è a scuola che si incontrano, convivono e devono imparare a cooperare persone che provengono dalle più diverse situazioni religiose, economiche, storiche, etniche.

Già a quattro anni si possono (e si dovrebbero!) creare dei contesti di cittadinanza, che col passare degli anni – dalla prima infanzia all’adolescenza all’età adulta – diverranno via via più consapevoli della centralità del Diritto in una società democratica. E sarà nel momento della seppur parziale consapevolezza del Diritto che si potrà cominciare a spiegare il perché di talune scelte politiche, di consessi diversi dal comune alla confederazione, di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari.

Quell’altra educazione civica che si continua a evocare è solo un insieme di nozioni più o meno vuote o incomprensibili, che non possono lottare contro l’assenteismo alle urne.

Scritto per Naufraghi/e

I docenti non vendono scarpe

Le ingerenze e le pressioni delle famiglie sugli insegnanti sono frutto di un’idea mercantile di scuola fatta di concorrenza fra istituti e fra allievi. Ma la scuola pubblica è un’altra cosa

Pochi giorni fa mi è saltato all’occhio un titolo incredibile su un giornale francese: À Neuilly-sur-Seine, les profs ont le sentiment d’être «les employés des parents d’élèves». Anticipa l’occhiello: Nell’opulenta città dell’Hauts-de-Seine, le famiglie hanno preso l’abitudine di richiedere molto al team pedagogico e di intromettersi negli affari della scuola. A volte, anche in modo eccessivo.

Racconta Julie, insegnante di scuola elementare: «Ciò che all’inizio sembra voglia di collaborare si rivela poi un’ingerenza. A Neuilly i genitori sono molto invadenti. Si permettono di suggerirmi idee per le lezioni, di richiedere servizi o di commentare l’avanzamento del programma in un modo che mi fa sentire la loro domestica». Aggiunge Léa: «Dobbiamo costantemente giustificarci con i genitori, tranquillizzarli se la classe accanto non è allo stesso punto del programma. Non hanno fiducia e alcuni si comportano come se tutto fosse dovuto. Ho l’impressione di lavorare per loro più che per i miei alunni. È spossante».

«Quando sono arrivata a Neuilly, la prima cosa che mi hanno detto è stata: ‘Fai attenzione ai genitori, perché metà di loro conosce il sindaco e l’altra metà conosce l’ispettrice», ricorda Léa. Insomma, si può immaginare la situazione, che genera un clima di lavoro energivoro e frustrante.

Non conosco direttamente situazioni simili nel nostro Cantone, ma qualche episodio l’ho pur percepito già qualche anno fa, così come in tempi più recenti ho sentito insegnanti che citano proprio il comportamento arrogante di alcuni genitori come fattore di stress. So di chi ha gettato la spugna e ha cambiato aria, proprio nel senso di abbandonare la scuola e fare altro. E sono numerosi i docenti impazienti di andare in pensione il prima possibile.

Se ne parla poco, se non tra colleghi e nei corridoi. Eppure, per dirne una, la difficoltà nel trovare insegnanti è evidente. Ne avevo scritto poco tempo fa (La scuola come istituzione, non come servizio), e già in quell’articolo si intravedevano comportamenti prepotenti che ritroviamo oggi nel servizio sulla scuola di Neuilly-sur-Seine, cittadina di 60 mila abitanti alle porte di Parigi, «uno dei luoghi di residenza preferiti dall’affermata e ricca borghesia francese», come la descrive la solita Wikipedia. Ed è proprio con l’ostilità di alcune famiglie che si confrontano sempre più spesso i docenti della scuola dell’obbligo.

