Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

Se la scuola non fosse inclusiva, in che società vivremmo?

Laddove eventualmente pone problemi l’inclusione va gestita meglio, non abolita in base alle lusinghe del darwinismo sociale che affascina sempre più le destre.

«La scuola inclusiva finisce sotto esame», così il Corriere del Ticino ha aperto la sua edizione del 19 ottobre. UDC e PLR, che si contendono il tema a livello federale, propongono classi speciali per i bambini che parlano lingue straniere o con difficoltà di apprendimento. Secondo i due partiti borghesi, la scuola inclusiva ha mostrato i suoi limiti. L’inclusione, se non gestita con equilibrio, può essere dannosa sia per gli allievi con difficoltà, sia per quelli senza problemi. Quindi? Meglio escludere. Meglio ancora, respingere, mettere all’angolo.

Non era una prassi nazionale, quella di tentare anche solo l’integrazione degli allievi alloglotti nelle nostre classi. Un collega argoviese, qualche anno fa, mi aveva raccontato come funzionava in quel cantone. Gli alloglotti erano raggruppati in classi in cui imparavano il tedesco, cioè l’Hochdeutsch, almeno quel poco per sopravvivere. L’anno dopo si “integravano” nelle classi usuali, dove si parlava lo Schwiizertütsch.

Non la si chiamava ancora inclusione, neanche da noi. Però, al di là della lingua, in altri Cantoni, il Ticino tra questi, si tentava anche una strada di integrazione culturale, processo tremendamente complicato, che, detto così, può far sorridere. Ho conosciuto tanti confederati che non sono mai riusciti a perdere il loro inconfondibile accento, accanto a campani o molisani che s’avventuravano nel nostro dialetto, senza accorgersi di farsi fatalmente riconoscere al volo. Personalmente cerco sempre di non imitare gli accenti altrui, tanto mi beccano sempre, da Varese a Siracusa.

Cosa sia l’inclusione, e cosa la distingue dall’esclusione, dalla separazione e dall’integrazione, lo spiegano bene Elisa Geronimi e Michele Mainardi nell’approfondito In-formazione@Inclusione, che cita quattro atteggiamenti diversi verso i diversi: esclusione, separazione, integrazione, inclusione. Diciamo allora che la visione delle destre elvetiche – ticinesi comprese – spinge verso la separazione. Di qua i normali, di là gli altri, al di là di una definizione e dei soliti preconcetti.

Tratto da in-formazione@inclusione, a cura di Elisa Geronimi e Michele Mainardi (SUPSI-DFA)

La smania di voler in qualche modo catalogare, omologare, facilitare è vecchia come la scuola. Oggi siamo per lo più alle classi per età: a quattro anni si entra nella lunga fase dell’obbligatorietà scolastica e dai sei anni cominciano le tappe tradizionali: la 1ª, la 2ª, la 3ª elementare, fino alla licenza di scuola media. Se tutto fila liscio, in men che non si dica finisce il privilegio (o la sventura…) di dover andare a scuola.

Quand’ero bambino, nella cittadina in cui sono cresciuto vigeva ancora la separazione tra maschi e femmine, designazione un po’ zootecnica per indicare bambini e bambine. Era un segno distintivo delle città. Conobbi le classi miste in III ginnasio. Detta così parrebbe una scelta un po’ bacchettona di quegli anni. Eppure ancora nel 2009 alcuni parlamentari della Lega (sempre i soliti, insomma), primo firmatario Bignasca il Giovane, chiesero, tramite un atto parlamentare, di studiare la fattibilità di introdurre questo modello di apartheid scolastica, basato sulla “tesi educativa” – molto semplice, specificavano – secondo cui maschi e femmine sono talmente diversi fisicamente e psicologicamente che sarebbe un errore pretendere che imparino le stesse cose alla stessa età. La parola-chiave è talmente.

Qualche anno prima un’altra trovata per raggruppare gli studenti era arrivata dalla Gran Bretagna, dove il governo di allora aveva escogitato un’idea che era sembrata un colpo di genio: dividiamo gli studenti in base alla loro intelligenza. Ecco il miracolo, come se non fossero bastate le derive xenofobe che già attraversavano i sistemi scolastici di mezza Europa.

Ma l’avversione quasi rancorosa per l’inclusione nella scuola di UDC e PLR, due partiti sempre più a destra, ha tuttavia una sua logica. Lorsignori hanno una concezione darwinista, individualista e ultra meritocratica dell’intero paese, e quindi anche del suo sistema scolastico. A ciò si aggiunga che, nella realtà, in Svizzera vi sono 26 leggi scolastiche, ognuna ancorata alle sue tradizioni e alle sue abitudini.

Alla faccia di tanti tentativi di collaborazione, soprattutto tra regioni linguistiche, ogni Cantone tende a sottolineare le sue particolarità, che sono storiche, religiose, economiche, direi antropologiche – per rendersene conto basterebbe parlare con un gruppo di professionisti dell’educazione dei Cantoni di Ginevra e Vaud, o di Uri e San Gallo. Al di là del Concordato HarmoS, col quale i Cantoni svizzeri hanno scelto di precisare mediante un accordo quali siano gli elementi fondamentali che permettono l’armonizzazione tra i sistemi scolastici cantonali, permangono tante diversità, che oltrepassano tranquillamente la sostanza degli elementi fondamentali, che sono poi i soliti leggere, scrivere e far di conto.

