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Chi tocca le vacanze muore!

Sarebbe davvero così grave ridurre di una o due settimane le vacanze estive delle scuole ticinesi?

Sono sconcertato.

Leggo le prese di posizione sulla proposta di riduzione di una o due settimane delle vacanze estive delle scuole ticinesi. Ne ha riferito laRegione. Secondo un paio di sindacati e la Conferenza cantonale dei genitori, la modifica creerebbe danni pesantissimi. La proposta dei Verdi di accorciare le vacanze estive scolastiche in Ticino – oggi le più lunghe della Svizzera – incontra disaccordi. L’idea è quella di ridurle di una o due settimane, per rimpolpare le vacanze autunnali e pasquali.

Adriano Merlini, presidente della VPOD docenti, si dice «scettico, anzi di più: contrario», si noti l’enfasi retorica. Ricorda che gli insegnanti lavorano già due settimane dopo la chiusura delle scuole e due prima della riapertura. Si diceva, ancora pochi anni fa, che al centro della scuola c’era l’allievo, lo studente.

Soprattutto, però, Merlini insiste sul valore della lunga pausa estiva: «È una cesura che consente di ricaricare le batterie». Ma anticipare il rientro significherebbe affrontare temperature elevate in edifici non preparati. E non tutto è prevedibile: «In estate ci sono opportunità – colonie, corsi, lavoretti – che altrove non si trovano». Anche il presidente della Conferenza dei genitori riprende il tema del caldo d’aula e aggiunge le difficoltà di conciliazione lavoro-famiglia con un calendario scolastico rimodellato.

Bisogna però accettare una circostanza che non dipende da noi. Ho scritto anni fa: Sono finiti i tempi in cui la scuola dettava i ritmi urbi et orbi. Per quasi tutto il secolo scorso il rispetto del calendario scolastico è stato totale. Il primo giorno di scuola erano tutti lì, puntuali, emozionati; e fino a metà giugno, fosse pure tra uno sbadiglio e l’altro, nessuno si sognava di inventare giustificazioni intricate per scappar via qualche giorno dalla scuola – neanche il sabato mattina, che era ancora giorno di lezioni. Ma era visibilmente un altro mondo, con una diversa organizzazione del lavoro.

È innegabile che i periodi di canicola e le temperature alle quali non eravamo abituati dovranno essere tenuti in considerazione laddove, d’ora in poi, ci fosse la necessità di costruire nuovi edifici scolastici. Il presente ci lascia in eredità scuole pensate per difendersi dal freddo. In attesa di nuove costruzioni si dovrà probabilmente reinvestire i risparmi del riscaldamento in tecniche di climatizzazione.

Insomma, staremmo freschi se dovessimo pianificare gli anni scolastici alla ricerca di un clima perduto. D’accordo, ci piace fare i primi della classe, ma un anno scolastico costruito solo attorno ai mesi non troppo caldi risulterebbe esageratamene fuggevole. Si pensi, parlando delle numerose famiglie dalle configurazioni più diversificate e diffuse, alle difficoltà che incombono sul proprio orario di lavoro in confronto con gli orari dei figli. Ricordo una mamma di gemelli. Le avevo proposto di metterli in due classi diverse – non è sempre piacevole frequentare la stessa classe della sorella o del fratello. Mi disse, schiettamente: «Direttore, già fatico a conciliare i miei mestieri di mamma e di lavoratrice. Si figuri come farei a seguire due riunioni del genitori e gli incontri con due insegnanti». Chi parla di problemi organizzativi in modo astratto probabilmente non ha mai provato a incastrare orari scolastici e turni di lavoro senza perdere il senno, o dimenticare un figlio in palestra o alla scuola di musica.