Ancorché in altri anni, la scuola, da parte di chi ci lavora, godeva di un’ottima reputazione; oggi sono probabilmente tante le cause della disaffezione, o peggio. Sullo sfondo c’è sicuramente la forte pressione sulla scuola affinché risponda alle più fantasiose richieste formative a un alto livello di competenza, ciò che fa a pugni con la preminenza del principio, nella scuola dell’obbligo, di non occuparsi solo dei suoi allievi più fortunati. Per la scuola e per i suoi insegnanti ci sono così il piano di studio della scuola dell’obbligo, oltre 200 pagine fitte; il percorso formativo richiesto a maestri e professori, sempre più in bilico tra le promesse del DFA e le tante realtà che si incontrano in classe; la situazione socio-geografica in cui operano gli insegnanti, quasi 150 sedi di scuola comunale e 36 istituti di scuola media; la marea di compiti che fa parte del loro cahier des charges, non sempre del tutto pertinenti con la pedagogia e la didattica.

Insomma, mi pare che sia sempre più indifferibile la necessità di mettere mano a tutto l’impianto che regge la pubblica educazione – sì, uso volutamente questo bel sostantivo, Educazione, benché sempre più spesso, già nell’aula del parlamento, si sottintenda che la scuola deve “limitarsi” a istruire – si veda al proposito anche la recente querelle sull’agenda.

Invece ai piani alti della politica scolastica si mette in scena, anno dopo anno, l’obsoleto teatrino delle riforme-cerotto e del numero di allievi per classe: e pensare che la legge-quadro della scuola ticinese risale al 1990, e per certi versi è figlia di una legge settoriale, quella della scuola media, che l’anno prossimo compirà giusto giusto mezzo secolo.

«Gli anni 2000 ­– ha dichiarato il pedagogista francese Philippe Meirieu agli autori dell’articolo su Neuilly-sur-Seine – hanno segnato l’arrivo delle prime indagini comparative internazionali, delle classifiche e del Programma internazionale per la valutazione degli studenti (PISA). Progressivamente, il paradigma democratico che regolava il servizio pubblico scolastico e che richiedeva che tutti fossero trattati allo stesso modo, è stato sostituito da un paradigma mercantile che promuove la competizione tra istituzioni e individui. La scuola è diventata un mercato e l’obbligo di fornire mezzi è diventato l’obbligo di ottenere risultati. Questo ha portato alcune famiglie a pensare che i docenti dovessero essere sottoposti alla stessa concorrenza dei venditori di scarpe e che l’istituzione scolastica dovesse rendere conto molto accuratamente del trattamento individuale riservato ai loro figli».

Nelle laiche Tavole della legge della nostra scuola si stabilisce che essa mira a crescere persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà, in collaborazione con le famiglie – c’è scritto proprio collaborazione, non collaborazionismo. Si specifica poi che le famiglie sono un organo consultivo – cioè non sono le famiglie che fanno e disfano. Sembrerebbe invece che più nessuno se ne ricordi, tanto da chiedersi se siano ancora in molti a pensarle così, le finalità della scuola, e se questi principi abbiano ancora un posto speciale nella cassetta degli attrezzi dei nuovi insegnanti.

Continuo a credere, ed è una delle certezze che conservo da prima di avere il diritto di voto, che la scuola pubblica e obbligatoria sia un cardine della democrazia.

 

Scritto per Naufraghi/e

Philippe Meirieu, in collaborazione con Daniel Hemeline, aveva pubblicato curato e pubblicato nel 2010 un’interessante contributo dedicato Aux parents d’élèves qui ne liront jamais ce livre. À leurs enfants: L’École et les parents: la grande explication. Per certi versi è obsoleto, ma vi si possono ancora trovare diverse ottime spiegazioni. Il libro è esaurito, ma nel sito del prof. Meirieu si trova una versione scaricabile gratuitamente.

L’etica in classe

A proposito delle nuove “Direttive sui comportamenti inadeguati in ambito scolastico” recentemente emanate dal DECS

Ho sempre inteso che le finalità della nostra scuola, impresse nell’art. 2 della Legge, contengono ed enunciano gli obiettivi più rilevanti. Richiamata la collaborazione con la famiglia e l’intero contesto in cui la scuola è inserita, i legislatori del 1990 puntarono alle istanze di giustizia e di libertà, attraverso la realizzazione, crescente con gli anni, del senso di responsabilità, dell’educazione alla pace, al rispetto dell’ambiente e agli ideali democratici. È una missione etica ed estetica, tesa a trasmettere – per dirla con l’antropologo britannico Edward Tylor (1832-1917) – quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società: cioè la cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico.

