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La scuola, fra parità di opportunità e parità di risultati

L’inclusione è un elemento importante e qualificante del nostro ordinamento scolastico, ma non è ancora un obiettivo raggiunto e forse si lega ad alcuni dati critici emersi da un recente rapporto sulla scuola ticinese

Ho già parlato in questa sede di PISA 2022, dei risultati della scuola ticinese e di quella svizzera, soffermandomi in particolare su quella significativa percentuale di quindicenni che, in questa sorta di campionato del mondo dell’istruzione, il podio lo vedono solo da lontano: il pensiero va a quegli allievi incapaci di superare i livelli minimi delle prestazioni cronometrate a ritmo triennale dai paesi dell’OCSE. Secondo il rapporto SUPSI del dicembre scorso, le percentuali di allieve e allievi ticinesi sotto il livello 2 fissato da PISA – cioè inadeguati in matematica (14%), lettura (19%, quasi un quinto) e scienze (15%) – sono statisticamente inferiori a quelle della Svizzera e della media OCSE. Per intenderci, il livello 2 comprende gli alunni in grado di affrontare problemi comuni, ma in chiara difficoltà di fronte a situazioni più complicate e che richiedono più abilità e competenze.

Fin qua non ci sarebbe proprio nulla da recriminare, figuriamoci. Siamo tra i paesi più ricchi del mondo, ci mancherebbe una scuola scombiccherata. Però sono percentuali che devono interrogarci, anche perché quei poveracci che si insediano sempre a fondo classifica ci finiscono spesso già nelle prime settimane di scolarizzazione. Anche solo parlare di 10% significa essere in chiaro che ci sono mediamente due o tre allievi per classe che annaspano. Non è bello essere gli ultimi della classe, perché si passeranno anni di niuna beatitudine, salvo quei pochi che, ogni tanto, scoprono mondi che li fanno diventare i primi: il bullismo, la piccola criminalità, l’adrenalina della trasgressione, il disprezzo verso il mondo che li circonda.

Emanuele Berger, direttore della divisione della scuola e coordinatore del DECS, mette al primo posto del successo ticinese il carattere inclusivo della sua scuola, «e PISA – chiarisce – ci dice da sempre che i sistemi inclusivi hanno dei buoni risultati». In ogni modo, non è che la scuola ticinese sia diventata inclusiva dall’oggi all’indomani. Attualmente è una parola multifunzionale, che include davvero di tutto: «Successo per Winterland con una Locarno illuminata a festa», ho letto sul CdT. «Il segreto di questo successo? L’inclusione, secondo gli organizzatori dell’evento».

Ma taluni elementi dell’inclusione, in altri anni chiamata integrazione, erano già presenti da tempo; penso, per chiarire con qualche esempio, ai figli alloglotti della massiccia immigrazione del primi anni ’90 del secolo scorso, che venivano presi a carico dalla nostra scuola, seguiti da un docente che si occupava della lingua e dei piccoli e grandi problemi di vita quotidiana, e che erano inseriti nelle normali classi nel giro di pochi giorni. Non era una prassi nazionale. Ricordo un collega, mi pare argoviese, che mi aveva raccontato come funzionava in quel cantone. Gli alloglotti erano raggruppati in classi in cui si insegnava il tedesco, cioè l’Hochdeutsch. L’anno dopo si «integravano» nelle classi usuali, dove si parlava lo Schwiizertüütsch.

Anche al di là del discorso sugli alloglotti, rammento che in quegli stessi anni ’90 avevo collaborato ai primi tentativi di interazione / condivisione di spazi e tempi, seppur parziali, tra “normali” allievi della scuola elementare e allievi delle scuole “speciali”, di cui era ispettore, in quegli anni, Michele Mainardi, Punto di riferimento per l’educazione inclusiva e la pedagogia speciale, come lo definisce oggi laRegione, introducendo una recente intervista (‘Nell’inclusione il Ticino è stato un precursore lungimirante’).