D’altronde siamo l’unico cantone che ha bisogno quasi di un’intera estate per staccare la spina e ricaricare come si conviene le sue fragili batterie. Siamo medaglia d’oro per la durata delle vacanze estive – proprio quando molte famiglie lavorano a ritmo serrato e intenso in tutte quelle località che vivono e sopravvivono con l’industria turistica. Quando il sindacalista OCST D’Ettorre emette giudizi sbrigativi e un po’ sentenziosi –  Se il problema è che le famiglie non sanno come gestire i figli, il nodo è più ampio – ammette che queste famiglie non le conosce proprio.

Matteo Buzzi, primo firmatario della mozione, scrive in entrata dell’atto parlamentare che La lunghezza delle vacanze estive in Svizzera varia a seconda dei Cantoni. Gli alunni ticinesi beneficiano di 10 settimane di vacanze estive. Per questo sono primi in classifica, solitari. Seguono i Cantoni del Vallese con 7.5 settimane (…) e Ginevra, Giura, Uri e Vaud con 7 settimane ciascuno. In coda i Cantoni di Argovia, Appenzello Esterno, Berna, San Gallo, Sciaffusa, Svitto, Turgovia e Zurigo con 5 settimane ciascuno. Se mi attenessi ai motivi elencati dai fieri conservatori sindacali, direi che, come Cantone primo della classe, dovremmo attivarci per cancellare al più presto l’insana consuetudine elvetica di concedere meno di 10 settimane di vacanze estive ai suoi pargoli.

Poi, si dirà, il Cantone pullula di colonie e doposcuola, che accolgono i figli di chi deve guadagnarsi la pagnotta al di là del calendario e dagli orari scolastici. Ma, a differenza della scuola dell’obbligo, i doposcuola e le colonie e tutte le loro alternative non sono gratuite, benché quasi sempre sussidiate dallo Stato. Alla fine, per chi lavora e deve far quadrare i conti, anche questo conto fa parte del suo bilancio.

Vien da pensare che chissà che razza di sprovveduti stiano crescendo in quei Cantoni dove le vacanze estive durano appena cinque misere settimane. Eppure, a ben guardare, non sembrano messi così male.

Scritto per Naufraghi/e

PS: nell’edizione di Naufraghi, l’incipit dell’articolo – Sono sconcertato – è diventato il titolo. Qui ripropongo l’articolo come l’avevo scritto, inventandomi un titolo forse più coerente col testo.

Una risposta non ideologica

A proposito dell’educare la gioventù alla gestione responsabile delle finanze personali; e allora perché non introdurre la filosofia sin dalla scuola dell’infanzia?

Ma guarda che bel ritrattino mi ha fatto la deputata PLR Simona Genini in risposta a un mio articolo su Naufraghi/e. Apre con un avvertimento: il portale «naufraghi.ch», che ha ospitato il [mio] intervento, non è proprio – per usare un eufemismo – un’offerta editoriale di area liberale. Bene, ora è tutto chiaro. A parte qualche dettaglio.

Io il ’68 non l’ho vissuto, in quel marzo non ero nell’aula 20 della Magistrale. Ero troppo piccolo, frequentavo il ginnasio e avevo da poco compiuto 15 anni. Peccato. In quel 1968 locarnese non sapevo nulla di politica, e nemmeno mi interessava. Avevo compagni di classe che già si erano tuffati, entusiasti e seri, nel Vietnam e nel Mato Grosso. Io no. Non ricordo eventi che mi abbiano spinto a interessarmi di politica, fosse locale o addirittura internazionale.

John Stuart Mill (1806-1873), autore, tra tanti saggi, di Sulla libertà (11859) e La servitù delle donne (1869).

La mia, diciamo così, formazione politica arrivò più tardi, proprio alla Scuola magistrale, quando iniziai a incontrare, attraverso la storia delle idee pedagogiche, dapprima Aristotele, poi John Locke e Jean-Jacques Rousseau, John Stuart Mill, John Dewey, Jerome Bruner, Ralf Dahrendorf. Confesso, incontrai anche qualche comunista, come Célestin Freinet o Don Lorenzo Milani, per giungere a Piero Gobetti, quello di Energie Nove, Il Baretti e Rivoluzione liberale, morto esule a Parigi a soli 25 anni, dove si era rifugiato a causa della crescente repressione del regime fascista: «Parto per Parigi dove farò l’editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo o della polemica spicciola; vorrei fare un’opera di cultura, nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna».

