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Relazioni interculturali o folclore?

Ben vengano le occasioni di incontro come la “festa dei popoli”, ma imparare davvero a condividere il mondo con chi ci sta accanto richiede ben altro impegno

Da qualche anno, a fine estate, la città di Locarno organizza la Festa dei popoli. L’obiettivo è far conoscere e promuovere le diverse culture – straniere e locali – presenti sul nostro territorio. Lo fa attraverso la gastronomia, le tradizioni e l’arte, ma anche stimolando la riflessione sul vivere insieme grazie a momenti di discussione e approfondimento. Qualche domenica fa mi sono intrufolato, a cavallo del mezzodì, tra le tavolate, le «cucine» e il palco di Piazza Grande, ho assaporato i profumi e gli aromi, i colori, lo sfoggio delle diversità.

Mi sono un poco immalinconito, pensando ai tanti momenti di incontro che avevo organizzato nei quasi trent’anni di direzione delle scuole comunali locarnesi. Fino agli anni ’80 gli immigrati arrivavano dall’Italia. La scuola ticinese non se ne curava più di tanto: parlavano italiano, non era necessario condividere i tanti approcci messi in atto nel resto della Svizzera.

Una quarantina di anni fa arrivarono alcune famiglie turche, seguite, negli anni successivi, vuoi alla ricerca di un lavoro, vuoi perché in fuga da guerre e discriminazioni, da spagnoli e portoghesi, poi dall’ex Jugoslavia; a seguire, dominicani, brasiliani, colombiani. Nacque in quel periodo, proprio a Locarno, il primo tentativo per facilitare l’inserimento di quelle bambine e di quei bambini nelle classi ordinarie, pensando, almeno fin lì, di insegnare loro quel minimo di italiano che chiamerei di sopravvivenza.

I profughi usufruivano del permesso N, destinato ai richiedenti asilo, uno statuto precario e tutt’altro che favorevole. Ben diverso dal più recente permesso S, concesso in modo rapido alle famiglie ucraine dopo l’attacco russo del 24 febbraio 2022. Questo confronto mette in luce un’accoglienza molto diseguale: non ho l’impressione che oggi lo stesso slancio sarebbe concesso ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, né che le misure punitive contro la Russia siano state replicate nei confronti di Israele, almeno fin qua. Si percepiva, allora come oggi, un certo clima di xenofobia, a tratti persino di razzismo. Nulla di nuovo, se si pensa al trattamento riservato in passato ai Gastarbeiter. Celebre resta la frase di Max Frisch: «Volevamo braccia, sono arrivati uomini».

È da riflessioni simili che, quasi due decenni più tardi, cominciai a proporre dei momenti d’incontro, spesso assai simili alle tante feste dei popoli dei nostri anni: perché c’erano la gastronomia e il clima rilassato dello stare insieme. La scuola, tutto sommato, riusciva, benché a singhiozzo, a proporre dei momenti di incontro – poi quel che succedeva dentro le aule a contatto con gli obiettivi dei programmi scolastici è tutt’altra questione. Se tutto ciò sia servito a qualcosa non lo so dire. Mi sono chiesto tante volte – e continuo a chiedermelo – dove terminasse l’aspetto un po’ pittoresco delle nostre feste e dove iniziasse, invece, la strage [scolastica] degli innocenti: bambini e ragazzi spesso penalizzati dalle armi tipiche della scuola, in primis la valutazione. Una dinamica che, del resto, si ritrova anche in altri ambiti della società.

Cito, traducendo e sintetizzando, l’incipit di un prezioso manuale pubblicato circa un anno fa: Negli ultimi decenni l’uso di termini come multiculturale, transculturale, interculturale e simili è aumentato in politica, nelle istituzioni, nelle ONG, così come nei campi dell’educazione, del sociale, della cultura e della ricerca. Questa proliferazione rende i concetti meno chiari, con definizioni che oscillano tra descrizione oggettiva e giudizio normativo. E allora? ci si potrebbe chiedere.

Allora basterebbe pensare al Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese, in cui l’aggettivo multiculturale appare tre volte e interculturale una ventina: ma paiono parole usate alla carlona, con diverse sfumature piuttosto soggettive e senza troppe spiegazioni.

