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Scuola: sullo stress dei nostri giovani

I fautori di classifiche di merito non dimentichino le parole di don Milani: “La scuola ha un problema solo, quello degli studenti che perde”

Si parla ancora dello stress dei nostri giovani e giovanissimi. Ha scritto Simonetta Caratti su laRegione: «Attacchi di panico, ansia, autolesionismo, depressione e abuso di psicofarmaci: un malessere silenzioso sta travolgendo sempre più giovani. Ragazzi e ragazze che si sentono disorientati, incapaci di immaginare il proprio futuro. Non sempre sanno dare un nome al dolore che provano, ma quel disagio è reale, profondo, e cresce nell’indifferenza di una società che continua a premiare la performance, l’immagine, la perfezione».

I produttori di stress sono numerosi e variegati, spesso presi sottogamba e a volte neppure distinti con chiarezza. Alcuni potrebbero anche essere controllati. È il caso dei telefonini, sempre più spesso presi di mira e colpevolizzati, quasi fossero dotati di vita propria, un po’ come le mostruose creature protagoniste di Alien, il film cult di Ridley Scott del 1979. Si tenta così di combattere questo presunto nemico con minacce e divieti. I genitori alzano le barricate e invocano il pugno di ferro istituzionale; sono probabilmente gli stessi genitori che gliel’hanno comprato, il mostro, e l’alimentano giorno dopo giorno: cibi costosi, gli abbonamenti.

Il Centro ha lanciato l’iniziativa «Smartphone: a scuola no!», che dovrebbe concludersi in questi giorni. Il successo è certo. Ed è altrettanto certo che ogni divieto rappresenta un fallimento dell’educazione. Il filosofo e pedagogista americano John Dewey, tra i fondatori della scuola attiva, riteneva che l’educazione non può poggiare su imposizioni o proibizioni – soprattutto quando non si sa più che pesci pigliare – ma su esperienze che permettano di sviluppare autonomia e responsabilità.

Tant’è: la stessa Simonetta Caratti ha titolato il suo Commento Pausa digitale anche per gli adulti. E precisa: «Le cause sono molteplici: pressioni scolastiche, genitori stressati o assenti, modelli di successo irraggiungibili». Sui genitori stressati o assenti potremmo disquisire a lungo. È un mantra che dura da anni, che insinua sottilmente una colpevole assenza. Ci saranno anche le assenze colpevoli, ma ho conosciuto tante situazioni in cui le colpe erano altrove, ad esempio in salari inadeguati che obbligano tante coppie a non poter scegliere tra i figli e la gestione finanziaria della famiglia, nella necessità di arrivare a fine mese, di frequente col fiatone. Così, molti genitori sono costretti a lasciare i figli agli asili-nido, poi alla scuola, al doposcuola, alle colonie, ai parenti lontani: non sempre senza costi – a parte l’alto costo di crescere senza una mamma e/o un papà.

La scuola non sempre è in grado di percepire appieno queste situazioni, che sono presenti in maniera significativa. Basterebbe un minimo di empatia, anche da parte degli insegnanti e di chi detta i programmi di studio, le regole di valutazione, i compiti e lo studio a casa, per capire che il problema non è nelle famiglie, ma è radicato nel contesto sociale, economico e culturale di questo sfigato Cantone.

Sì, la scuola è una grande fabbrica di stress. In un articolo su Naufraghi/e di un anno fa (La scuola non è il Golgota) avevo commentato una di quelle valutazioni internazionali che, a volte, contribuiscono a indirizzare le politiche scolastiche dei paesi che vi aderiscono. Quell’anno in cima alle classifiche c’erano Singapore e la Finlandia, due paesi con livelli analoghi ma percorsi assai diversi per raggiungerli. I giovani singaporiani – scrivevo – pagano un prezzo molto alto per un sistema così orientato al rendimento: mancanza di sonno, problemi di attenzione, pensieri confusi, che talvolta sfociano nel peggio. Ogni anno alcuni studenti si tolgono la vita per disperazione.

In Finlandia, invece, le giornate scolastiche sono più brevi che in quasi tutti gli altri Paesi: 4-6 ore al giorno, con una settimana di 5 giorni. Gli alunni dedicano inoltre poco tempo ai compiti a casa: 10-20 minuti al giorno. In questo modo non si penalizzano i bambini privi di supporto familiare e non ne risentono né il sonno né le prestazioni cognitive.