Cosa posso farci? Quella è stata la mia educazione politica, in seguito arricchita seguendo qualche stimolo e il caso, nata ben prima che inaugurassi la mia brevissima “carriera” politica. Negli anni ’70 ho militato nei giovani PLR e nell’ambito dell’associazione dei maestri liberali radicali La Scuola: sono stato nel comitato e, soprattutto, ho lavorato sodo per pubblicare, fino a che fu possibile, il suo mensile. Certamente, almeno in quegli ultimi anni di uscite regolari, la rivista non emigrò verso quel liberalismo ticinese che oggi conosciamo fin troppo bene, quello sempre più vicino all’UDC – e lo conoscono anche gli elettori, basta vedere le flessioni elettorali da quegli anni a oggi. Quella è stata per me una vera scuola di politica. Va da sé che dagli anni ’70 a oggi il mondo è cambiato, ma gli insegnamenti di allora sono stati un faro importante, anche quando decisi di allontanarmi da quel partito, sempre più cadreghista e galoppino: ideologico, come direbbe la mia garbatamente piccata interlocutrice.

La signora Genini si lamenta perché, dice, ogni volta che si tocca il tema della gestione responsabile delle finanze personali emergono letture ideologiche che poco hanno a che vedere con la sostanza della proposta. Poi il rimprovero: Non è indottrinamento, non è propaganda. Mi dispiace che il signor Tomasina (sic) veda in questa proposta un tentativo di “forgiare menti conformi alla logica del profitto”.

Spiace anche a me, soprattutto perché non ho scritto né pensato una sciocchezza del genere. Che i liberali (radicali) di questo cantone usino da un po’ di tempo il sostantivo ideologia come una specie di insulto, da rivolgere principalmente a tutto ciò che è alla loro sinistra, è ormai diventata un’abitudine. Eppure anche la scuola – quella pubblica, obbligatoria e gratuita – si fonda su un’idea, non una qualunque. Quando i liberali radicali si impegnarono, coi socialisti, per l’istituzione della scuola media e per innumerevoli altre leggi che rappresentarono un nuovo paradigma istituzionale – una scuola partecipativa invece che verticistica, promozionale invece che selettiva – abbracciarono una scelta ideologica.

Felice Casorati (1883-1963), Ritratto di Piero Gobetti (1961).
Nel 1976, nel cinquantesimo anniversario della morte, La Scuola, mensile della Società dei Maestri Liberali-Radicali Ticinesi, pubblicò un testo di Diego Scacchi, Ripensando a Piero Gobetti (Tipografia Legnazzi & Scaroni, Locarno, giugno 1976).

Commentando un’interessante riflessione di Philippe Perrenoud, sociologo ginevrino (Quand l’école prétend préparer à la vie, 2011), che si chiedeva, provocatoriamente, se fosse utile alla vita futura imparare il teorema di Pitagora, avevo scritto che eliminarlo dai programmi della scuola dell’obbligo avrebbe comportato la cancellazione di molti altri contenuti, forse intere discipline: dalla letteratura alla poesia, dall’algebra alla musica, dalla biologia alla storia. È tutto un fiorire di conoscenze di cui, volendo, si può fare a meno. In realtà, il problema non risiede nel teorema di Pitagora, né negli eucarioti o nella Svizzera dei 13 cantoni, e men che meno in Petrarca, Manzoni, Bach o Michelangelo. Sul piano dell’arricchimento culturale, dello sviluppo della speculazione intellettuale e dello spirito critico servono ben altre conoscenze, che superano le competenze “pratiche” per preparare alla vita. Ma è palese che se tali conoscenze diventano le armi improprie della selezione scolastica, allora la scuola dell’obbligo viene meno al suo mandato.