Il manuale citato è stato pubblicato dalle Éditions Aphil – Presses universitaires suisse. È esaustivo, ed è volto a capire una problematica di tale smisurata complessità in molteplici contesti sensibili alle relazioni interculturali, e ad agire di conseguenza. Relations interculturelles, di Edo Poglia, professore emerito dell’Università della Svizzera Italiana, e Francesca Poglia Mileti, professoressa di sociologia all’Università di Friburgo, percorre diversi ambiti sensibili alle relazioni interculturali: le migrazioni e la loro gestione; l’educazione e la formazione; la sanità e il lavoro sociale; i conflitti armati e la sicurezza; la giustizia e la polizia; i dibattiti politici/elettorali; le relazioni internazionali; la cooperazione e l’aiuto allo sviluppo; la promozione dei diritti umani nelle situazioni di multiculturalità; le pratiche e le organizzazioni religiose; i media; le imprese globalizzate/mondializzate; i servizi e le attività commerciali; la diversità culturale nella vita quotidiana.

Volendo riassumere, forse maldestramente, il contenuto del manuale – due volumi e circa mille pagine per analizzare la realtà sociale e passare dai problemi alle competenze di comunicazione interculturale – si potrebbe azzardare un’estrema sintesi della sintesi editoriale: la diversità culturale arricchisce le nostre società, ma può anche generare incomprensioni, tensioni e perfino conflitti. Questo libro offre strumenti chiari e pratici per capire le dinamiche delle relazioni interculturali e imparare a gestirle al meglio. Con un approccio multidisciplinare e numerosi casi reali, si rivolge a professionisti, studenti e a chiunque sia interessato a vivere, in modo più consapevole ed equilibrato, in un mondo sempre più multiculturale.

Decenni di terminologia fumosa hanno spesso illuso più che aiutato. Relations interculturelles, per contro, offre strumenti concreti per passare dalla teoria alla pratica, rivolgendosi a chi forma e governa la società. Così che magari anche le feste dei popoli smetteranno di essere solo un’esposizione di diversità, per diventare un laboratorio vivo, in cui imparare davvero a condividere il mondo con chi ci sta accanto.

Scritto per Naufraghi/e

Educare in tempi oscuri

Crescono le forze reazionarie in tutta Europa; la risposta democratica spetta anche alla Scuola, come segnala il pedagogista e ricercatore Philippe Meirieu

In un suo recente lavoro Philippe Meirieu, pedagogista, ricercatore e saggista, afferma che l’ascesa dell’estrema destra, ovunque in Europa, rappresenta un pericolo considerevole per coloro che credono ancora che l’emancipazione di ciascuno e la solidarietà tra tutti siano le uniche prospettive in grado di dare un senso al nostro futuro. […] Nel paese dei Lumi [ma non solo, direi] si deve ancora sperare in un vero risveglio politico, nei mesi e negli anni a venire, da parte di coloro che credono ancora, come diceva Theodor W. Adorno, che «Pretendere che la barbarie non si ripeta più è la prima esigenza di ogni educazione», perché, spiegava, «che ci siano degli uomini che diventano esecutori di ciò che perpetua la loro stessa schiavitù e rinunciano a ogni dignità […], è qualcosa su cui l’educazione ha comunque ancora molto da dire» (Educare dopo Auschwitz, 1967).

Voltaire e Rousseau, 1794 circa

Che sia una destra estrema o anche solo un centro-destra agguerrito, si tratta di un’onda che ha invaso quasi tutto l’Occidente e che ha preoccupanti ricadute sui sistemi scolastici, con una certa enfasi verso i piani di studio, le impostazioni pedagogiche e le regole di valutazione. Ci si può guardare in casa, per cominciare. HarmoS è un concordato che definisce a livello svizzero le discipline che rientrano nella formazione di base e che devono essere affrontate da ogni bambino nel corso della propria scolarità obbligatoria. Queste sono le lingue (lingua di scolarizzazione, seconda lingua nazionale e un’altra lingua straniera), matematica e scienze naturali, scienze umane e sociali, educazione musicale, educazione visiva, educazione alle arti plastiche e educazione fisica. Si badi bene, l’elenco segue l’importanza data a ogni disciplina e trascina nella propria scia la dotazione di ore di insegnamento e il peso della valutazione, che è piuttosto selettiva.