Il percorso è lungo, inizia con l’entrata nella scuola dell’obbligo e non dovrebbe mai terminare. Nel Piano di studio quelle finalità sono più sfumate, disseminate nei diversi capitoli che lo compongono. Non vi si leggono richiami specifici alle esperienze di pedagogia istituzionale, evocate dal filosofo e pedagogista americano John Dewey, secondo cui l’etica e la democrazia dovrebbero essere insegnate attraverso l’esperienza pratica e la partecipazione attiva degli allievi – teorie poi riprese da molti altri in Europa e nel mondo.

Gli spazi scolastici da dedicare allo sviluppo dell’etica e ai valori della democrazia non sono propriamente istituzionali, cosicché gran parte del compito poggia sulle spalle degli insegnanti e sulla loro capacità di stare a scuola con l’atteggiamento migliore per coniugare i contenuti dell’insegnamento coi fondamenti dell’educazione. Le occasioni sono giornaliere, basta saperle cogliere: quando si discute coi propri allievi, quando si aiuta chi è in difficoltà e si sprona chi ne ha bisogno, quando si valuta, quando si consiglia o si reagisce a ciò che gli allievi portano in classe, quando si elogia o si rimbrotta. E quando si parla coi loro genitori, alla ricerca delle necessità e delle urgenze educative, che devono trovare dei punti d’incontro, senza ricatti né prevaricazioni, da una parte come dall’altra.

«In nessun altro sistema sociale – avevo scritto in un articolo del 2000 (pp. 11-21) – la realtà è tanto frammentata e diversificata come nella scuola; le norme variano a seconda della personalità dell’insegnante, del suo umore, della sua storia, della sua visione dell’esistenza, del suo credo pedagogico. Ogni insegnante, di conseguenza, ha una sua maniera di approvare e disapprovare, di rimproverare ed elogiare, di punire e gratificare. In altre parole, ognuno ha un suo personale codice per regolare i comportamenti dei suoi allievi»: a condizione, naturalmente, che non ci si spinga mai oltre i rigorosi confini del Diritto.

D’accordo, sono passati cinque lustri, molti dei docenti di quegli anni sono usciti dalla scuola, il cambio generazionale è lì da vedere; così – si spera – anche i “codici penali” usati da ognuno. Sono convinto che l’autorevolezza sia più diffusa dell’autoritarismo, anche se gli autoritari, vestigia di una scuola che in troppi rimpiangono ancora, non si sono del tutto estinti.

Il DECS, un mese fa, ha emanato delle Direttive sui comportamenti inadeguati in ambito scolastico, che mi hanno francamente scombussolato. «Con “comportamento inadeguato” – si legge – si intende qualunque condotta impropria di adulti di riferimento che operano nella scuola. Un comportamento inadeguato si manifesta in particolare attraverso condotte, parole, atti, gesti, scritti capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità fisica, psichica o sessuale di allieve e allievi, rispettivamente di metterne in pericolo l’apprendimento, oppure di degradare il clima di istituto».

A me pare una direttiva più autoritaria che autorevole. Mi ha scandalizzato il furore enciclopedico con cui si specificano le forme diverse dei comportamenti poco consoni a un insegnante, come se i vertici del DECS avessero improvvisamente percepito larghe fasce di insegnanti in qualche modo violenti, e, dunque, inadatti.

Il ventaglio dei comportamenti sconvenienti è molto ampio, ma non necessariamente definito in termini concreti, come richiederebbe ogni codice serio, che andrà applicato di fronte a contegni indegni della professione. Lo spettro delle interpretazioni soggettive e legate alla propria idea di etica (comportamenti adeguati vs comportamenti inadeguati) è dunque arbitraria. Ma quando il DECS promulga una direttiva del genere al termine di un anno scolastico, è come se stesse dicendo che un numero significativo di docenti ha palesato comportamenti inadeguati, che attentano alla dignità o all’integrità fisica, psichica o sessuale di allieve e allievi, per cui bisogna correre ai ripari.