Lo stesso Perrenoud sollevava poi un altro dilemma legato ad alcune discipline ugualmente “utili” e importanti per la formazione dei futuri cittadini, discipline che, tuttavia, non fanno parte, se non sporadicamente e di straforo, dei programmi della scuola dell’obbligo: psicologia e psicanalisi, sociologia, scienze politiche ed economiche, diritto, criminologia, architettura e urbanistica, tanto per citarne qualcuna. Ed è qui che arriviamo a proposte come quella della deputata PLR: educare la gioventù alla gestione responsabile delle finanze personali. Proposta legittima, salvo che ve ne sarebbero decine e decine d’altre. Ma la griglia oraria non può essere gonfiata oltre il troppo che già c’è. Quindi, che si fa?

Una proposta l’avrei: introdurre la filosofia sin dalla scuola dell’infanzia.

Ci osservano severi…
Scritto per Naufraghi/e

La scuola deve insegnare anche la gestione responsabile delle finanze personali?

Una proposta che fa riflettere su quanto sempre più si chiede agli insegnanti. Se sia davvero necessario è un altro discorso.

Molte persone hanno un’idea piuttosto distorta di come funzionino l’insegnamento e, più in generale, l’educazione. Resiste nel tempo l’immagine classica dell’insegnante che, dopo una lezione, assegna esercizi e poi organizza un esame: o lo scolaro ha capito tutto, o non ha capito nulla – mentre la maggior parte si colloca tra questi due estremi. I bravi maestri sanno bene che la realtà è ben più complessa: l’apprendimento richiede tempi adeguati e non tutti imparano alla stessa velocità. Come scriveva Don Milani, Una scuola che si cura solo dei bravi allievi è come un ospedale che cura i pazienti sani.

Spesso anche il nostro Gran consiglio, eletto dal popolo ed espressione della stessa comunità che lo elegge, sembra adottare una visione grossolana dell’insegnamento. Qualche anno fa il deputato socialista Francesco Cavalli, intervenendo in una discussione sull’introduzione di un nuovo compito per la scuola, osservava che, se si volessero seguire tutte le suggestioni espresse in quell’aula, la scuola dovrebbe occuparsi di tutto: dalla sicurezza (in casa, sulla strada, sul lavoro) all’insegnamento dell’economia già nelle medie, dai corsi di buone maniere all’informazione sul servizio civile, dalla promozione dell’incontro fra culture religiose all’introduzione di lezioni di primo soccorso, fino all’insegnamento dei dialetti ticinese e svizzero tedesco, all’apertura verso il mondo delle aziende, all’educazione al bello (mostre d’arte, concerti…), a insegnare a non indebitarsi, a occuparsi di agricoltura e a fare l’orto, a trasmettere il gioco degli scacchi, a incentivare l’uso della bicicletta, a educare all’uso parsimonioso del telefonino, a istituire giornate per recuperare i rifiuti abbandonati, a spiegare il funzionamento del sistema giudiziario e a prevedere lezioni di etica.

Da allora – parlo di quindici o vent’anni fa – la tendenza non è cambiata. Nel 2013 il Parlamento ha imposto l’insegnamento del Salmo svizzero a tutti i futuri cittadini durante la scuola dell’obbligo e, nello stesso anno, è scattata l’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza», che in una settimana raccolse ottomila firme, per arrivare poi a oltre diecimila. Nel 2017 la proposta è stata accolta in votazione popolare con oltre il 60% di voti favorevoli. Eppure, pur essendo circondati da guerre e autoritarismi, non sembra che la sensibilità civica sia aumentata.

Ma eccoci di nuovo a chiedere alla scuola di farsi carico di un’ulteriore esigenza. La deputata Simona Genini, a nome del gruppo Liberale radicale, ha presentato un’iniziativa parlamentare intitolata Educare la gioventù alla gestione responsabile delle finanze personali (novembre 2024). Sintetizzando al massimo, l’iniziativa mira a stimolare un dibattito sull’educazione finanziaria, con particolare attenzione a giovani e donne, proponendo di inserire il tema all’interno del programma di Civica ed educazione alla cittadinanza, senza gravare ulteriormente sulla griglia oraria della scuola media, né generare costi aggiuntivi per lo Stato.