Parrebbe insomma che, tanto o poco, un gran numero di paesi europei insegua quelle “eccellenze” internazionali date da piani di valutazione come PISA, l’indagine internazionale coordinata dall’OCSE, che valuta le competenze degli studenti di 15 anni in lettura, matematica e scienze. L’obiettivo di PISA è misurare, a scadenza triennale, quanto gli studenti, prossimi alla fine dell’obbligo scolastico, siano in grado di applicare le loro conoscenze e abilità in situazioni reali, solleticando un confronto tra i sistemi educativi dei vari paesi partecipanti, ma senza minimamente considerare le strategie messe in moto per raggiungere i loro risultati, cioè come funzionano i sistemi scolastici dei diversi paesi.

Ha affermato lo scrittore Paolo Di Paolo: Dove i genitori non credono nei figli, ci crede la scuola. Dove la società attempata non crede nei giovani, ci crede la scuola. Dove i genitori e la società attempata non credono nella scuola, la scuola è tenuta a credere in sé stessa. Dove la società attempata e le sue sacche reazionarie non credono più o non hanno mai creduto nella democrazia, la scuola continua a crederci. Deve crederci. (La Repubblica, 11.09.2024).

Lo sanno tutti che certi test scolastici si possono superare dopo una bella “secchiata” la notte prima degli esami, magari in bella compagnia, una notte che sarà rievocata quando, da grandi, si faranno le rimpatriate. Da lì a ricordare di cosa si trattava ce ne corre: si commemorano lo stress, il prof accigliato che ci scrutava, gli stratagemmi per inventare i bigini più inespugnabili, in una recita conosciuta da tutte le parti in gioco. E poi? Cosa è rimasto di tutta quella sceneggiata? Purtroppo è quel che succede con regolarità, in tanti gradi scolastici. La palese incoerenza, semmai, risiede nel contenuto di ogni test. Perché un conto è – poniamo – la padronanza mnemonica delle caselline, un altro la capacità di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà: che è una delle finalità della scuola. Direi: più importante delle caselline, e pure di uno qualsiasi dei principi della termodinamica. Ma chi si occupa di valutare gli obiettivi più alti della scuola?

È soprattutto in questo contesto di competizione e selezione, sempre più tracotante e dispotica, che si colloca l’ultima fatica di Philippe Meirieu, Éducation: rallumons les Lumières!, che potremmo tradurre con “risvegliamo l’Illuminismo”, rianimiamolo, ristabiliamolo, resuscitiamolo. Applichiamone i principi fondamentali. L’autore ricorda che il secolo dei Lumi fu un’epoca di passione per l’educazione, dove si affermò la scienza contro l’oscurantismo e si lottò per liberare i bambini da ogni forma di dominio, compresa quella della Chiesa, che si vantava di proteggere i bambini dalla tentazione e dal peccato inculcando loro un catechismo basato sulla paura dell’inferno. Gli intellettuali illuministi, raccogliendo il sapere globale nelle loro enciclopedie, aspiravano invece a formare individui capaci di pensare autonomamente e scegliere liberamente il proprio destino, una visione di emancipazione che rimane fondamentale anche oggi.

D’accordo, il mondo, fin qua, non è andato esattamente in quella direzione. Forse anche perché la Costituzione della République comincia con La Francia è una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale, mentre quella svizzera decolla In nome di Dio Onnipotente: come è noto almeno agli umanisti, le parole hanno un senso.

Philippe Meirieu, Éducation: rallumons les Lumières!, 2024, Éditions de l’Aube, pp. 185 (disponibile anche in formato e-book).

La traduzione delle citazioni dall’originale è mia.

Scritto per Naufraghi/e

La scuola non è il Golgota

A Singapore i giovani pagano un prezzo elevato per un sistema estremamente orientato al rendimento: mancanza di sonno, problemi di attenzione e pensieri confusi. Ogni anno alcuni studenti si tolgono la vita per disperazione. Vogliamo questo anche in Ticino?

La Legge della scuola, votata dal parlamento sul finire del XX secolo, stabilì che i genitori erano a pieno titolo una componente della scuola, con organi e compiti sanciti da leggi, regolamenti, norme e direttive. Era il 1990 e la scuola era già un po’ diversa da quella degli anni in cui questi propositi erano nati, vent’anni prima. Diciamo che sull’arco del mezzo secolo, dall’istituzione della scuola media nel 1974 a oggi, sono cambiate parecchie cose. Il varo della nuova Legge arrivò sei anni dopo che Apple presentò Macintosh e tre mesi dopo il crollo del muro di Berlino: basterebbero queste due date a simboleggiare i frenetici cambiamenti di un’era forse ancora ai suoi inizi.