Ora, quand’anche questa fosse la realtà percepita, potrebbe voler dire che a qualcuno le cose siano colpevolmente scappate di mano. In tal caso non è mai troppo tardi per intervenire, avviando le inchieste ritenute opportune e procedendo con le misure più consone, senza insabbiamenti né sconti: come si fa con le persone normali.

Così, invece, si dà al paese un pessimo messaggio, che rischia di gettare ombre sui tanti insegnanti che fanno degnamente il loro lavoro, sovente in solitudine, accollandosi quella missione etica della scuola che non ha bisogno di nuove e minacciose direttive: bastano le norme della scuola, i codici dello Stato e la Costituzione.

 

Scritto per Naufraghi/e

La scuola come istituzione, non come servizio

Docenti e allievi, fra piani di studio e pressioni delle famiglie

Su La Regione del 17 giugno, Giuseppe Cotti, vicesindaco di Locarno, ha pubblicato un’interessante opinione col titolo «Non esiste scuola senza rispetto». Tocca in particolare due temi d’attualità. «Gli insegnanti – scrive – si sentono confrontati, con frequenza crescente, con un clima ostile da parte delle famiglie».

Cotti coglie bene uno degli aspetti scatenanti di questo grave malessere che attraversa la scuola, assieme alla sua società di riferimento: «La scuola non è un buffet à la carte né una Landsgemeinde. Non possiamo consentire che venga trattata come un’entità negoziabile in cui selezionare solo gli aspetti che ci soddisfano personalmente».

Concordo. Quasi trent’anni fa il pedagogista francese Philippe Meirieu aveva già lanciato questo monito in un autorevole libro – L’école ou la guerre civile (pp. 64-5), titolo quant’altri mai premonitore. «La scuola – si legge – deve rinunciare alla gestione giustapposta e conflittuale di milioni di interessi privati; deve tornare a essere un affare pubblico. In altre parole, la scuola non è un servizio, è un’istituzione».

Poi chiariva: «Cos’è un servizio? È un’organizzazione che “fornisce servizi” a un gruppo di persone. La Posta è un servizio, come la rete stradale. La qualità di un servizio si misura dalla soddisfazione dei suoi utenti. Tuttavia, in una repubblica, devono esistere almeno tre organizzazioni che sfuggono alla logica del servizio: la giustizia, l’esercito e l’educazione. Queste sono istituzioni. Non si giudicano dalla soddisfazione dei loro utenti. L’educazione, durante il periodo dell’obbligo scolastico, deve obbedire a specifici valori. Non può diventare l’arena della competizione sociale. Chiedere alla scuola di soddisfare l’ambizione individuale di ognuno è condannarsi alla scuola-supermercato».

Purtroppo, è quel che è successo e continua a succedere dentro quel mondo complicato che è la scuola dell’obbligo, schiacciata tra pressioni delle famiglie, piani di studio stipati di competenze trasversali, dimensioni curricolari e una sovrabbondanza di aree e discipline, col loro corollario di traguardi di competenza illusori: un piano di studio che porta dritti al menu à la carte. Tuttavia, è proprio da questo piano di studio che, spesso, le famiglie prendono spunto per accusare maestri delle scuole comunali e professori della scuola media del fatto che i loro figli non imparano le conoscenze e le competenze così copiosamente illustrate e commentate in quelle 200 pagine di buoni propositi – si fa ovviamente per dire.

Nel citato articolo, Cotti osserva pure che «“Penuria” oggi è la parola più sentita, nella politica svizzera. L’abbiamo sentita nei dibattiti sull’energia, sulla situazione idrologica, sui farmaci essenziali e, ovviamente, sulla manodopera. A quest’ultimo proposito, molti Dipartimenti cantonali dell’educazione si sono trovati in gravi difficoltà. La scarsità di docenti ha obbligato, per esempio a Zurigo, ad assumere anche persone che non possedevano le qualifiche necessarie per gestire una classe». Oddio, nulla di scandaloso nell’assumere insegnanti senza le qualifiche richieste – fatto questo che non mette al riparo da competenze professionali carenti: perché un conto sono i diplomi, un altro ciò che i docenti sono in grado di fare.