Tornando ai risultati di PISA: anche nella nostra scuola inclusiva le percentuali di allieve e di allievi sotto il livello 2 – cioè sui vagoni di coda della classifica – sono tanti, certamente troppi. Non può essere consolatorio scrivere che i nostri tassi di insuccesso «sono tutti minori da un punto di vista statistico rispetto a quelli della Svizzera e della media OCSE». Il Ticino non è naturalmente un Sonderfall, in questo caso specifico. Le percentuali degli allievi più fragili, in effetti, non sono una nostra prerogativa, ma assai simili a quelle di altri cantoni.

In definitiva, però, spunta una domanda: quella percentuale importante che affolla le statistiche dei più deboli, non è che magari è formata anche da tanti inclusi? Non è che gli diamo un banco e un posto in aula, addirittura un/a compagno/a di banco, e poi, quando somministriamo i test, non guardiamo in faccia a nessuno, perché siamo equi, democratici e imparziali?

Su un numero speciale della rivista romanda Éducateur (febbraio 2012), dedicato ai cento anni di vita dell’Institut Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, il sociologo Walo Hutmacher pubblicò un articolo dal titolo intrigante: Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats à un niveau élevé. «Le pari opportunità – scriveva – fanno parte della scuola pubblica. Ma è un’uguaglianza astratta, di maniera, perché presume, senza dirlo, che la scuola di base sia una gara, così che ha un senso solo in una scuola selettiva».

L’inclusione, di per sé, mette a posto le nostre coscienze, ma finisce lì. Dopo avergli dato un banco, agli inclusi bisognerebbe garantire un’etica pedagogica impeccabile, per evitare un’esclusione de facto, benché politicamente de jure.

 

Scritto per Naufraghi/e

Un rapporto dell’OCSE che premia la nostra scuola, ma non si cura dei ragazzi che la scuola perde per strada

Secondo i dati forniti da PISA 22 la scuola Svizzera e ticinese stanno bene, anzi meglio, e guadagnano posizioni nel contesto mondiale. Ma quanto vale una graduatoria dettata da un’organizzazione economica?

A inizio dicembre sono stati diffusi i risultati di PISA 2022, il programma per la valutazione internazionale dei quindicenni promossa dall’OCSE, che sarebbe poi l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico degli stati caratterizzati da economie avanzate ed elevati redditi pro capite. A ritmo triennale si misurano i livelli di competenza dei quindicenni in matematica, scienze naturali e lettura. Mica roba per tutti, insomma, ma sempre più paesi se la giocano.

In questa tornata la Svizzera e il Ticino hanno ottenuto ottimi risultati. Le prestazioni elvetiche, nel complesso, collocano la Svizzera al quinto posto, con il 19.4% di allievi molto performanti – per semplificare, gente da 5 ½ o 6 – e il 12.4% di allievi all’altro estremo della scala. Il nostro cantone contribuisce significativamente a questo successo. «In PISA 2022 il Ticino, in matematica e in scienze, ottiene punteggi medi simili a quelli della Svizzera. In lettura raggiunge un punteggio statisticamente superiore rispetto a quello della Svizzera, anche se la differenza è minima. Il Ticino si trova inoltre sopra la media OCSE in tutti e tre gli ambiti».

© Ambrosetti, A., & Salvisberg, M. (2023). PISA Ticino 2022. Centro competenze innovazione e ricerca sui sisteemi educativi.

Molto bene, quindi, soprattutto se si pensa a qualche brutto risultato dei primi anni. Nel 2003 il Ticino era finito tra gli ultimi della classifica elvetica – ed era partita la solita baraonda di reazioni più o meno scomposte. Non c’è stata testata che non se ne sia occupata: da chi metteva in dubbio la serietà dello studio (cioè: colpa del “termometro”, cioè di PISA) a chi evocava l’alta percentuale di stranieri presenti nelle nostre classi (toh?!), per giungere a chi criminalizzava i tagli finanziari di quei mesi (ri-toh?!), scordando che i risultati conseguiti dai quindicenni non si costruiscono nello spazio di un mattino: allora come oggi.