La conclusione, oggi come ieri, è una sola. Come diceva don Lorenzo Milani, «La scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde». Eppure si insiste. Qua e là sembra addirittura un accanimento. Quando un insegnante non boccia nessuno si dice che è di manica larga, inattendibile sul piano del valore di ogni allievo/a. Quegli altri incutono terrore, nel loro istituto sono più famosi – che so? – di un centravanti ceduto ai club arabi. È quello che alimenta la statistica dei ragazzi e delle ragazze che la scuola perde per strada, a essere buoni un 10%. Ma una scuola senza i primi della classe e quelli che ci lasciano le penne, secondo taluni che scuola sarebbe?

Scritto per Naufraghi/e di mercoledì 19 novembre 2025

 

Se non ci fosse la scuola non ci sarebbe l’insuccesso scolastico

È difficile capire come mai la politica non si sia ancora allarmata di fronte alla più che decennale strage di allievi, che non riguarda solo le scuole medie superiori, ma anche la scuola media

Se non ci fosse la scuola non ci sarebbe l’insuccesso scolastico.

Meglio: En un sens, il ne saurait y avoir d’échec scolaire que par référence à une école qui met en échec. È una frase di Pierre Bourdieu et Jean-Claude Passeron, sociologi francesi che, nei primi anni ’70, pubblicarono un saggio che scosse il mondo dell’educazione e della scuola: La riproduzione. Sistemi di insegnamento e ordine culturale. Secondo i due studiosi, il sistema educativo contribuisce alla riproduzione delle disuguaglianze sociali attraverso la trasmissione del capitale culturale che è patrimonio delle classi dominanti, consolidando così le disuguaglianze esistenti. Analogamente la stessa scuola legittima le disuguaglianze sociali presentandole come naturali e meritocratiche.

Scrivono, tradotto con un semplice esempio, che nei primi anni della scolarità, in cui comprendere e maneggiare la lingua costituiscono il punto d’applicazione principale del giudizio dei maestri, l’influenza del capitale linguistico non cessa mai di esercitarsi: lo stile viene sempre preso in considerazione, implicitamente o esplicitamente, a tutti i livelli del curriculum, fino all’università.

Pensando alle valutazioni della scuola, è piuttosto evidente che il possesso di un capitale linguistico, appreso perlopiù in famiglia, in quello specifico contesto socio-culturale, è un chiaro vantaggio rispetto agli allievi che, sin dall’entrata nella scuola, quel capitale non ce l’hanno: potranno imparare a scrivere e a parlare in maniera del tutto corretta, e in questo caso non finiranno nelle paludi dell’insuccesso scolastico, che li inseguirebbe anno dopo anno. Ma di rado saranno in grado di costruire una lingua alta, per lessico e sintassi, benché grammaticalmente corretta.

Fino agli anni ’70, le discipline umanistiche contavano ben più di oggi. «Tutti coloro che hanno studiato filosofia – è un passaggio dell’ultimo romanzo del greco Petros Markaris (La violenza dei vinti, 2024) – conoscono la massima di Cartesio: Penso, dunque sono. In Grecia abbiamo modificato la massima e diciamo: Ho una poltrona, dunque sono. Stèfanos Rokkos apparteneva alla categoria di chi ha una poltrona. E aveva deciso di modificare il piano di studi dei licei in modo che potessero aprire agli studenti la strada verso le poltrone delle aziende e degli enti. Il pensiero non ha importanza. Quello che conta è la poltrona. Ma noi non permetteremo che le scuole diventino spacci di poltrone. Lotteremo, quale che sia il prezzo per noi. Da noi, mi pare, non lotta nessuno.

Simona Sala ha proposto recentemente alcune riflessioni sulla «scuola post-obbligatoria, ossia, quel bacino immenso in cui si trovano spesso a galleggiare centinaia di giovani che, non ancora del tutto certi del percorso formativo intrapreso, tentano di individuare una strada che li possa portare a una realizzazione personale e professionale»: in sostanza, parliamo dei licei e della scuola cantonale di commercio. Titolo dell’articolo: Una scuola superiore davvero inclusiva? L’occhiello aggiunge: Un insegnamento post-obbligatorio spesso disumanizzato.