Tra l’altro è già successo, negli anni ’70, nel Vallese francofono. Anche in Ticino, una decina di anni fa, per far fronte a una carenza di insegnanti nella scuola elementare, si era “snellito” il curricolo formativo previsto dal Dipartimento formazione e apprendimento (DFA) della SUPSI, mandando gli studenti dell’ultimo anno a “impratichirsi” a metà tempo come insegnanti contitolari nella scuola reale, come se fosse stato così difficile sapere che negli anni ’10 di questo secolo sarebbe iniziato un sostanzioso cambio generazionale, che chiamava a gran voce nuovi insegnanti, giovani e ben preparati.

Purtroppo, invece, siamo daccapo, con l’aggravante che, accanto a una riduzione del numero medio di allievi per classe, con proporzionale aumento delle classi di scuola, sono state inventate diverse figure professionali che, come formazione di base, esigono la patente di maestro: docenti d’appoggio, risorse casi difficili, operatrici per l’integrazione, docenti di lingua e integrazione…

Con tutto ciò, questa sorta di riforma della scuola, che è nata e cresciuta nel breve volgere di un decennio, ha coinciso con un importante ricambio generazionale, che ha messo sotto pressione il DFA, che è l’istituto chiamato a formare i docenti delle scuole comunali e abilitare all’insegnamento quelli del settore medio, una scuola che è più o meno coetanea di questa scuola dell’obbligo delle competenze.

Tuttavia è difficile capire se i docenti attualmente in carica sanno destreggiarsi dentro la ragnatela del piano di studio e, nel contempo, gestire le relazioni e la comunicazione con le famiglie dei loro allievi: perché organizzare la vita della classe, cioè un gruppo basato sul diritto e non sugli affetti, richiede la necessaria serenità e un congruo entusiasmo.

Scritto per Naufraghi/e

La scuola delle pari opportunità e della differenziazione

Nell’era di un piano di studio, autoritario e complesso, che finisce per trasformare la vita a scuola in un cimitero dell’entusiasmo e della passione

Quando si parla si scuola, soprattutto di scuola dell’obbligo, piace a molti sciacquarsi la bocca con le pari opportunità e la differenziazione. Quasi mai si riesce a capire cosa si intenda per differenziazione. Le pari opportunità che si vorrebbero a scuola, invece, sono più esplicite. Di solito chi le evoca intende dire che a ogni allievo vengono garantite identiche condizioni di partenza: gli stessi programmi, gli stessi supporti didattici, gli stessi insegnanti (il prof. Zambelloni, una volta, osservò ironicamente che nella scuola coesistono insegnanti straordinariamente bravi e insegnanti normalmente bravi).

Ad esempio, Sergio Morisoli, oggi parlamentare UDC, scrisse che «Occorre garantire le stesse condizioni di partenza per tutti, ma non la parità di risultati. La scuola va differenziata, non siamo tutti uguali (CdT 12.08.2012)». Circola una vignetta che, col dovuto cinismo, illustra questa diffusa versione delle pari opportunità. Vi si vede un maestro, seduto alla cattedra, davanti a una classe un po’ speciale: un corvo, uno scimpanzé, un marabù, un elefante, un pesce rosso nella sua boccia di vetro, una foca e un cane, e sullo sfondo un albero. Bene – dice il maestro – adesso facciamo un esercizio. Il compito è uguale per tutti: arrampicatevi sull’albero». È quel che succede a scuola. Un mese dopo l’inizio dell’anno scolastico c’è già chi arranca, non capisce, resta indietro. Poi arriveranno gli specialisti, i genitori saranno convocati e sentiranno dirsi che il pargolo ha tante difficoltà. Magari a fine anno sarà bocciato (oggi si dice «rallentato»), e l’anno dopo dovrà rifare anche quel che aveva già imparato.