«Il Ticino si situa in cima a tutte le classifiche», ha esultato l’appuntamento informativo RSI del  Quotidiano del 5 dicembre (in versione alquanto “governativa”). Che ha poi chiesto l’immancabile commento a Emanuele Berger, grand commis del DECS: «Uno si può chiedere perché. Potremmo fare tre ipotesi: una potrebbe essere che la nostra è una scuola inclusiva, e PISA ci dice da sempre che i sistemi inclusivi hanno dei buoni risultati. Inoltre, da molti anni lavoriamo su una didattica per competenze, e PISA verifica le competenze. E la terza ragione ovviamente è l’ottimo lavoro di tutti i docenti, che contribuiscono in materia determinante e ne vanno tutti ringraziati»: una sviolinata, ma ci sta.

L’OCSE non è un’associazione di beneficienza, né una fondazione che sostiene valori umanistici. Persegue scopi economici, anche se l’aggettivo, di per sé, è neutro. Tuttavia, se i primi confronti internazionali ci avevano fatto conoscere sistemi scolastici di grande interesse – la Finlandia su tutti – negli anni a seguire si è insinuato il dubbio che PISA abbia ben altre mire: e già non siamo troppo lontani da una scuola globalizzata, che mette al centro tre discipline e crea classifiche di buoni e cattivi, grazie all’adesione di una settantina di paesi nei cinque continenti.

Tanto per fare un esempio, l’edizione 2003 di PISA aveva relegato il nostro Cantone tra le peggiori della Svizzera, che aveva raggiunto per conto suo risultati mediocri. Vent’anni fa, agli esordi del programma per la valutazione internazionale dei quindicenni, si osservava, parlando dei due paesi in vetta alla classifica, Finlandia e Corea del sud, che nel paese asiatico le ore settimanali di scuola erano addirittura più imponenti delle nostre e che la frequenza degli esami e la pressione della nota provocavano il dilagare di depressioni nervose, fino al suicidio. Per contro la scuola finlandese terminava verso le tre del pomeriggio, i famosi “test” erano pressoché inesistenti, così come le bocciature, e il tempo scolastico era riservato all’apprendimento delle discipline giudicate essenziali. Il meno che si possa dire è che, a parità di risultati, i due sistemi scolastici erano tanto diversi. Ma questi sono aspetti che non interessano all’OCSE, che si limita a spiattellare punteggi, medie e percentuali di allievi in media o significativamente molto distanti da essa – poveri cristi in grande difficoltà scolastica da una parte, precoci primi della classe dall’altra.

Che ne sappiamo dell’Estonia, oggi primo classificato dei paesi OCSE, o di Singapore, primo classificato in assoluto, davanti al Giappone e alla Corea? Nulla, o poco più. Però vediamo paesi, come il nostro, che nel frattempo hanno guadagnato tante posizioni, non senza che s’insinui qualche dubbio. Come diceva quello là, a pensar male si fa peccato, ma a volte ci s’azzecca. Eppure il dubbio che molti sistemi educativi abbiano virato sempre più verso gli obiettivi scolastici PISA è grande. Anche il sistema scolastico svizzero si è a poco a poco uniformato, dapprima, nel 2007, con l’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria; poi con i nuovi piani di studio delle tre aree linguistiche svizzere, molto vicine alle aspettative della cooperazione economica mondiale. Tutto ciò assomiglia molto, forse troppo, a quel famigerato «studiare per i test», passati i quali ci si può anche scordare ogni cosa.

Il risultato è che oggi un gran numero di stati del mondo – oltre una settantina – sta commisurando i suoi obiettivi formativi a quelli di PISA, incurante di chiedersi cosa ne sanno i quindicenni della storia del loro paese, della letteratura, della poesia, del teatro, delle arti. E non sono interessati a sondare quanto sono razzisti i quindicenni dei paesi partecipanti; che governo istituirebbero, se potessero; quale attitudine mostrano verso l’accoglienza, le dipendenze, l’ecologia, l’etica, la politica o l’economia. No, all’OCSE interessano la matematica, le scienze naturali e la lettura, e stilano classifiche che se ne fanno un baffo delle immense diversità culturali tra un paese e l’altro e delle loro ricchezze intangibili.