Educare la gioventù alla gestione responsabile delle finanze personali (Immagine generata con ChatGPT)

Genini puntualizza che, per non intaccare l’autonomia degli ordini scolastici ticinesi e la libertà creativa dei docenti, si è optato per una formulazione volutamente generica, limitandosi a stabilire un principio: l’educazione alla gestione finanziaria personale deve godere della stessa dignità oggi accordata allo studio della Civica e dell’educazione alla cittadinanza.

Nei giorni scorsi la stessa deputata, prima firmataria della proposta, ha pubblicato un articolo su laRegione intitolato Educazione finanziaria (Simona Genini su LaRegione 21-02-2025), ampliando il discorso nel campo dell’ignoranza. Racconta che la sua esperienza pluri-professionale – come funzionaria, insegnante, avvocato ed esperta fiscale – le ha permesso di constatare come molte persone, anche se istruite e ben integrate nella società, abbiano conoscenze limitate sui principi fondamentali della gestione finanziaria, sia in ambito personale (pagamenti, imposte, investimenti, previdenza) sia per quanto riguarda i meccanismi basilari della finanza pubblica. Oltre a ciò, accusa il Parlamento. Tutt’a un colpo – secondo la deputata – abbiamo smesso di considerare le risorse economiche disponibili come un vincolo reale per lo Stato, accettando l’idea che la spesa pubblica non abbia limiti. Di fronte a nuove proposte politiche, ci comportiamo come ragazzi che ricevono il primo stipendio e firmano un contratto di leasing insostenibile, senza nemmeno leggere il costo finale.

La conclusione del pezzo giustifica la necessità di far conoscere, fin dalla tenera età, i principi di una gestione responsabile delle finanze personali. Testualmente, la deputata avverte: Se la politica non torna a fare di conto e alle nuove generazioni non si insegna un responsabile approccio alle finanze personali, il rischio sono decisioni politiche miopi e insostenibili. Se non sappiamo distinguere tra bisogni e diritti, possibilità e illusioni, necessario e augurabile, ci ritroveremo a firmare cambiali che qualcun altro dovrà pagare al posto nostro.

A questo punto si deve convenire che la scuola e i giovani non c’entrano nulla. Resta da vedere se la nuova Educazione alla cittadinanza, introdotta a furor di popolo nientemeno che nella Legge della scuola, riuscirà a formare una nuova generazione di Granconsiglieri più preparati e, quindi, più affidabili.

Scritto per Naufraghi/e

Censura australiana? No, educazione ai media

La legge che vorrebbe proibire l’uso di telefonini e social ai minori di 16 anni, prassi vecchia e bacchettona; che trova riflessi censori anche alle nostre latitudini

Bisogna pur dirlo. In Europa e in tutto il mondo occidentale è guerra aperta contro telefonini e dintorni in mano a ragazzini e adolescenti, con l’età del primo rapporto tecnologico che, pare, s’abbassa sempre più. A volte ci si mettono pure governi e parlamenti. L’Australia – riporta Naufraghi/e citando La Repubblica ha deciso di vietare i social ai minori di 16 anni. Il testo, che ha ricevuto il via libera della Camera e del Senato, ma che deve tornare per l’approvazione finale alla Camera bassa, obbliga le piattaforme — si parla di Facebook, X, Instagram, TikTok ma non di WhatsApp e YouTube — a adottare “misure ragionevoli” per impedire a bambini e adolescenti di avere account sui social network. È una prassi vecchia e bacchettona, che nasconde una certa indolenza, suggerita spesso da quei medesimi social dei quali i politici di mezzo mondo si servono per portare innanzi i cavoli loro: dalla propaganda alle fake news, su un letto di narcisismo mica da poco.