Anche solo limitandosi alla scuola obbligatoria, sarebbe già eloquente il confronto tra i (vecchi) programmi della scuola elementare e della scuola media con i contenuti del Piano di studio attuale, che copre la scolarizzazione di tutte le persone residenti nel Cantone dai quattro ai quindici anni di età. Dei genitori e dei loro dispositivi formali e informali di collaborazione, invece, è cambiato poco, e di quel poco non si sa bene chi ne usufruisce e se ne giova: ci si chieda quanti frequentano l’assemblea dei genitori e entrano nei loro comitati, e quanti hanno incontri regolari e fruttuosi con i/le docenti dei loro figli.

Nel 2023 la SRF ha realizzato un interessante reportage – Modelli scolastici a confronto – che mostra dove si situa il nostro sistema scolastico rispetto a Singapore e alla Finlandia, due mondi formativi agli antipodi, due scuole da anni al top delle classifiche PISA per i loro risultati in matematica, lettura e scienze. La scuola svizzera si colloca tra questi due modelli. Ho estrapolato qualche passaggio che riguarda Singapore e Finlandia.

I giovani singaporiani pagano un prezzo elevato per questo sistema estremamente orientato al rendimento: mancanza di sonno, problemi di attenzione e pensieri confusi, che a volte sfociano nel peggio. Ogni anno, alcuni studenti si tolgono la vita per disperazione. Centinaia chiedono aiuto all’organizzazione SOS, specializzata nella prevenzione dei suicidi.

Dal sud-est asiatico e tropicale alla Finlandia anche il clima scolastico è assai diverso. Un maggiore riconoscimento è la chiave per avere insegnanti motivati, che dovrebbero insegnare le competenze di cui gli alunni avranno davvero bisogno: le competenze del XXI secolo, ovvero creatività, comunicazione, cooperazione, lavoro di squadra, sulla scorta di un’idea degli obiettivi fondamentali della scuola: formare futuri cittadini muniti di competenze per professioni di cui non conosciamo ancora l’esistenza.

La scuola svizzera è distante dai modelli della Finlandia e di Singapore, riportando comunque risultati sopra la media dei paesi partecipanti e nel gruppo di testa dei paesi europei. Tenuto conto che, di solito, la scuola non insegna ciò che dice, ma insegna ciò che fa, si potrebbe dire che il suo funzionamento ricorda vagamente quello singaporiano, anche se, fortunatamente, siamo ancora lontani da quei tristi finali dell’esasperata competizione scolastica.

Eppure qualche sintomo preoccupante si è già palesato: molti genitori non sanno più da che parte girarsi e accumulano stanchezza, ansia, senso di inadeguatezza. Recentemente, TIO ha riportato di Genitori sempre più in burnout. Tra le diverse testimonianze raccolte – scrive il portale – c’è quella di Sonia, 36 anni. È una mamma single di un figlio di tre anni e mezzo che – racconta – «per sbarcare il lunario faccio due lavori: il primo in un ufficio delle imposte, il secondo come badante». Ammette di essere «costantemente esausta e spesso vorrei essere altrove, anche quando sono a casa. Ogni volta che mi alzo al mattino ho la nausea e penso tra me e me: come farò ad affrontare la giornata? Vorrei solo che fosse di nuovo sera per poter dormire. Mi sembra una lotta costante per la sopravvivenza».

Nel contempo Pro Juventute parla di queste figlie e di questi figli, che, per gran parte dell’anno, sono allievi e studenti: Bambini e giovani sotto stress e pressione competitiva. Di sicuro non sono le mamme come Sonia a creare problemi alla scuola, a prendere di mira gli insegnanti a loro giudizio inadeguati. Purtroppo, capita di incontrare genitori a volte un po’ squadristi, mai sufficientemente sazi di nozioni, sacrifici, fatiche, competizione per i loro figli. Ha scritto di recente il parlamentare Piezzi del PLR: In campo educativo, e l’ho denunciato più volte, sono troppo assenti valori come il sacrificio, l’allenamento allo sforzo, la capacità di reagire agli insuccessi. Il pulpito ha naturalmente la sua importanza, dato che il deputato è pure maestro. Ma perché mai dovremmo rifarci alla narrazione cattolica, che dalla Via Crucis, disseminata di dolori, sale al Golgota?