Siamo forse vicinissimi alla globalizzazione planetaria dei valori di educazione e istruzione degli adulti di domani, una sorta di nuova colonizzazione delle politiche: benché la ricca Svizzera, ai piani alti della classifica mondiale, perda per strada il 12% dei suoi quindicenni, inadeguati in matematica, lettura e scienze.  Diceva don Milani che «la scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde».

Scritto per Naufraghi/e

Il dato del 12% di allievi inadeguati in matematica, lettura e scienze è tratto da Résultats du PISA 2022 (Volume I), p. 25. Per contro il rapporto ticinese (Ambrosetti, A., & Salvisberg, M. (2023). PISA Ticino 2022. Centro competenze innovazione e ricerca sui sistemi educativi) indica percentuali più alte.

L’agenda e la zizzania politica

Una polemica stucchevole imperversa da giorni a proposito del diario scolastico quale presunto strumento di indottrinamento. Un polverone che sa di tristemente elettorale

La polemica attorno all’Agenda della Svizzera italiana continua a tener banco. Il consueto diario scolastico per la scuola media, edito dal Dipartimento dell’Educazione e da quello della Socialità e della Sanità, ha come fil rouge per il 2023-24 Lo sguardo altrui: istruzioni per l’uso. Accanto ad alcune schede che informano e aiutano a riflettere, ci sono dieci storie raccontate, ognuna, con due disegni e un breve dialogo: dieci piccole storie per parlare di malintesi e pregiudizi, di come ci si sente e di come si vorrebbe essere. Nulla che sia fuori dall’ordinario, come dev’essere nello spirito di uno strumento di lavoro che accompagnerà allieve e allievi lungo tutto l’incombente anno scolastico.

Siamo in un ambito complementare ai contenuti disciplinari della scuola. Nell’agenda, per intenderci, non vi sono valutazioni, esercizi, compiti a casa e giudizi di valore. Tutt’al più ci sono degli spunti per riflettere o discuterne. È così da tanti anni, non solo dall’arrivo dei “rossi” al DECS – come insinuano i Torquemada nostrani – e senza scordare che la direzione socialista del Dipartimento dell’educazione, dopo decenni di gestione PLRT, non fu per nulla un golpe.

Eppure quest’anno si è scatenato il putiferio. Tra le dieci piccole storie, il vicesindaco di Locarno ne ha scovata una che gli è andata di traverso e che ha voluto condividere urbi et orbi: Giuseppe Cotti boccia l’agenda scolastica: “Banalizza la diversità di genere”. Non si contano gli interventi che intasano il Ticino massmediatico (e social) ormai da una decina di giorni e che hanno acceso i pruriti di una pedagogia codina. Ci vuole però una buona dose di malignità per leggere in quei brevi dialoghi dei pensieri chissà quali intenti di indottrinamento, tesi a far sì che i nostri adolescenti abbraccino, affascinati!, il cosiddetto terzo sesso, che ha peraltro una gamma di coniugazioni assai variegata.

Qualche esempio di tanto sdegno è forse utile annotarlo: «Con il pretesto dell’inclusione, della lotta al bullismo e alla discriminazione, nonché della tutela delle minoranze, ai ragazzi viene insegnata l’ideologia secondo cui maschio o femmina sono sensazioni interiori o percezioni, proprio come si legge nell’agenda che sarà presto distribuita agli scolari ticinesi» (Helvethica Ticino). Oppure: «La scuola rossa colpisce ancora: propaganda gender nell’agenda ufficiale del DECS. Inaccettabile il tentativo del Cantone di lavare il cervello ai bambini fin dalle elementari con l’ideologia ‘‘arcobaleno’’» (Lorenzo Quadri, Consigliere nazionale Lega, sul Corriere del Ticino). E ancora: «Si cerca di far passare che essere fluidi, dubbiosi sul proprio sesso – quando biologicamente e di fatto, o si è maschi o femmine [tertium non datur, secondo lorsignori] – siano scelte di tendenza e accattivanti. Ogni individuo è libero di sentirsi maschio, femmina e magari in futuro anche cane, gatto o canarino, ma non deve essere la scuola a promuovere e a mostrare come normale, delle anomalie comportamentali che toccano un’estrema minoranza della popolazione» (Piero Marchesi, consigliere nazionale UDC, su laRegione).