La risposta al quesito, chiaramente retorico, è già scritta in una pubblicazione del DECS – Scuola ticinese in cifre 2023 che nella Prefazione, firmata dalla Consigliera di Stato Marina Carobbio Guscetti, afferma: Nell’anno scolastico 2021/22 solo 74% degli allievi di prima liceo sono stati promossi. Alla Scuola cantonale di commercio la selezione è stata ancora più massiccia: solo 62% degli allievi di prima sono stati promossi. Ma c’è un altro dato, raccolto in quel medesimo prezioso documento che, anno dopo anno, presenta le cifre della scuola ticinese. Cosa intendono fare tutti quegli studenti che, consci o meno delle loro attitudini, si iscrivono al liceo? Il 31% (i dati si riferiscono al 21/22) sceglie l’opzione Lingue moderne, seguono Biologia e chimica (28.3%), poi Economia e diritto (20.4%). Molto più staccate arrivano le Lingue antiche (8.6%), Fisica e applicazioni della matematica (7.1%), per finire con la Musica e le Arti visive, scelte peraltro possibili solo in alcune sedi. Cosa ci sia dietro questi indirizzi non è di facile comprensione, basti pensare, ad esempio, a chi vuole intraprendere la carriera di maestra/o di scuola dell’infanzia o elementare.

È difficile capire come mai la politica non si sia ancora allarmata di fronte a questa più che decennale strage scolastica, che non coinvolge solo le scuole medie superiori, ma anche la scuola media, che è scuola dell’obbligo. Per restare ai numeri, i medesimi dati dell’anno 21/22 dicono che il 60% degli allievi del II ciclo della scuola media ha seguito due corsi attitudinali – mutatis mutandis, per capirci, quelli che all’inizio erano i livelli A. Si può ipotizzare che un bel numero di loro, con l’iscrizione al liceo, rincorrerà un destino funesto e già scritto.

Il fallimento pare duplice: della scuola media, che è incapace di orientare un gran numero di suoi allievi; e della scuola media superiore che, con queste fucilazioni scolastiche, sembra voler incriminare la sua scuola-filtro. Dietro tutto ciò non si può far finta di non vedere che il diploma di maturità è il pezzo di carta che dà l’accesso a un numero impressionante e variegato di formazioni universitarie e para-universitarie, una specie di coperchio per tante pentole.

Resta, sullo sfondo, il dubbio di sempre, che riguarda le valutazioni scolastiche, dietro le quali ci possono essere le responsabilità di ogni studente o studentessa. Ma c’è anche, con altrettanta potenza di fuoco, l’incapacità di qualche insegnante: di educare, motivare, valutare e insegnare. Non necessariamente in quest’ordine.

 

Scritto per Naufraghi/e

Si guarda la pistola, non si vede il dramma

Come scriveva don Milani, “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde”. Occorre chiedersi perché.

Tio.ch, lunedì 3 giugno, ore 11:47. Imponente operazione di polizia, evacuata la Commercio. Alla scuola cantonale di commercio è in corso un’imponente operazione di polizia. Secondo nostre informazioni, l’intervento in forze di numerose pattuglie della Cantonale sarebbe stato provocato da un ragazzo di prima commercio che in aula avrebbe tirato fuori una pistola e l’avrebbe puntata contro una docente. Ore 12:51. La polizia conferma: «Docente minacciata da un allievo». Fermato un minorenne. L’allievo è stato fermato verso le 11.30 all’interno dell’Istituto scolastico. Non vi sono feriti. Sono in corso gli accertamenti del caso e pertanto per il momento la struttura scolastica rimane chiusa. Ore 15:07. Le minacce all’improvviso e poi il caos.