Papa Paolo IV creò nel 1559 l’indice dei libri proibiti, poi regolarmente aggiornato fino alla sua soppressione il 4 febbraio 1966 da parte della Congregazione per la dottrina della fede (Olio su tela di Iacopino del Conte, ca. 1560). Naturalmente non è il censore più famoso, basti pensare, in tempi recenti, al nazi-fascismo, all’Unione sovietica, alla rivoluzione culturale cinese, all’Inghilterra vittoriana, al maccartismo o al contemporaneo Kim Jong-un.

Sembra proprio il vecchio bigottismo dei cristiani d’Occidente, di cui è luminoso esempio il Librorum prohibitorum index, ex mandato Regiae catholicae eccetera, la lista dei libri proibiti, insomma, perché davano fastidio alla morale cattolica. Però anche in questa società che vorrebbe essere campione della democrazia, della partecipazione e della trasparenza c’è sempre qualcuno che vuole proteggere qualcun altro a suon di divieti e di una buona dose di paternalismo, ciò che ha poco a che fare con la democrazia e col diritto.

Succede così che dopo le Direttive sui comportamenti inadeguati in ambito scolastico (v. L’etica in classe), ecco la versione per le scuole comunali di pochi giorni fa. Siamo ormai al divietismo, variante raffazzonata del proibizionismo, che almeno ci riservò opere indimenticabili, dalla letteratura al jazz, da Francis Scott Fitzgerald a Duke Ellington. Qui siamo di fronte a una variante più timida, che fin qua ci ha dato solo irritazione, stemperata da una sorta di pigrizia intellettuale – ma stiamo parlando del Dipartimento che si occupa di Educazione e di Cultura, in uno slancio di contraddizione e di ossimori, perché l’Educazione coi divieti ci riporta dritti ai tempi della scuola del Cuore di deamicisiana memoria, senza le sue pagine di commozione, tormenti e atti eroici.

Non è naturalmente una questione inaspettata. Già nel 2007 Giorgio Pellanda, prof della scuola media, nonché deputato al Gran Consiglio, chiese al Consiglio di Stato se fosse «finalmente intenzionato a proibire totalmente l’uso del telefonino in tutte le scuole obbligatorie del Cantone». Ne avevo scritto in un articolo – Telefonini a scuola: problema d’educazione o di repressione? –, che avevo chiuso con una postilla: non è chiaro se il divieto di introdurre il telefonino nel perimetro dell’istituto scolastico toccherebbe solo gli allievi o anche gli insegnanti, ai quali, come del resto agli allievi, è garantita la possibilità di telefonare tramite la segreteria.

Per fortuna non tutto il mondo si difende coi divieti, i giudizi di valore, le arrampicate sui vetri. C’è anche chi vuole affrontare il tema di petto, per il futuro dei suoi cittadini e del suo stesso presente. È interessante, ad esempio, il caso della Finlandia (ma guarda!?), che promuove l’educazione ai media come costitutiva dell’educazione civica, così come l’Estonia, che sin dalla scuola elementare prevede, nel contempo, lo sviluppo di competenze digitali, mirando alla comprensione critica della tecnologia e dei social media, senza scordare di chinarsi su privacy, cyberbullismo e dipendenze tecnologiche; ciò che, coerentemente, passa anche dalla regolazione dell’uso degli smartphone durante le ore di scuola, a partire dal divieto dell’utilizzo durante le lezioni, per favorire l’attenzione e le interazioni sociali dirette.

Si consideri che, Con poche eccezioni, i giovani hanno tutti uno smartphone personale (v. il rapporto Giovani | attività | media – rilevamento Svizzera). Se analizziamo la vita mediale quotidiana dei giovani – si legge nel rapporto – emerge che la maggior parte di loro non si è semplicemente “persa nel mondo virtuale”, ma adotta generalmente un approccio riflessivo nei confronti dei media e ama ancora incontrarsi con gli amici, fare attività insieme e coltivare una varietà di interessi da condividere. (…) I genitori e i responsabili dell’educazione, le scuole, i giovani stessi, le autorità di regolamentazione e i media devono assumersi la responsabilità di sostenere un uso dei media sicuro e adeguato allo sviluppo. Ma l’idea che non usare gli smartphone e i social network sia la migliore forma di educazione ai media non è adeguata ai tempi attuali.