Suvvia, sarebbe fantastico se con dieci righe e due disegni fosse possibile – per usare un verbo un po’ sguaiato – indottrinare i nostri ragazzi alle leggi della matematica e delle scienze naturali, a insegnare in fretta e a un alto livello l’italiano e le altre lingue, insieme alle loro culture di riferimento, a conoscere e amare il variegato patrimonio delle arti. A meno che non si creda per davvero che sia possibile inventarsi un gender prêt-à-porter, così come si sceglie una t-shirt o un taglio di capelli.

Due parole, infine, devono essere spese sulla distribuzione dell’agenda in quinta elementare. Da un lato si dovrebbe rammentare che questo diario fa parte del materiale dell’ultimo anno della scuola primaria da quando è stata istituita la scuola media: era parso, ad alcuni insegnanti degli anni ’70, che poteva essere utile imparare a usare questo strumento, che nel precedente ginnasio mieteva tante vittime già al primo anno, quando il passaggio dal maestro al professore poneva molti problemi di organizzazione della settimana e della gestione di compiti a casa e test annunciati. Nel frattempo l’agenda si è evoluta nei suoi contenuti, pensando però, giustamente, agli alunni della scuola media. Sulla diffusione automatica dell’agenda già in 5ª, quindi, si potrebbe anche discutere, ma non certo per entrare nel merito delle farneticazioni sulle sue nefaste influenze.

Non può che essere giudicata preoccupante la scelta di alcuni Municipi di non distribuire l’agenda, come deciso a Tresa, Lugano, Massagno, Mendrisio e altri comuni. Ma, fortunatamente,  c’è chi rimette i puntini sulle i, in attesa che il Cantone intervenga con la necessaria severità per ricordare che la direzione generale della scuola spetta al Consiglio di Stato e non certo ai singoli municipi. Bene ha fatto, quindi, la sindaca di Castello, Alessia Ponti: «Non sta ai Municipi ergersi a paladini della moralità», ha commentato sul CdT di ieri. «I nostri bambini hanno affrontato temi anche molto più delicati, come la guerra in Ucraina. Tutto sta a come viene trattato l’argomento, ma è proprio del ruolo del docente saper usare le parole e la delicatezza giuste. E i nostri docenti si sono dimostrati molto tranquilli e consapevoli a tal riguardo».

Parole sante.

Scritto per Naufraghi/e

Xenofobia, razzismo e rispetto fra i banchi di scuola

Discriminazioni e diritti calpestati passano più o meno sotterraneamente ogni giorno fra i gesti e le parole di allievi, docenti e famiglie. Urge una nuova sensibilità

Il Codice penale svizzero si occupa dettagliatamente, ormai da trent’anni, di Discriminazione e incitamento all’odio. Lo fa con l’art. 261bis, che tratta di razzismo, xenofobia e dintorni: sarebbe utile leggerlo a scuola, assieme alla Costituzione, e spiegarlo a insegnanti, alunni e genitori; e rinfrescarne regolarmente la memoria.

Simonetta Caratti, su laRegione del 17 luglio, ha pubblicato un commento particolarmente interessante. «Imparare cos’è il razzismo sin da piccoli, evita di diventare adulti discriminatori. È una sfida che riguarda l’intera società, in particolare la scuola, dove si stanno moltiplicando le segnalazioni di casi di razzismo, soprattutto verso persone afrodiscendenti».