Pieter Bruegel il Vecchio, Salita al Calvario, 1564, olio su tavola, 124×170 cm, Kunsthistorisches Museum Vienna

Alle tante mamme come Sonia, che hanno figli a scuola, non si possono chiedere ulteriori sacrifici oltre alla fatica e al sudore che già affrontano ogni giorno, felici di lasciare i figli a scuola, un po’ meno di essere costrette a far capo al doposcuola o alle colonie, per l’impossibilità di restare con loro. La scuola, per lo meno quella dell’obbligo, dovrebbe darsi una calmata e smettere di piegarsi alle richieste di tutte quelle corporazioni che chiedono sempre più nozioni, «competenze» e selezione.

In Finlandia le giornate scolastiche sono più brevi che in quasi tutti gli altri Paesi: 4-6 ore al giorno con una settimana di 5 giorni. Gli alunni, inoltre, dedicano anche poco tempo ai compiti a casa: 10-20 minuti al giorno. In questo modo si evita di penalizzare i bambini senza un supporto a casa. In questo modo non ne risentono né il sonno né le prestazioni cognitive. Ciò nonostante i livelli di competenza dei loro quindicenni sono simili ai nostri.

 

Scritto per Naufraghi/e

Su temi analoghi segnalo tre articoli di questi giorni:

Gli affanni della scuola liberal sociale, di Fabio Camponovo (Naufraghi 02.09.2024), La scuola tra l’essere e l’avere, di Elda Pianezzi (laRegione 03.09.2024) e Scuola fa rima con idea, di Michela Luraschi (laRegione 03.09.2024). I due articoli pubblicati su laRegione sono visibili anche qui.

 

Si guarda la pistola, non si vede il dramma

Come scriveva don Milani, “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde”. Occorre chiedersi perché.

Tio.ch, lunedì 3 giugno, ore 11:47. Imponente operazione di polizia, evacuata la Commercio. Alla scuola cantonale di commercio è in corso un’imponente operazione di polizia. Secondo nostre informazioni, l’intervento in forze di numerose pattuglie della Cantonale sarebbe stato provocato da un ragazzo di prima commercio che in aula avrebbe tirato fuori una pistola e l’avrebbe puntata contro una docente. Ore 12:51. La polizia conferma: «Docente minacciata da un allievo». Fermato un minorenne. L’allievo è stato fermato verso le 11.30 all’interno dell’Istituto scolastico. Non vi sono feriti. Sono in corso gli accertamenti del caso e pertanto per il momento la struttura scolastica rimane chiusa. Ore 15:07. Le minacce all’improvviso e poi il caos.

Ha scritto su laRegione Tommaso Soldini, scrittore e docente, presente alla “Commercio” in quei momenti di sconcerto: «La difficoltà delle giovani generazioni è palpabile; lo vediamo in classe noi docenti, ne è precisa testimonianza la presenza degli sportelli di mediazione, così come il fitto ricorso al servizio medico-psicologico, ma anche il largo uso di farmaci che molti studenti non nascondono di assumere. Un ragazzo che impugna un’arma quasi vera per scongiurare una bocciatura, però, non fa riflettere solo sul disagio psichico, direi che mette l’accento anche sul ruolo della scuola, che è e resta quello di formare, educare alla cittadinanza, al pensiero critico, e ad affacciarsi in modo consapevole al mondo del lavoro» (Quattro mura e un calcio di pistola, laRegione 11.06.2024). L’articolo si chiude con una poesia che Soldini dice di aver ricevuto da un suo ex studente.

Parrebbe intitolarsi Quattro mura, che sono le mura dell’aula dove abbiamo imparato la grammatica / di quattro lingue diverse; / perché più è meglio. Sono le quattro mura dove incombe ininterrottamente una valutazione, che è la metratura di competenze e incompetenze, e nel contempo giudizio individuale sulla tua umanità. E succede di tutto, nei ricordi del poeta: chi è bocciato col 2 in tedesco perché beccato a copiare; chi se ne va, e non torna, per un attacco di panico, perché non ci si può mostrare deboli; chi può soffrire per quattro anni e medita il suicidio; chi a sedici anni non ha tempo per la terapia; chi è uno dei tanti ragazzi preoccupati, perché a giugno lo sai.