Ha scritto su laRegione Tommaso Soldini, scrittore e docente, presente alla “Commercio” in quei momenti di sconcerto: «La difficoltà delle giovani generazioni è palpabile; lo vediamo in classe noi docenti, ne è precisa testimonianza la presenza degli sportelli di mediazione, così come il fitto ricorso al servizio medico-psicologico, ma anche il largo uso di farmaci che molti studenti non nascondono di assumere. Un ragazzo che impugna un’arma quasi vera per scongiurare una bocciatura, però, non fa riflettere solo sul disagio psichico, direi che mette l’accento anche sul ruolo della scuola, che è e resta quello di formare, educare alla cittadinanza, al pensiero critico, e ad affacciarsi in modo consapevole al mondo del lavoro» (Quattro mura e un calcio di pistola, laRegione 11.06.2024). L’articolo si chiude con una poesia che Soldini dice di aver ricevuto da un suo ex studente.

Parrebbe intitolarsi Quattro mura, che sono le mura dell’aula dove abbiamo imparato la grammatica / di quattro lingue diverse; / perché più è meglio. Sono le quattro mura dove incombe ininterrottamente una valutazione, che è la metratura di competenze e incompetenze, e nel contempo giudizio individuale sulla tua umanità. E succede di tutto, nei ricordi del poeta: chi è bocciato col 2 in tedesco perché beccato a copiare; chi se ne va, e non torna, per un attacco di panico, perché non ci si può mostrare deboli; chi può soffrire per quattro anni e medita il suicidio; chi a sedici anni non ha tempo per la terapia; chi è uno dei tanti ragazzi preoccupati, perché a giugno lo sai.

Quelle quattro mura,
dove oggi un ragazzo
ha tirato fuori una pistola
per rabbia,
che forse era paura,
che forse era tristezza,
che forse era angoscia,
di non avere un futuro.

Mi chiedo se il tangibile disagio psicologico e sociale che vivono tanti giovanissimi non dipenda anche dalla scuola che sono obbligati a frequentare almeno per undici anni: in fondo è un lungo e importante periodo in cui trascorrono più tempo a scuola che a casa. Ha osservato don Milani che bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo. E ha aggiunto: La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde.

L’ho scritto tante volte, l’ultima proprio in questo blog (La scuola è un luogo dove bisogna poter sbagliare senza correre rischi): «Le valutazioni sono espresse con note numeriche in tutta la scuola dell’obbligo, a partire dall’elementare. La scala va dal 3 al 6, con la sufficienza dal 4 in su. Con questi numeri e coi loro mezzi punti si fanno le medie. Una media che può decidere il futuro di un quindicenne è quel 4.65 tra tutte le materie, senza il quale non si accede al liceo. Si potrebbe supporre che il metodo sia semplice quanto scientifico. Per fare un esempio, se tu hai 6 in italiano e 3 in matematica significa che vali mediamente 4 ½. In realtà sei bravissimo in italiano e non capisci un’acca in matematica: questo dicono i numeri. Ma non solo. La scala delle note scolastiche non ha intervalli identici e regolari. Il metro del falegname è sempre lungo un metro, anche se ha la luna storta».

Invece la scuola continua imperterrita a difendere questo modello di frammentazione delle materie scolastiche, convalidato da un modo iniquo per misurare gli apprendimenti di ognuno. A chi galleggia perennemente al limite della sufficienza o si affanna nella melma di un cupo fallimento si dice che non studia, non è tagliato, non è al suo posto, per lo più senza nemmeno accorgersi che ogni insufficienza può essere un colpo di pistola che ti ammazza il futuro. Non ci pensa nessuno, si preferisce credere che le insufficienze siano giuste, addirittura scientifiche.

Nessun futuro (dell’artista di strada Banksy).

Non si può fingere di ignorare che la condizione socioeconomica di ogni studente sottoposto a valutazioni scolastiche ha un impatto considerevole sul valore scolastico decretato dagli insegnanti e dalla scuola. Tanto per dire: In matematica, in Ticino, in Svizzera e nella media OCSE, si osserva che chi ha un’elevata condizione socioeconomica e culturale ottiene un punteggio medio nettamente superiore rispetto a chi ha una condizione socioeconomica inferiore (PISA Ticino 2022).

Non è più il tempo, dunque, dell’ipocrisia, dello stupore e degli schiamazzi morali a mezzo stampa. Dopo tanti proclami la scuola faccia qualcosa, senza più dare ascolto al canto delle sirene dell’economia.