Così continua: «Che ci sia chi gira la testa dall’altra parte è deludente. L’apertura si insegna con l’esempio quotidiano di tolleranza, prendendo posizione e condannando apertamente i comportamenti razzisti. Specialmente docenti, direttori e chi sta sopra. L’esempio deve venire dall’alto in una società che è permeata da un razzismo strutturale. Se un ragazzino cresce a pane e pregiudizi, c’è da sperare che in classe incontri un adulto che sappia mostrargli altri punti di vista, che allarghi il suo angusto modo di giudicare, che lo renda attento alle parole divisive che feriscono».

Purtroppo l’educazione alla tolleranza, all’empatia, al rispetto, al diritto, alla democrazia è un po’ come l’educazione civica. Certo, la si può confinare dentro una materia scolastica, coi suoi test e gli immarcescibili voti impressi sul libretto: come ha fatto recentemente il nostro Cantone. Ma, sin qua, non si vedono, neanche di sfuggita, risultati di qualche tipo; non fosse così, non saremmo qui a parlare di razzismo.

Negli anni ’80 del secolo passato la scuola del nostro Cantone fu confrontata per la prima volta con un’immigrazione che non parlava italiano. Oddio, l’affermazione è vera solo fino a un certo punto, perché prima c’era stato un altro fenomeno migratorio che parlava tedesco, ma non erano Gastarbeiter. Per i migranti germanofoni del secondo dopoguerra, spesso ricchi e cólti, si creò il primo servizio per gli alloglotti. La Legge della scuola del 1958 si era occupata di loro, e così aveva statuito: Il comune può istituire corsi preparatori di lingua italiana destinati agli allievi di altra lingua che non sono in grado di seguire normalmente le lezioni comuni (art. 94, Corsi per allievi d’altra lingua).

Giunsero, negli anni seguenti, bresciani, bergamaschi, vigezzini, ma parlavano italiano. Durante il boom economico, che fu anche il boom di quella speculazione edilizia che, d’altra parte, continua imperterrita, i migranti in Svizzera erano per lo più italiani del meridione, che i predecessori lombardo-veneto-piemontesi chiamavano terroni. Nel resto della Svizzera squillò l’allarme, e nel giugno del 1970 il popolo svizzero andò alle urne per esprimere il proprio parere sulla campagna contro l’inforestierimento, promossa da James Schwarzenbach, politico di estrema destra: tra La barca è piena e Cercavamo braccia, sono arrivati uomini. La proposta fu respinta dal 54% dei votanti.

Poi cominciarono a confluire in Ticino altre famiglie, provenienti da diverse parti dell’Europa e del mondo, chi per motivi economici, chi per ragioni di guerra e di sopraffazione. E non parlavano italiano. I numeri esplosero a macchia di leopardo in alcuni centri ticinesi. Già nel 1983 si riscoprì quell’art. 94 della legge scolastica per mettere in piedi i primi corsi per i nuovi alloglotti. A Locarno, nell’ultimo decennio del ’900, si registrarono percentuali attorno al 20%. Erano famiglie di rifugiati e lavoratori ai quali non mancava solo la lingua italiana. Erano storie di sofferenza e di emarginazione, che le fragili proposte interculturali non riuscivano a scalfire, così come si era disarmati di fronte al clima razzista e xenofobo che strisciava in un mainstream neanche tanto velato.

E allora: ha ragione Simonetta Caratti? Certo. Ci sono tante “cose” che si possono fare a scuola, sin dalla più tenera età, a partire dalla condanna ferma e rigorosa di chi osa voltare la testa dall’altra parte di fronte a ogni episodio di discriminazione più o meno palese. Ma di ciò di cui parla il 261bis del Codice penale ci sono occasioni a iosa, a scuola, per parlare, fare cultura, educare. Di ciò che il codice penale dovrebbe punire sono piene le arti – la letteratura, la poesia, la musica, la pittura, la religione, il teatro, il cinema. Ci sono i piccoli e grandi episodi della quotidianità, che si possono spiegare e commentare: anche quella dei giornali, dei TG, dei settimanali, dei social (si vedano, in questa sede le esternazioni social dentro un gruppo Facebook privato di sostenitori di Lega e Udc).

