A colloquio col direttore del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI

La redazione de La Rivista, Mensile illustrato del Locarnese e valli, mi ha chiesto di intervistare il direttore del Dipartimento formazione e apprendimento (DFA) della SUPSI, da due anni alla guida dell’istituto locarnese per la formazione dei maestri. Non è stata una passeggiata, perché ho voluto evitare la via più tradizionale e odierna: ti mando alcune domande via posta elettronica e tu mi rispondi con calma. L’ho invece incontrato nel suo ufficio il 23 aprile scorso.

Sono consapevole di quel che diceva Leo Longanesi a proposito delle interviste: sono articoli rubati. Dunque il succo sta nelle risposte.

L’intervista è apparsa sul numero di giugno de La Rivista, nella rubrica «Microfono aperto» (La Rivista, Mensile illustrato del Locarnese e valli, N° 6 Giugno 2014, Anno XXI); il testo e le immagini, nella grafica originale, possono essere scaricate qui.


Michele Mainardi, direttore del DFA, guarda e rovista nella «cassetta degli attrezzi» dei maestri

Dal 2012 Michele Mainardi, soldunese DOC, classe 1957, è il nuovo direttore del Dipartimento formazione e apprendimento (DFA) della SUPSI. Dottore in pedagogia specializzata, Mainardi ha alle spalle una lunga esperienza accademica quale docente universitario e ricercatore e una parallela militanza nella scuola pubblica ticinese, dove è stato capogruppo del sostegno pedagogico delle scuole comunali, ispettore dell’insegnamento speciale, formatore e vicedirettore alla Scuola Magistrale.

Dal 2012 è stato chiamato al timone della formazione dei docenti in un momento storico particolarmente delicato: l’entrata in vigore dell’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria (Concordato HarmoS), la penuria di insegnanti nella scuola elementare, l’ennesima riforma della scuola media, il bullismo precoce, gli effetti delle nuove tecnologie sull’educazione delle nuove generazioni, l’educazione civica e altro ancora pongono naturalmente importanti problemi anche sul piano della formazione di base e continua degli insegnanti. L’abbiamo incontrato nel suo ufficio nell’ex convento di San Francesco, in dirittura d’arrivo del suo secondo anno alla guida di questo fondamentale istituto.

Una volta si diceva che il maestro era un missionario e che per insegnare ci voleva la vocazione. Lo psicologo svizzero Jean Piaget ha scritto che «L’insegnamento è arte altrettanto quanto scienza». Insegnare «la scienza» ai futuri docenti è certamente fattibile. Ma come si fa a insegnare l’arte?

In un’epoca in cui gli scarti generazionali si amplificano considerevolmente col passare degli anni, direi che l’insegnamento dell’arte rimanda in primo luogo all’impegno dello Stato, ancorato alla Costituzione e alle Leggi, teso a educare i più giovani nella prospettiva di donne e uomini consapevoli, autonomi, democratici, membri attivi della comunità in cui vivono. Non parlerei più di missione, ma certamente di scelta impegnativa nel diventare insegnante, in particolare per la scuola dell’obbligo, e nel partecipare così in prima persona e direttamente a questo fondamentale obiettivo culturale, civico e istituzionale. In quest’ordine d’idee, quindi, si potrebbe intravedere una sorta di vocazione: si tratta comunque di una decisione importante.

Quanto alla scienza, perseguiamo l’obiettivo di formare ogni futuro insegnante – della scuola dell’infanzia, della scuola elementare o della scuola media (e senza scordare il settore medio-superiore e le specializzazioni) – dal punto di vista pedagogico, vale a dire a livello di finalità, di obiettivi generali e di scelte metodologiche, e da quello delle didattiche disciplinari, in altre parole delle migliori modalità per ottimizzare e rafforzare le diverse discipline e specificità che fanno parte del piano di studio e dell’impegno della scuola.

È dall’incontro tra la missione dello Stato e l’azione responsabile di ogni insegnante e di ogni istituto scolastico che il progetto «scuola» genera educazione.

In quei medesimi tempi il maestro sedeva in cattedra, assieme al sindaco e al prete. Oggi sappiamo che quell’autorità è svanita: allievi e famiglie non esitano a reclamare, pretendere, minacciare, aggredire e disprezzare. Che fare?

Comincerei col dire che in quegli anni l’autorità – il sindaco, il prete, il poliziotto, il maestro… – era riconosciuta di pubblica utilità. Un punto di riferimento per la società. Col passare degli anni e il procedere della storia, nel bene e nel male, la legittimità di argomenti, giudizi e decisioni dell’autorità è stata messa costantemente in discussione. Oggi pochi sono disposti a delegare ad altri la definizione di ciò che è lecito, giusto, buono, utile o superfluo. Va da sé che la scuola e l’educazione sono confrontate con queste dinamiche, peraltro molto attuali, civicamente fondate e che interessano molto da vicino le regole della convivenza e della partecipazione.