Scritto per Naufraghi/e

Un rapporto dell’OCSE che premia la nostra scuola, ma non si cura dei ragazzi che la scuola perde per strada

Secondo i dati forniti da PISA 22 la scuola Svizzera e ticinese stanno bene, anzi meglio, e guadagnano posizioni nel contesto mondiale. Ma quanto vale una graduatoria dettata da un’organizzazione economica?

A inizio dicembre sono stati diffusi i risultati di PISA 2022, il programma per la valutazione internazionale dei quindicenni promossa dall’OCSE, che sarebbe poi l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico degli stati caratterizzati da economie avanzate ed elevati redditi pro capite. A ritmo triennale si misurano i livelli di competenza dei quindicenni in matematica, scienze naturali e lettura. Mica roba per tutti, insomma, ma sempre più paesi se la giocano.

In questa tornata la Svizzera e il Ticino hanno ottenuto ottimi risultati. Le prestazioni elvetiche, nel complesso, collocano la Svizzera al quinto posto, con il 19.4% di allievi molto performanti – per semplificare, gente da 5 ½ o 6 – e il 12.4% di allievi all’altro estremo della scala. Il nostro cantone contribuisce significativamente a questo successo. «In PISA 2022 il Ticino, in matematica e in scienze, ottiene punteggi medi simili a quelli della Svizzera. In lettura raggiunge un punteggio statisticamente superiore rispetto a quello della Svizzera, anche se la differenza è minima. Il Ticino si trova inoltre sopra la media OCSE in tutti e tre gli ambiti».

© Ambrosetti, A., & Salvisberg, M. (2023). PISA Ticino 2022. Centro competenze innovazione e ricerca sui sisteemi educativi.

Molto bene, quindi, soprattutto se si pensa a qualche brutto risultato dei primi anni. Nel 2003 il Ticino era finito tra gli ultimi della classifica elvetica – ed era partita la solita baraonda di reazioni più o meno scomposte. Non c’è stata testata che non se ne sia occupata: da chi metteva in dubbio la serietà dello studio (cioè: colpa del “termometro”, cioè di PISA) a chi evocava l’alta percentuale di stranieri presenti nelle nostre classi (toh?!), per giungere a chi criminalizzava i tagli finanziari di quei mesi (ri-toh?!), scordando che i risultati conseguiti dai quindicenni non si costruiscono nello spazio di un mattino: allora come oggi.

«Il Ticino si situa in cima a tutte le classifiche», ha esultato l’appuntamento informativo RSI del  Quotidiano del 5 dicembre (in versione alquanto “governativa”). Che ha poi chiesto l’immancabile commento a Emanuele Berger, grand commis del DECS: «Uno si può chiedere perché. Potremmo fare tre ipotesi: una potrebbe essere che la nostra è una scuola inclusiva, e PISA ci dice da sempre che i sistemi inclusivi hanno dei buoni risultati. Inoltre, da molti anni lavoriamo su una didattica per competenze, e PISA verifica le competenze. E la terza ragione ovviamente è l’ottimo lavoro di tutti i docenti, che contribuiscono in materia determinante e ne vanno tutti ringraziati»: una sviolinata, ma ci sta.

L’OCSE non è un’associazione di beneficienza, né una fondazione che sostiene valori umanistici. Persegue scopi economici, anche se l’aggettivo, di per sé, è neutro. Tuttavia, se i primi confronti internazionali ci avevano fatto conoscere sistemi scolastici di grande interesse – la Finlandia su tutti – negli anni a seguire si è insinuato il dubbio che PISA abbia ben altre mire: e già non siamo troppo lontani da una scuola globalizzata, che mette al centro tre discipline e crea classifiche di buoni e cattivi, grazie all’adesione di una settantina di paesi nei cinque continenti.