Quelle quattro mura,
dove oggi un ragazzo
ha tirato fuori una pistola
per rabbia,
che forse era paura,
che forse era tristezza,
che forse era angoscia,
di non avere un futuro.

Mi chiedo se il tangibile disagio psicologico e sociale che vivono tanti giovanissimi non dipenda anche dalla scuola che sono obbligati a frequentare almeno per undici anni: in fondo è un lungo e importante periodo in cui trascorrono più tempo a scuola che a casa. Ha osservato don Milani che bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo. E ha aggiunto: La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde.

L’ho scritto tante volte, l’ultima proprio in questo blog (La scuola è un luogo dove bisogna poter sbagliare senza correre rischi): «Le valutazioni sono espresse con note numeriche in tutta la scuola dell’obbligo, a partire dall’elementare. La scala va dal 3 al 6, con la sufficienza dal 4 in su. Con questi numeri e coi loro mezzi punti si fanno le medie. Una media che può decidere il futuro di un quindicenne è quel 4.65 tra tutte le materie, senza il quale non si accede al liceo. Si potrebbe supporre che il metodo sia semplice quanto scientifico. Per fare un esempio, se tu hai 6 in italiano e 3 in matematica significa che vali mediamente 4 ½. In realtà sei bravissimo in italiano e non capisci un’acca in matematica: questo dicono i numeri. Ma non solo. La scala delle note scolastiche non ha intervalli identici e regolari. Il metro del falegname è sempre lungo un metro, anche se ha la luna storta».

Invece la scuola continua imperterrita a difendere questo modello di frammentazione delle materie scolastiche, convalidato da un modo iniquo per misurare gli apprendimenti di ognuno. A chi galleggia perennemente al limite della sufficienza o si affanna nella melma di un cupo fallimento si dice che non studia, non è tagliato, non è al suo posto, per lo più senza nemmeno accorgersi che ogni insufficienza può essere un colpo di pistola che ti ammazza il futuro. Non ci pensa nessuno, si preferisce credere che le insufficienze siano giuste, addirittura scientifiche.

Nessun futuro (dell’artista di strada Banksy).

Non si può fingere di ignorare che la condizione socioeconomica di ogni studente sottoposto a valutazioni scolastiche ha un impatto considerevole sul valore scolastico decretato dagli insegnanti e dalla scuola. Tanto per dire: In matematica, in Ticino, in Svizzera e nella media OCSE, si osserva che chi ha un’elevata condizione socioeconomica e culturale ottiene un punteggio medio nettamente superiore rispetto a chi ha una condizione socioeconomica inferiore (PISA Ticino 2022).

Non è più il tempo, dunque, dell’ipocrisia, dello stupore e degli schiamazzi morali a mezzo stampa. Dopo tanti proclami la scuola faccia qualcosa, senza più dare ascolto al canto delle sirene dell’economia.

Scritto per Naufraghi/e

La scuola, fra parità di opportunità e parità di risultati

L’inclusione è un elemento importante e qualificante del nostro ordinamento scolastico, ma non è ancora un obiettivo raggiunto e forse si lega ad alcuni dati critici emersi da un recente rapporto sulla scuola ticinese

Ho già parlato in questa sede di PISA 2022, dei risultati della scuola ticinese e di quella svizzera, soffermandomi in particolare su quella significativa percentuale di quindicenni che, in questa sorta di campionato del mondo dell’istruzione, il podio lo vedono solo da lontano: il pensiero va a quegli allievi incapaci di superare i livelli minimi delle prestazioni cronometrate a ritmo triennale dai paesi dell’OCSE. Secondo il rapporto SUPSI del dicembre scorso, le percentuali di allieve e allievi ticinesi sotto il livello 2 fissato da PISA – cioè inadeguati in matematica (14%), lettura (19%, quasi un quinto) e scienze (15%) – sono statisticamente inferiori a quelle della Svizzera e della media OCSE. Per intenderci, il livello 2 comprende gli alunni in grado di affrontare problemi comuni, ma in chiara difficoltà di fronte a situazioni più complicate e che richiedono più abilità e competenze.