La scuola di oggi è ben più compòsita rispetto anche solo a quarant’anni fa. La popolazione è sempre più multi-culturale, c’è uno scollamento tra gli obiettivi della scuola (o dell’insegnante…) e quelli delle famiglie, tante «agenzie educative» esterne perseguono scopi diversi e non sempre edificanti. Quale «cassetta degli attrezzi» deve avere il docente di oggi per affrontare siffatta complessità?

La sfida di sempre è quella di mettere da subito le nuove generazioni nella condizione di partecipare alla cultura, alla conoscenza e alla vita della società, delle arti e delle scienze con la più grande consapevolezza. Una sfida portata avanti entro condizioni dinamiche, eterogenee e singolari. Da un lato la crescente mobilità delle famiglia, al tempo stesso qualità e necessità; dall’altro la miriade di pressioni, sollecitazioni «aggressive», pubblicità, modelli ed esempi che quotidianamente, dai più disparati contesti e con strumenti sempre più potenti e performanti, penetrano la sfera privata di ognuno, senza eccezione per i bambini e i ragazzi. La scuola è testimone quotidiano della varietà di storie individuali molto diverse fra loro e al tempo stesse molto simili per la loro attualità. La diversità è la norma e la scuola, a ragione, ha colto e considerato il fenomeno, ha saputo reagire con competenza ma, da sola, non può certamente compensare l’influenza di tutti i fattori di contesto che incidono direttamente e indirettamente sulla sua missione. I nuovi piani di studio delle scuole dell’obbligo, a livello internazionale, federale e cantonale, sono sensibili a questi aspetti e sono ugualmente coscienti che la scuola è un importante vettore della formazione, dell’educazione e della crescita di ognuno, ma non è l’unico o necessariamente il più potente.

Cioè?

Provo a spiegarlo con un esempio d’attualità: l’indebitamento e il piccolo credito. C’è chi accusa la pubblicità di essere troppo aggressiva e vorrebbe intervenire a questo livello per prevenire effetti indesiderati, e chi invece affronta la questione sul piano del giudizio individuale e rimanda il tutto nel campo dell’educazione e della formazione. C’è da chiedersi quanto la partita possa essere giocata ad armi pari: di qua gli strumenti e l’invadenza della pubblicità; di là la possibilità di spazi dedicati a questo e a mille altri temi urgenti e prioritari di cui si vorrebbe che la scuola si assumesse il compito di intervenire.

La scuola deve istruire e educare. È possibile?

Educare, parafrasando lo psicologo americano Jerome Bruner, significa accompagnare la crescita. Oggi è vero che i «cuccioli della comunità», figli, allievi e piccoli cittadini, sono sottoposti ad uno tsunami di stimoli che tende a determinare interessi, comportamenti, concezioni, opinioni e modelli spesso frammentati, difficilmente conciliabili fra loro. Elementi culturali, educativi e formativi che talvolta differiscono significativamente, per quantità e qualità, dalle esperienze di crescita che chi si occupa d’infanzia vorrebbe ne caratterizzassero la condizione e i diritti. La scuola è direttamente confrontata in parallelo o in concorrenza, nel bene e nel male, con sollecitazioni che vengono tanto dai mass-media quanto da materiali cartacei e digitali, da internet e dalla moltiplicazione delle possibilità di avvicinamento diretto dei minori a queste fonti. I bambini e i giovani sono la nuova e affermata frontiera di un mercato mondiale palese o nascosto, con interessi e proposte di ogni tipo, con attenzioni educative e formative esplicite o totalmente assenti; con tratti di responsabilità e sensibilità etica molto diverse. Dal mio punto di vista questo è un elemento molto critico e molto delicato della nostra epoca. Mai come oggi i bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze, sono stati così esposti a esperienze non accompagnate. La rete di internet e il portale globale portano il mondo a casa di ognuno ma al tempo stesso porta ognuno a contatto del mondo della Piazza mondiale, spesso da solo e senza esperienze sul come destreggiarsi nelle situazioni e fra le persone, le vetrine, le vicende e le cose di internet. Nella realtà della Piazza grande, pensando a Locarno, il bambino si accompagna, e solo più tardi si passa la mano, prima con il «non ci vai da solo» e poi con il «mi raccomando…».

Nel mondo dei social network, così come di internet e di tutto quanto vi sta attorno, si fanno esperienze reali dentro un mondo in cui l’infanzia accede per la prima volta nella storia dell’umanità in modo molto individuale e con grande facilità e intensità.