Tanto per fare un esempio, l’edizione 2003 di PISA aveva relegato il nostro Cantone tra le peggiori della Svizzera, che aveva raggiunto per conto suo risultati mediocri. Vent’anni fa, agli esordi del programma per la valutazione internazionale dei quindicenni, si osservava, parlando dei due paesi in vetta alla classifica, Finlandia e Corea del sud, che nel paese asiatico le ore settimanali di scuola erano addirittura più imponenti delle nostre e che la frequenza degli esami e la pressione della nota provocavano il dilagare di depressioni nervose, fino al suicidio. Per contro la scuola finlandese terminava verso le tre del pomeriggio, i famosi “test” erano pressoché inesistenti, così come le bocciature, e il tempo scolastico era riservato all’apprendimento delle discipline giudicate essenziali. Il meno che si possa dire è che, a parità di risultati, i due sistemi scolastici erano tanto diversi. Ma questi sono aspetti che non interessano all’OCSE, che si limita a spiattellare punteggi, medie e percentuali di allievi in media o significativamente molto distanti da essa – poveri cristi in grande difficoltà scolastica da una parte, precoci primi della classe dall’altra.

Che ne sappiamo dell’Estonia, oggi primo classificato dei paesi OCSE, o di Singapore, primo classificato in assoluto, davanti al Giappone e alla Corea? Nulla, o poco più. Però vediamo paesi, come il nostro, che nel frattempo hanno guadagnato tante posizioni, non senza che s’insinui qualche dubbio. Come diceva quello là, a pensar male si fa peccato, ma a volte ci s’azzecca. Eppure il dubbio che molti sistemi educativi abbiano virato sempre più verso gli obiettivi scolastici PISA è grande. Anche il sistema scolastico svizzero si è a poco a poco uniformato, dapprima, nel 2007, con l’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria; poi con i nuovi piani di studio delle tre aree linguistiche svizzere, molto vicine alle aspettative della cooperazione economica mondiale. Tutto ciò assomiglia molto, forse troppo, a quel famigerato «studiare per i test», passati i quali ci si può anche scordare ogni cosa.

Il risultato è che oggi un gran numero di stati del mondo – oltre una settantina – sta commisurando i suoi obiettivi formativi a quelli di PISA, incurante di chiedersi cosa ne sanno i quindicenni della storia del loro paese, della letteratura, della poesia, del teatro, delle arti. E non sono interessati a sondare quanto sono razzisti i quindicenni dei paesi partecipanti; che governo istituirebbero, se potessero; quale attitudine mostrano verso l’accoglienza, le dipendenze, l’ecologia, l’etica, la politica o l’economia. No, all’OCSE interessano la matematica, le scienze naturali e la lettura, e stilano classifiche che se ne fanno un baffo delle immense diversità culturali tra un paese e l’altro e delle loro ricchezze intangibili.

Siamo forse vicinissimi alla globalizzazione planetaria dei valori di educazione e istruzione degli adulti di domani, una sorta di nuova colonizzazione delle politiche: benché la ricca Svizzera, ai piani alti della classifica mondiale, perda per strada il 12% dei suoi quindicenni, inadeguati in matematica, lettura e scienze.  Diceva don Milani che «la scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde».

Scritto per Naufraghi/e

Il dato del 12% di allievi inadeguati in matematica, lettura e scienze è tratto da Résultats du PISA 2022 (Volume I), p. 25. Per contro il rapporto ticinese (Ambrosetti, A., & Salvisberg, M. (2023). PISA Ticino 2022. Centro competenze innovazione e ricerca sui sistemi educativi) indica percentuali più alte.

La scuola è un luogo dove bisogna poter sbagliare senza correre rischi

La riuscita scolastica non può dipendere solo dall’essere nato con la camicia, dal quantitativo di “lacrime e sangue” prodotti nel seguire le lezioni o dalle furbizie nei test

Tra i temi scolastici dell’ultimo anno, quello del superamento dei livelli nel secondo biennio della scuola media ha tenuto banco fino a pochi giorni fa, quando il Gran consiglio ha approvato a larga maggioranza l’avvio di una sperimentazione a partire dal prossimo anno scolastico. Non che il tema dei livelli attitudinali e di base sia una novità: esistono sin dall’istituzione della scuola media (1974), sono ovviamente basati sulle valutazioni ottenute da ogni allievo e somministrate da professoresse e professori.

Come tutti sanno, le valutazioni sono espresse con note numeriche in tutta la scuola dell’obbligo, a partire dall’elementare. La scala va dal 3 al 6, con la sufficienza dal 4 in su. Con questi numeri e coi loro mezzi punti si fanno le medie. Una media che può decidere il futuro di un quindicenne è quel 4.65 tra tutte le materie, senza il quale non si accede al liceo. Si potrebbe supporre che il metodo sia semplice quanto scientifico. Per fare un esempio, se tu hai 6 in italiano e 3 in matematica significa che vali mediamente 4 ½. In realtà sei bravissimo in italiano e non capisci un’acca in matematica: questo dicono i numeri.