Riprendiamo dunque il discorso partendo dall’Estonia o dalla Finlandia e dai loro sistemi formativi, spesso citati, più raramente imitati. Al posto dei divieti converrebbe tornare a battere i sentieri dell’educazione, difficili eppur potenti. Si tenga conto che tra i quattro e i quindici anni, un allievo che non ripete neanche una classe trascorre a scuola ben più di diecimila ore. Come ha scritto il sociologo Philippe Perrenoud, se la medicina, per obbligo statale, potesse occuparsi della popolazione anche solo per una porzione infinitesimale di questo tempo, non le si perdonerebbe neanche un raffreddore.

Scritto per Naufraghi/e

Pensa te le coincidenze! A pagina 9 dell’edizione odierna, il Corriere del Ticino riporta questa notiziola: Vietare a scuola gli smartphone? L’82% è favorevole. «Quattro svizzeri su cinque (82%) sono favorevoli a vietare il telefonino a scuola. Inoltre, più di due terzi non vede di buon occhio il social cinese TikTok. Lo rivela un sondaggio dell’istituto Sotomo, nel quale anche il 64% dei giovani fra i 18 e i 25 anni è per le restrizioni a scuola. Secondo gli autori del rilevamento, il largo sostegno al divieto si spiega con una crescente consapevolezza dei rischi: dipendenza, problemi di concentrazione e perturbamento delle relazioni sociali».

Se la scuola non fosse inclusiva, in che società vivremmo?

Laddove eventualmente pone problemi l’inclusione va gestita meglio, non abolita in base alle lusinghe del darwinismo sociale che affascina sempre più le destre.

«La scuola inclusiva finisce sotto esame», così il Corriere del Ticino ha aperto la sua edizione del 19 ottobre. UDC e PLR, che si contendono il tema a livello federale, propongono classi speciali per i bambini che parlano lingue straniere o con difficoltà di apprendimento. Secondo i due partiti borghesi, la scuola inclusiva ha mostrato i suoi limiti. L’inclusione, se non gestita con equilibrio, può essere dannosa sia per gli allievi con difficoltà, sia per quelli senza problemi. Quindi? Meglio escludere. Meglio ancora, respingere, mettere all’angolo.

Non era una prassi nazionale, quella di tentare anche solo l’integrazione degli allievi alloglotti nelle nostre classi. Un collega argoviese, qualche anno fa, mi aveva raccontato come funzionava in quel cantone. Gli alloglotti erano raggruppati in classi in cui imparavano il tedesco, cioè l’Hochdeutsch, almeno quel poco per sopravvivere. L’anno dopo si “integravano” nelle classi usuali, dove si parlava lo Schwiizertütsch.

Non la si chiamava ancora inclusione, neanche da noi. Però, al di là della lingua, in altri Cantoni, il Ticino tra questi, si tentava anche una strada di integrazione culturale, processo tremendamente complicato, che, detto così, può far sorridere. Ho conosciuto tanti confederati che non sono mai riusciti a perdere il loro inconfondibile accento, accanto a campani o molisani che s’avventuravano nel nostro dialetto, senza accorgersi di farsi fatalmente riconoscere al volo. Personalmente cerco sempre di non imitare gli accenti altrui, tanto mi beccano sempre, da Varese a Siracusa.

Cosa sia l’inclusione, e cosa la distingue dall’esclusione, dalla separazione e dall’integrazione, lo spiegano bene Elisa Geronimi e Michele Mainardi nell’approfondito In-formazione@Inclusione, che cita quattro atteggiamenti diversi verso i diversi: esclusione, separazione, integrazione, inclusione. Diciamo allora che la visione delle destre elvetiche – ticinesi comprese – spinge verso la separazione. Di qua i normali, di là gli altri, al di là di una definizione e dei soliti preconcetti.