Siamo di fronte a un’immersione totale, spesso compulsiva ed impulsiva in un’esperienza di vicinanza potenziale a tutte le dimensioni della realtà, attraverso uno strumento che molti genitori conoscono meno del bambino o dell’adolescente. In questo contesto è assolutamente urgente continuare a riflettere sul patto educativo che una società deve porre a tutela delle esperienze di ognuno e in particolare dei minorenni. Non per moralismo, ma per necessità nel predisporre e preservare esperienze educative e formative auspicate e, quindi, intenzionali, Come assicurare alle nuove generazioni talune esperienze positive, spesso vere e proprie conquiste, che appartengono alla nostra storia e a quella dei diritti del bambino e, più in generale, della persona?

La scuola, pur mantenendo intatte le sue finalità, è e deve continuare a poter essere un agente dinamico e sensibile, riconosciuto e sostenuto dalle altre istanze istituzionali, un luogo accogliente e qualificante, un investimento in sintonia con i tempi e le necessità di accompagnamento, crescita e sviluppo tanto del singolo quanto della società. Non possiamo guardare alla scuola e ai bisogni del singolo e della società come se il mondo fosse immobile, ma al tempo stesso non possiamo guardare a lei come unico agente dell’educazione e della formazione.

Qual è il suo bilancio di questi primi due anni quale direttore del DFA?

Sono stati due anni certamente impegnativi sotto molti aspetti, perché il grado di complessità di questa scuola rispetto alla Scuola Magistrale è decisamente cambiato, soprattutto per l’ampio ventaglio di offerta che dobbiamo assicurare e per le forme di rapporto con il Cantone che il passaggio alla SUPSI ha comportato.

Ho certamente (ri)trovato un corpo docente e amministrativo valido, che devo ringraziare per l’accoglienza e per la disponibilità, grazie alla quale è stato da subito possibile collaborare e portare a buon frutto il grande impegno che assieme portiamo avanti. Ho trovato attenzione, competenza e passione non solo nei confronti del nostro mandato specifico, che è quello di formare docenti, ma anche nella voglia di proporsi ed esporsi nel contribuire ulteriormente all’ampia offerta di esperienze e di momenti culturali aperti, che la Città e la regione già offrono organizzando, da soli o in collaborazione con altri, eventi particolari dentro e fuori le mura dell’ex convento di San Francesco.

Ritengo ottimi gli sviluppi sul piano della ricerca in educazione e nella formazione, con aspetti da confermare e consolidare e altri da promuovere, considerando anche l’evidente potenziale vantaggio in tal senso della collocazione in seno alla SUPSI.

Concluderei sottolineando l’impegno di tutti i colleghi e le colleghe e l’ottima collaborazione con il DECS e, in particolare, con la Divisione della scuola nei lavori di coordinamento dell’offerta formativa e della ridefinizione dei piani di studio in vista dell’imminente entrata in vigore di HarmoS. Sarà indispensabile poter agire da subito, sul piano della formazione dei docenti, nell’ottica delle nuove scelte del Cantone. Siamo una scuola giovane, nella sua nuova concezione, e il lavoro da fare è ancora tanto, con un occhio di riguardo puntato sulle esigenze immediate, ma senza scordare la necessità di consolidare una presenza qualificata e qualificante, come scuola universitaria professionale, nel contesto accademico locale e nazionale. Tuttavia le premesse e la passione di tutti sono ragguardevoli.

Professor Mainardi, immagino che le sue settimane siano complesse e molto lunghe. Come ricarica le batterie?

Confido molto nelle «fonti energetiche alternative» e nel fatto che il mondo della scuola dà già di per sé delle belle e costanti possibilità di ricarica nei riscontri quotidiani. Ricariche ulteriori le trovo nella famiglia, nella musica e nel contatto con la natura: da tanti anni suono con un gruppo di carissimi amici – la «Bisèrcia». Ambiziose prove settimanali, in cui cerchiamo di sfidare il repertorio con i nostri strumenti a corde (contrabbasso, violino e chitarre), e qualche esecuzione pubblica durante l’anno, sono momenti di grande intensità, attraverso il jazz, lo swing e qualche rivisitazione a modo nostro di canti popolari. E poi la montagna, i «miei» monti in valle Onsernone, che devo a mia moglie Bruna, una Candolfi originaria di Spruga: la cascina, gli amici e la terra sempre bisognosi di cure ricorrenti, ripetitive e rilassanti; le passeggiate e i momenti contemplativi lì attorno, spesso solo, ora che non ho più il mio cane, immerso nella natura, la selvaggina, i pensieri, il vento, la luce, la vera oscurità e i silenzi.

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