Ma non solo. La scala delle note scolastiche non ha intervalli identici e regolari. Il metro del falegname è sempre lungo un metro, anche se ha la luna storta. Invece la scuola usa questi numeri come se fossero numeri sul serio. Ad esempio dal 3 (insufficienza) al 4 (sufficienza) c’è una distanza che, a naso, è più ampia della distanza tra il 5 e il 6. A questo pressappochismo dobbiamo poi aggiungere altre variabili del tutto imperscrutabili, a cominciare dai docenti ritenuti di manica più stretta o più larga, dalla loro capacità di insegnare, dalle prove costruite e usate per giungere a valutazioni e dalla natura stessa di ciò che si vuole valutare, ficcando ogni frammento di una disciplina in questa scala coi gradini dissestati: dal sottoscala al piano più alto.

La scuola dell’obbligo dovrebbe preoccuparsi in primo luogo di insegnare il massimo possibile a ogni allievo. Avere imparato significa sapere o non sapere, sì o no, acquisito o no. Tutto l’ambaradan di test, coi suoi punteggi, le note e le medie, non serve assolutamente a nulla nei confronti del cosa si è imparato e di cosa si sa fare. Un allievo col 4 in italiano, “quanto” italiano sa? E che differenza passa tra una competenza in tedesco da 5 rispetto a una da 5 ½? Non è evidente il motivo per cui i livelli esistano solo per la matematica e il tedesco, mentre ci sono sicuramente altre discipline che meriterebbero simile riguardo. «Sbagliando s’impara», recita un motto popolare; salvo che a scuola, dove chi sbaglia rischia guai seri.

Scriveva Don Milani già negli anni ’60, rivolgendosi alla “professoressa”: Durante i compiti in classe lei passava tra i banchi, mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla. Io in quelle condizioni sono anche a casa. Nessuno cui rivolgermi per chilometri intorno. Ora invece siamo “a scuola”. Sono venuto apposta, di lontano. Non c’è la mamma, che ha promesso che starà zitta e poi mi interrompe cento volte. Non c’è il bambino della mia sorella che ha bisogno d’aiuto per i compiti. C’è silenzio, una bella luce, un banco tutto per me. E lì, ritta a due passi da me, c’è lei. Sa le cose. È pagata per aiutarmi. E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro.

I Verdi, nel 2012, avevano già presentato un’iniziativa parlamentare che, in sostanza, chiedeva l’abbandono dei livelli. La proposta fu discussa dal parlamento nel 2014 e respinta a maggioranza. È passato mezzo secolo dall’istituzione della scuola media e siamo ancora lì, ad affermare il primato “scientifico” delle note sul valore dell’insegnamento e sui suoi principi fondamentali, direi quasi etici. La riuscita scolastica non può dipendere solo dall’essere nato con la camicia, dal quantitativo di “lacrime e sangue” prodotti nel seguire lezioni, dalle furbizie nei test e da qualche accidente elargito da madre natura.

Esistono altre forme di organizzazione della scuola pubblica; per dire, quella finlandese (Scuola: tante idee e ben confuse), dove si ritiene che le basi essenziali per acquisire dei saperi e favorire una crescita armoniosa degli individui risieda in un ambiente scolastico rassicurante, in docenti premurosi e preoccupati di creare dei legami affettuosi e cordiali coi loro allievi, in modo che questi possano sviluppare una benefica autostima. E si reputa altresì che l’esigenza di un forte richiamo ai valori morali e umanistici non debba ridursi a mera enunciazione legislativa, da sacrificare giorno dopo giorno sull’altare della trasmissione di conoscenze e di competenze mirate all’inserimento nel mondo del lavoro.

Ha scritto il pedagogista Philippe Meirieu: Dato che “capire” è più importante che “riuscire”, la Scuola è un luogo dove bisogna poter sbagliare senza correre rischi.

 

Scritto per Naufraghi/e