Chissà se i giovani formati o abilitati dalla SUPSI per insegnare nelle nostre scuole conoscono – per citarne uno non a caso – i lavori di Janusz Korczak, pedagogista, scrittore e medico polacco che fa parte a buon diritto della storia della scuola e dell’educazione? Ha scritto Erri De Luca: «Passai per via Krochmalna, dove abitavano i Singer, e per via Sliska, dove c’era l’orfanotrofio diretto da Janusz Korczak, che s’incamminò coi suoi centonovantadue bambini allineati verso i vagoni aperti della Umschlagplatz. Se riferiti a persone, i numeri vanno scritti per me in lettere. Le cifre vanno bene per ogni contabilità, tranne che per le vite umane. Per loro ci vogliono le lettere: centonovantadue bambini. Con quella schiera disciplinata e muta Korczak entrò nudo nei tre recinti concentrici del campo di Treblinka fino agli stanzoni dell’asfissia».

Poi, naturalmente, servono modelli significativi: in famiglia, a scuola, nella politica, in radio, in TV, su giornali, portali e blog. Oggi più di ieri il consenso attorno ai valori etici da trasmettere attraverso l’esperienza e la conoscenza non ruota più attorno a un modello riconosciuto di Società civile. La scuola, quindi, sembra assomigliare sempre meno al Paese in cui opera: ma tant’è, la confusione è universale. Così ci si potrebbe chiedere, credo legittimamente, se nel Piano di studio della nostra scuola ci sia spazio per quel che taluni considerano argomenti di nessuna importanza: la xenofobia, il razzismo, il rispetto. Il diritto.

 

Il trailer del film Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismäki (2011), umanissimo film che dovrebbe far parte della formazione di ogni giovane.

Scritto per Naufraghi/e

I tempi della scuola

A ridosso dei giorni di fine anno scolastico, qualche considerazione sul calendario

Esiste un tempo giusto per andare a scuola? C’è qualche dato più o meno scientifico che determini quante ore alla settimana è necessario stare a scuola? E, parallelamente, qualcuno è in grado di dire con sicurezza qual è la miglior durata dell’anno scolastico e come si devono alternare i momenti scolastici e quelli dedicati al riposo? È una questione in parte astronomica, quasi cosmologica, e in altra parte antropologico-religiosa. Forse.

È sotto gli occhi di tutti che anche al centro dell’organizzazione dell’anno scolastico ci sia il Sole. Quando la terra avrà compiuto quattro rivoluzioni intorno al Sole, il bimbo nato poco dopo il solstizio d’estate dovrà andare a scuola. Ma l’economia preme, così che molti cuccioli di homo sapiens vanno già a scuola dopo tre giri, mentre altri sono affidati ai nidi per l’infanzia anche prima di concludere il primo giro: sennò non si sopravvive.

Questo circuito planetario scandisce tutto il resto. Dopo quei primi due giri obbligatori si entrerà nella scuola elementare, dove si permarrà per cinque giri. Poi nuovo cambio, per altri quattro giri. Da lì in avanti ognuno potrà continuare a inventarsi qualcosa al termine di ogni giro. Se lo desidera e glielo concedono.

Correttezza vuole che non si taccia sulle penitenze: come un grande gioco dell’oca, capita che qualche poveretto sia costretto a fare dei giri di penalità, oggi chiamati “rallentamenti” (una volta si chiamavano “bocciature”, ma la sostanza è la stessa): perché durante il giro bisogna superare tante prove, così da poter accedere direttamente al giro successivo.

