Se anche lo tsunami annega…

Anch’io, durante le recenti vacanze natalizie soverchiate dallo tsunami, ho seguito passo passo l’evolversi della situazione nel sud-est asiatico: dalle prime notizie frammentarie il giorno di Santo Stefano alle crude cifre del cataclisma, dalla grande e strombazzatissima solidarietà dell’Occidente alle diverse divagazioni in bilico tra il didascalico e il religioso. Al di là del dramma vero che stanno vivendo laggiù, lo tsunami si è rapidamente trasformato in una scorpacciata multimediale e pluridisciplinare, cucinata con l’inevitabile pizzico d’ipocrisia, innaffiato di conformismo e insaporito con alcune spezie esotiche (che in questo caso eravamo noi occidentali). Come ha notato argutamente Giuliano Ferrara citando il londinese Economist, «le guerre africane hanno fatto molti più morti del maremoto, e non le abbiamo quasi viste».
Con i nostri quotidiani che uscivano in versione light tra una festa e l’altra, il ruolo di grande megafono è stato rilevato dalle tante catene televisive, che hanno mostrato, commentato, approfondito. Almeno fino all’Epifania – che notoriamente tutte le feste le porta via – lo tsunami ha tenuto banco a ogni ora, ma mentre scrivo è già rientrato negli argini dei TG. Sarà interessante vedere fino a quando riuscirà a tenere le prime pagine prima di sparire del tutto, ingoiato dalle minuzie locali e ben digerito grazie ai nostri unanimi fioretti.
Una sera ho seguito per un po’ il salotto di Bruno Vespa su RAI 1. Sarà il mio destino, ma i convenuti discettavano attorno ai possibili traumi psichici che le spietate immagini provenienti da Phuket, dallo Sri Lanka e dai litorali dell’Aceh potrebbero provocare nelle indifese menti dei nostri bambini. Tra tutte le imposture contingenti, ci mancava anche questa, mi son detto. Naturalmente gli esperti di turno erano propensi a dar credito al rischio-trauma, incrementando quella «pedagogia della bambagia» che infuria da troppi anni, e che è corresponsabile di tanti guai che affliggono le nuove generazioni.
Non si deve credere che quand’io ero bambino (sono figlio del boom demografico) ci fosse tutt’al più la radio. Le notizie correvano già in fretta, anche se l’informazione era meno caotica e permetteva di riflettere e metabolizzare. Poi c’erano i fotoreporter – come quelli famosi dell’agenzia «Magnum» – che colpivano allo stomaco con immagini che erano degli editoriali: dalla crisi del Congo al muro di Berlino, dal processo Eichmann all’assassinio di John Kennedy, dalla guerra del Viet-Nam al terremoto nel Belice, dal Biafra all’Ulster al Bangladesh alla Cambogia, c’è una spietata galleria di immagini incancellabili, ognuna delle quali fa parte della nostra memoria e della nostra identità. Non credo che la mia sia una generazione di traumatizzati, e men che meno quella che ci ha preceduto, che ne ha viste di tutti i colori.
No, il pericolo non sta nelle immagini, né nelle didascalie o nei commenti; semmai soggiorna nella baldoria massmediatica, che a prima vista sembra fatta apposta per essere dimenticata in fretta, sostituita indifferentemente dal campionato di hockey o dal carnevale alle porte. C’è da augurarsi che i nostri figli abbiano visto le cronache dal sud-est asiatico e che qualche adulto li abbia aiutati a capire che quella è la realtà e non uno stupido giochino elettronico. E c’è da illudersi che nelle scuole, in questi giorni, se ne parli sul serio, affinché questo disastro non sia inghiottito in quattro e quattr’otto dal consumismo massmediatico e dal nostro perbenismo: questo, in verità, è l’unico trauma che fa paura.

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