Su un numero speciale della rivista romanda Éducateur (febbraio 2012), dedicato ai cento anni di vita dell’Institut Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, il sociologo Walo Hutmacher pubblicò un articolo dal titolo intrigante: Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé. «Le pari opportunità – scriveva – fanno parte della scuola pubblica. Ma è un’uguaglianza astratta, di maniera, perché presume, senza dirlo, che la scuola di base sia una gara, così che ha un senso solo in una scuola selettiva».

Rivolgendosi alla politica per contraddire quella sorta di mainstream che si è appropriato di due parole – pari opportunità – per farne un comodo alibi, continuava così: «Contrariamente a ciò che dicono tutti i partiti, la politica non deve mirare alle pari opportunità, ma puntare all’equità dei risultati a livello elevato, allo scopo di creare buone capacità per affrontare le esigenze della vita sociale, civica ed economica. L’equità dei risultati è meno astratta delle pari opportunità. In senso assoluto è inarrivabile, ma si può tentare con tenacia di avvicinarvisi. Bisogna però farne un’ambiziosa meta politica. La logica della selezione estremizza le regole del gioco: per allievi e genitori che sono, loro malgrado, protagonisti di un processo di selezione, lo scopo principale non è quello di imparare, bensì di “riuscire”, di “essere promosso”. In questa logica i più bravi si accontentano di “gestire la loro media” col minimo sforzo, mentre i più deboli si scoraggiano davanti a ostacoli che ritengono di non poter superare».

L’attuale Piano di studio della scuola dell’obbligo richiama una dichiarazione d’intenti della Conferenza intercantonale dell’istruzione pubblica della Svizzera romanda e del Ticino, che, tra tante enunciazioni, afferma che «La Scuola pubblica assume compiti di educazione e di trasmissione di valori sociali, tra i quali la promozione delle pari opportunità a livello di riuscita scolastica». Un dichiarazione per lo meno ambigua, soprattutto alla luce delle quasi 300 pagine che dovrebbero contestualizzare gli obiettivi della scuola obbligatoria attraverso i «piani disciplinari», le sue «aree» e le sue materie.

I programmi delle scuole obbligatorie del 1959 – Scuola elementare e maggiore, scuola di economia domestica e di avviamento professionale – di pagine ne avevano 74. E così introducevano il discorso: «Un programma non può essere che uno schema offerto all’insegnante perché lo trasformi in cosa compiuta e viva». Diciamo che c’era una diversa stima degli insegnanti e dei loro allievi.

Ora invece siamo confrontati con un piano di studi velleitario e illusorio, che ha bisogno, per funzionare in qualche modo, di tante figure professionali che si accalcano nelle aule, frammentano le competenze, diluiscono le responsabilità. Nella scuola obbligatoria si possono incontrare i docenti di appoggio, di sostegno pedagogico, di lingua e integrazione degli alloglotti, oltre a logopedisti, psicomotricisti, psicologi, specialisti per la gestione dei casi difficili e operatrici pedagogiche per l’integrazione.

Permane, sullo sfondo, la solitudine del docente, che dovrebbe essere il vero regista di ciò che succede nella sua aula. Invece quel Piano di studio, autoritario e complesso, finisce per trasformare la vita a scuola in un cimitero dell’entusiasmo e della passione, per chi deve insegnare e per chi deve apprendere. Vedremo presto se ci saranno la volontà politica e la capacità e di ricreare una scuola serena, in cui insegnare e imparare tornino a essere momenti da ricordare per tutta la vita con almeno un po’ di piacere.

Scritto per Naufraghi/e

Nel mio blog si trovano numerosi articoli sul tema delle pari opportunità nella scuola. Alcuni sono stai pubblicati su giornali o riviste (soprattutto nella rubrica «Fuori dal’aula», che ho firmato sul Corriere del Ticino per quasi vent’anni). Altri sono apparsi solo nel blog. Tra questi mi piace richiamare Cos’hanno ancora di così rivoluzionario, oggi, le pari opportunità? (16.05.2016).