C’è poi un secondo aspetto, antropologico-religioso, che determina i tempi. Come è noto, nel Canton Ticino l’anno scolastico apre i battenti a inizio settembre e chiude a metà giugno, dopo aver totalizzato 36 settimane e mezza (sic) di frequenza effettiva. Tra la partenza e l’arrivo si prevedono – ci mancherebbe – alcune soste per prendere fiato. Una pausa ogni tot settimane, come imporrebbe la logica? Neanche per sogno.

C’è una decina di giorni di vacanza attorno a Pasqua. Ma chi determina la data della Pasqua? Le necessità di riposo di docenti e allievi? No! La Pasqua è il deus ex machina delle feste mobili (e del calendario scolastico). La Pasqua cade nella domenica seguente il primo plenilunio che viene dopo l’equinozio di primavera. Chiaro? No? Amen.

Va da sé che la Pasqua, nel suo alone luminoso, genera innumerevoli altre pause. È il Cielo che prescrive le vacanze di Carnevale, così come il seguito di feste ammucchiate entro metà giugno (Ascensione, Pentecoste e, a volte, Corpus Domini). E le altre vacanze? Ci sono le vacanze autunnali, più note come «vacanze dei morti», che cascano in corrispondenza con Ognissanti. Seguono le mitiche vacanze di Natale. Restano le date d’inizio e fine dell’anno scolastico, nonché gli orari settimanali, che variano – e aumentano – in base all’età e alla tradizione. In Ticino le vacanze estive durano quasi due mesi e mezzo. In molti altri cantoni, soprattutto della svizzera tedesca, non è così, ma non è il caso di farne un dramma.

Nell’ultimo mezzo secolo sono cambiate tante cose. Sta cambiando il clima, e molti edifici scolastici sono stati ideati per riscaldare d’inverno, ma non per rinfrescare già in marzo. E tra i cambiamenti ai quali la scuola dovrebbe essere sensibile c’è tutto il mondo del lavoro, la qualità e l’entità dei salari, gli orari e la pianificazione delle vacanze.

La scuola ticinese sospesa in una bolla temporale (l’Aula storica Franscini di Lugano in una fotografia di Marco Beltrametti).

Così il cosiddetto doposcuola è diventato per molti una necessità sociale ed economica, e le ore del doposcuola possono essere più di quelle della scuola, anche se non si è capito come mai tocchi alla scuola, almeno quella obbligatoria, occuparsi anche dei suoi tempi morti – la refezione, il doposcuola, le colonie estive. Eppure, era cominciato col doposcuola ricreativo e artistico-sportivo, quello dei corsi di ceramica, pittura, teatro…

Poi arrivò il cosiddetto doposcuola sociale, per custodire i figli di tanti immigrati, di mamme sole che il sole non lo vedono mai, di poveri cristi che spesso non conoscono la lingua italiana, di famiglie che non hanno parenti nel territorio in cui vivono, lavorano e mandano i figli a scuola. Così sono nati gli asili-nido, le mense, le colonie diurne e quelle stanziali. Eravamo nella seconda metà degli anni ’70 del secolo passato.

Che ci siano i tempi della scuola e quelli della custodia e della sorveglianza è ormai un dato oggettivo, con percentuali di diffusione che variano naturalmente da un posto all’altro. Tuttavia, una maggiore articolazione tra i due potrebbe generare risultati vantaggiosi non solo, come ora, per l’economia privata, ma anche per gli allievi. Non si scordi che bambini, ragazzi e adolescenti che devono far capo ai servizi di custodia nei tempi morti della scuola portano sul groppone un carico supplementare di vita “sociale” – un po’ come fare gli straordinari: magari, al rientro, con qualche compito a casa, tanto per rallegrare quel breve tempo in famiglia, quando tutti sono stanchi morti.

 

Scritto per Naufraghi/e

La prima parte di questo articolo è stata tratta, con alcune modifiche, da un altro post presente in Cose di scuola: La scuola, la tradizione cattolica e il culto del sole (18.06.2014).

La foto di Marco Beltrametti (l’Aula storica Franscini di Lugano) è tratta dal progetto fotografico Aule.