Tratto da in-formazione@inclusione, a cura di Elisa Geronimi e Michele Mainardi (SUPSI-DFA)

La smania di voler in qualche modo catalogare, omologare, facilitare è vecchia come la scuola. Oggi siamo per lo più alle classi per età: a quattro anni si entra nella lunga fase dell’obbligatorietà scolastica e dai sei anni cominciano le tappe tradizionali: la 1ª, la 2ª, la 3ª elementare, fino alla licenza di scuola media. Se tutto fila liscio, in men che non si dica finisce il privilegio (o la sventura…) di dover andare a scuola.

Quand’ero bambino, nella cittadina in cui sono cresciuto vigeva ancora la separazione tra maschi e femmine, designazione un po’ zootecnica per indicare bambini e bambine. Era un segno distintivo delle città. Conobbi le classi miste in III ginnasio. Detta così parrebbe una scelta un po’ bacchettona di quegli anni. Eppure ancora nel 2009 alcuni parlamentari della Lega (sempre i soliti, insomma), primo firmatario Bignasca il Giovane, chiesero, tramite un atto parlamentare, di studiare la fattibilità di introdurre questo modello di apartheid scolastica, basato sulla “tesi educativa” – molto semplice, specificavano – secondo cui maschi e femmine sono talmente diversi fisicamente e psicologicamente che sarebbe un errore pretendere che imparino le stesse cose alla stessa età. La parola-chiave è talmente.

Qualche anno prima un’altra trovata per raggruppare gli studenti era arrivata dalla Gran Bretagna, dove il governo di allora aveva escogitato un’idea che era sembrata un colpo di genio: dividiamo gli studenti in base alla loro intelligenza. Ecco il miracolo, come se non fossero bastate le derive xenofobe che già attraversavano i sistemi scolastici di mezza Europa.

Ma l’avversione quasi rancorosa per l’inclusione nella scuola di UDC e PLR, due partiti sempre più a destra, ha tuttavia una sua logica. Lorsignori hanno una concezione darwinista, individualista e ultra meritocratica dell’intero paese, e quindi anche del suo sistema scolastico. A ciò si aggiunga che, nella realtà, in Svizzera vi sono 26 leggi scolastiche, ognuna ancorata alle sue tradizioni e alle sue abitudini.

Alla faccia di tanti tentativi di collaborazione, soprattutto tra regioni linguistiche, ogni Cantone tende a sottolineare le sue particolarità, che sono storiche, religiose, economiche, direi antropologiche – per rendersene conto basterebbe parlare con un gruppo di professionisti dell’educazione dei Cantoni di Ginevra e Vaud, o di Uri e San Gallo. Al di là del Concordato HarmoS, col quale i Cantoni svizzeri hanno scelto di precisare mediante un accordo quali siano gli elementi fondamentali che permettono l’armonizzazione tra i sistemi scolastici cantonali, permangono tante diversità, che oltrepassano tranquillamente la sostanza degli elementi fondamentali, che sono poi i soliti leggere, scrivere e far di conto.

Non da oggi alcuni Cantoni includono o escludono più di altri, sono più o meno selettivi. Ricordo – un ricordo di qualche anno fa – che alcuni Cantoni avevano una percentuale molto più elevata di allieve nelle scuole speciali, così come nel Canton Vaud esisteva fino a tempi recenti l’École primaire supérieure destinata a quegli allievi che, al termine della scuola elementare, non erano stati ammessi alla scuola secondaria superiore (ginnasio): roba da far impallidire i nostri livelli A e B della scuola media.

Stiano comunque tranquille le destre elvetiche, perché nel nostro paese l’inclusione è già in atto da un pezzo, anche in quei Cantoni che si ritengono tutt’altro che levantini, festaioli e inaffidabili, a parte forse Appezöll Innerroode, il semi-cantone di Appenzello interno. Ora si tratta solo di fare un passo in più.

Scritto per Naufraghi/e