Fin qua non ci sarebbe proprio nulla da recriminare, figuriamoci. Siamo tra i paesi più ricchi del mondo, ci mancherebbe una scuola scombiccherata. Però sono percentuali che devono interrogarci, anche perché quei poveracci che si insediano sempre a fondo classifica ci finiscono spesso già nelle prime settimane di scolarizzazione. Anche solo parlare di 10% significa essere in chiaro che ci sono mediamente due o tre allievi per classe che annaspano. Non è bello essere gli ultimi della classe, perché si passeranno anni di niuna beatitudine, salvo quei pochi che, ogni tanto, scoprono mondi che li fanno diventare i primi: il bullismo, la piccola criminalità, l’adrenalina della trasgressione, il disprezzo verso il mondo che li circonda.

Emanuele Berger, direttore della divisione della scuola e coordinatore del DECS, mette al primo posto del successo ticinese il carattere inclusivo della sua scuola, «e PISA – chiarisce – ci dice da sempre che i sistemi inclusivi hanno dei buoni risultati». In ogni modo, non è che la scuola ticinese sia diventata inclusiva dall’oggi all’indomani. Attualmente è una parola multifunzionale, che include davvero di tutto: «Successo per Winterland con una Locarno illuminata a festa», ho letto sul CdT. «Il segreto di questo successo? L’inclusione, secondo gli organizzatori dell’evento».

Ma taluni elementi dell’inclusione, in altri anni chiamata integrazione, erano già presenti da tempo; penso, per chiarire con qualche esempio, ai figli alloglotti della massiccia immigrazione del primi anni ’90 del secolo scorso, che venivano presi a carico dalla nostra scuola, seguiti da un docente che si occupava della lingua e dei piccoli e grandi problemi di vita quotidiana, e che erano inseriti nelle normali classi nel giro di pochi giorni. Non era una prassi nazionale. Ricordo un collega, mi pare argoviese, che mi aveva raccontato come funzionava in quel cantone. Gli alloglotti erano raggruppati in classi in cui si insegnava il tedesco, cioè l’Hochdeutsch. L’anno dopo si «integravano» nelle classi usuali, dove si parlava lo Schwiizertüütsch.

Anche al di là del discorso sugli alloglotti, rammento che in quegli stessi anni ’90 avevo collaborato ai primi tentativi di interazione / condivisione di spazi e tempi, seppur parziali, tra “normali” allievi della scuola elementare e allievi delle scuole “speciali”, di cui era ispettore, in quegli anni, Michele Mainardi, Punto di riferimento per l’educazione inclusiva e la pedagogia speciale, come lo definisce oggi laRegione, introducendo una recente intervista (‘Nell’inclusione il Ticino è stato un precursore lungimirante’).

Tornando ai risultati di PISA: anche nella nostra scuola inclusiva le percentuali di allieve e di allievi sotto il livello 2 – cioè sui vagoni di coda della classifica – sono tanti, certamente troppi. Non può essere consolatorio scrivere che i nostri tassi di insuccesso «sono tutti minori da un punto di vista statistico rispetto a quelli della Svizzera e della media OCSE». Il Ticino non è naturalmente un Sonderfall, in questo caso specifico. Le percentuali degli allievi più fragili, in effetti, non sono una nostra prerogativa, ma assai simili a quelle di altri cantoni.

In definitiva, però, spunta una domanda: quella percentuale importante che affolla le statistiche dei più deboli, non è che magari è formata anche da tanti inclusi? Non è che gli diamo un banco e un posto in aula, addirittura un/a compagno/a di banco, e poi, quando somministriamo i test, non guardiamo in faccia a nessuno, perché siamo equi, democratici e imparziali?

Su un numero speciale della rivista romanda Éducateur (febbraio 2012), dedicato ai cento anni di vita dell’Institut Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, il sociologo Walo Hutmacher pubblicò un articolo dal titolo intrigante: Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats à un niveau élevé. «Le pari opportunità – scriveva – fanno parte della scuola pubblica. Ma è un’uguaglianza astratta, di maniera, perché presume, senza dirlo, che la scuola di base sia una gara, così che ha un senso solo in una scuola selettiva».

L’inclusione, di per sé, mette a posto le nostre coscienze, ma finisce lì. Dopo avergli dato un banco, agli inclusi bisognerebbe garantire un’etica pedagogica impeccabile, per evitare un’esclusione de facto, benché politicamente de jure.

 

Scritto per Naufraghi/e