Adulti razzisti sul web: la TV si guarda il dito e non s’accorge della luna

Il Quotidiano, trasmissione d’informazione regionale della RSI, che da più di trent’anni accompagna la cena di tanti ticinesi, ha mandato in onda il 10 agosto scorso il servizio «Post razzisti, aperta inchiesta». Sottotitolo: Oltre quaranta persone avevano segnalato al Ministero pubblico i commenti di due donne sull’eritrea morta a Bellinzona (Vedi, ad esempio, il CdT del 4 luglio: Donna caduta dal balcone, arrestato il convivente).

Al termine dei due minuti e mezzo del reportage ero talmente incredulo, che ho ribobinato e riascoltato più volte.

Dato che, come recita l’antico proverbio, «verba volant, scripta manent» – e, per motivi che gli antichi non potevano immaginare, anche video manent, ma non sempre per sempre – ho trascritto gran parte del testo di quel servizio.

Avvertenza: le immagini non erano sostanziali, nel senso che non aggiungevano nulla alle parole. Salvo una, che ho inserito al suo posto.

Giornalista. «Vanno bene le segnalazioni alla procura, vanno bene anche le multe, ma se vogliamo davvero arginare i casi di razzismo sul webdice Bertil Cottier – dobbiamo colmare una grande lacuna: la mancanza di educazione alla rete e all’utilizzo dei social media». Così l’esperto di diritto, da noi raggiunto telefonicamente, a margine dell’apertura di un’inchiesta per i post razzisti che hanno infestato il web dopo la morte di una giovane eritrea, precipitata dal balcone di casa il 3 luglio a Bellinzona. Un caso che ha portato all’arresto del compagno con l’accusa di omicidio.

Due donne hanno commentato il dramma pubblicando post razzisti.

Una quarantina di ticinesi ha segnalato il caso al ministero pubblico che, come anticipato da laRegione, ha aperto un’inchiesta per xenofobia e discriminazione razziale.

Qui entra in campo Cottier, che non ha dubbi: l’aspetto punitivo non può essere il solo con cui la nostra società affronta il problema.

Bertil Cottier, professore di diritto dei media, [al telefono]. Secondo me non è sufficiente. Abbiamo visto a livello ticinese e anche a livello svizzero un gran sforzo per educare i bambini alla problematica della pedofilia. Ma i problemi non sono solo la pedofilia, bisogna fare un po’ di più.

Giornalista. I vertici della scuola si dicono aperti ad un miglioramento della situazione attuale.

Manuele Bertoli, direttore del DECS, [in video]. Dovremo intervenire. Lo si fa già in parte, ma si dovrà farlo anche di più in futuro. Si tratta di un insegnamento che può e deve essere trasversale, e quindi trattato in diverse discipline o materie: per esempio nelle materie più umanistiche in generale, da un lato insegnando ai ragazzi a utilizzare questi nuovi mezzi, che ormai fanno parte della nostra vita quotidiana, ma d’altra parte anche facendo loro capire quali sono i limiti e quali sono gli abusi da non commettere.

Giornalista. Insomma, anche la scuola si adegua alle nuove esigenze e gli episodi di razzismo, di cui ancora una volta il Ticino è teatro, anche se virtualmente, avranno almeno merito di migliorare la sensibilizzazione nelle scuole.

Non so voi, ma a me è venuto in mente quel detto secondo il quale quando il saggio indica la luna, lo sciocco guarda il dito. Così mi sono chiesto: cosa c’entra l’educazione dei minori all’uso dei social con due adulte che, magari volendo imitare certi politici, si sono lasciate andare a idiozie di stampo razzista?

Non c’entra una cicca. Se, come sembra, le due donne hanno commesso un reato si devono punire, e basta. Anche perché non è vero, come ha concluso il giornalista, che l’episodio di razzismo è virtuale: non c’è proprio nulla di virtuale in ciò che si legge nella rete, perché i pensieri degli autori sono sciaguratamente reali.

Quel che racconta il servizio della televisione di Stato è tutt’altra faccenda. E, vorrei aggiungere, se i post razzisti fossero stati scritti da minorenni, la preoccupazione sull’uso dei social sarebbe stato il mio ultimo pensiero. Avrei invece pensato che c’è qualcosa che non funziona nel sistema educativo: qualcosa di terrificante per il diritto e di drammatico per la democrazia.

Conosco fin troppo bene le imboscate in cui può cadere chi è intervistato dei media. Ti chiama il giornalista, ti fa una domanda e tu rispondi, di solito cercando di essere chiaro e conciso. Poi ti leggi, ti ascolti o ti vedi: non hai contato fandonie, ma il contesto è diventato un altro. Fosse solo per la stima di cui godono i due intervistati, spero che sia andata così.

Il testo che ho riportato – un po’ dialogo senza conoscere le domande poste agli intervistati, né le loro risposte complete – appare insensato, incongruente, assurdo. Persino un po’ kafkiano. Dopo il primo ascolto mi sono detto: toh, le nuove regole della pedagogia e del buon senso non mirano più a educare persone democratiche, capaci di accogliere le diversità e di stare alla larga da razzismo, xenofobia e intolleranza sui generis, vale a dire persone che hanno capito cos’è il diritto.

Il «messaggio» che ne scaturisce – una volta si sarebbe detto «la morale della storia» – è però un altro, piuttosto untuoso: pensa quel che vuoi, ma non scriverlo sui social.


Immagine d’apertura: RENÉ MAGRITTE (1898-1967). La Condition humaine I, 1933, Olio su tela, 100 x 88 cm, National Gallery of Art, Washington D. C.

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