Non da oggi alcuni Cantoni includono o escludono più di altri, sono più o meno selettivi. Ricordo – un ricordo di qualche anno fa – che alcuni Cantoni avevano una percentuale molto più elevata di allieve nelle scuole speciali, così come nel Canton Vaud esisteva fino a tempi recenti l’École primaire supérieure destinata a quegli allievi che, al termine della scuola elementare, non erano stati ammessi alla scuola secondaria superiore (ginnasio): roba da far impallidire i nostri livelli A e B della scuola media.

Stiano comunque tranquille le destre elvetiche, perché nel nostro paese l’inclusione è già in atto da un pezzo, anche in quei Cantoni che si ritengono tutt’altro che levantini, festaioli e inaffidabili, a parte forse Appezöll Innerroode, il semi-cantone di Appenzello interno. Ora si tratta solo di fare un passo in più.

Scritto per Naufraghi/e

Educare in tempi oscuri

Crescono le forze reazionarie in tutta Europa; la risposta democratica spetta anche alla Scuola, come segnala il pedagogista e ricercatore Philippe Meirieu

In un suo recente lavoro Philippe Meirieu, pedagogista, ricercatore e saggista, afferma che l’ascesa dell’estrema destra, ovunque in Europa, rappresenta un pericolo considerevole per coloro che credono ancora che l’emancipazione di ciascuno e la solidarietà tra tutti siano le uniche prospettive in grado di dare un senso al nostro futuro. […] Nel paese dei Lumi [ma non solo, direi] si deve ancora sperare in un vero risveglio politico, nei mesi e negli anni a venire, da parte di coloro che credono ancora, come diceva Theodor W. Adorno, che «Pretendere che la barbarie non si ripeta più è la prima esigenza di ogni educazione», perché, spiegava, «che ci siano degli uomini che diventano esecutori di ciò che perpetua la loro stessa schiavitù e rinunciano a ogni dignità […], è qualcosa su cui l’educazione ha comunque ancora molto da dire» (Educare dopo Auschwitz, 1967).

Voltaire e Rousseau, 1794 circa

Che sia una destra estrema o anche solo un centro-destra agguerrito, si tratta di un’onda che ha invaso quasi tutto l’Occidente e che ha preoccupanti ricadute sui sistemi scolastici, con una certa enfasi verso i piani di studio, le impostazioni pedagogiche e le regole di valutazione. Ci si può guardare in casa, per cominciare. HarmoS è un concordato che definisce a livello svizzero le discipline che rientrano nella formazione di base e che devono essere affrontate da ogni bambino nel corso della propria scolarità obbligatoria. Queste sono le lingue (lingua di scolarizzazione, seconda lingua nazionale e un’altra lingua straniera), matematica e scienze naturali, scienze umane e sociali, educazione musicale, educazione visiva, educazione alle arti plastiche e educazione fisica. Si badi bene, l’elenco segue l’importanza data a ogni disciplina e trascina nella propria scia la dotazione di ore di insegnamento e il peso della valutazione, che è piuttosto selettiva.

Parrebbe insomma che, tanto o poco, un gran numero di paesi europei insegua quelle “eccellenze” internazionali date da piani di valutazione come PISA, l’indagine internazionale coordinata dall’OCSE, che valuta le competenze degli studenti di 15 anni in lettura, matematica e scienze. L’obiettivo di PISA è misurare, a scadenza triennale, quanto gli studenti, prossimi alla fine dell’obbligo scolastico, siano in grado di applicare le loro conoscenze e abilità in situazioni reali, solleticando un confronto tra i sistemi educativi dei vari paesi partecipanti, ma senza minimamente considerare le strategie messe in moto per raggiungere i loro risultati, cioè come funzionano i sistemi scolastici dei diversi paesi.

Ha affermato lo scrittore Paolo Di Paolo: Dove i genitori non credono nei figli, ci crede la scuola. Dove la società attempata non crede nei giovani, ci crede la scuola. Dove i genitori e la società attempata non credono nella scuola, la scuola è tenuta a credere in sé stessa. Dove la società attempata e le sue sacche reazionarie non credono più o non hanno mai creduto nella democrazia, la scuola continua a crederci. Deve crederci. (La Repubblica, 11.09.2024).

Lo sanno tutti che certi test scolastici si possono superare dopo una bella “secchiata” la notte prima degli esami, magari in bella compagnia, una notte che sarà rievocata quando, da grandi, si faranno le rimpatriate. Da lì a ricordare di cosa si trattava ce ne corre: si commemorano lo stress, il prof accigliato che ci scrutava, gli stratagemmi per inventare i bigini più inespugnabili, in una recita conosciuta da tutte le parti in gioco. E poi? Cosa è rimasto di tutta quella sceneggiata? Purtroppo è quel che succede con regolarità, in tanti gradi scolastici. La palese incoerenza, semmai, risiede nel contenuto di ogni test. Perché un conto è – poniamo – la padronanza mnemonica delle caselline, un altro la capacità di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà: che è una delle finalità della scuola. Direi: più importante delle caselline, e pure di uno qualsiasi dei principi della termodinamica. Ma chi si occupa di valutare gli obiettivi più alti della scuola?

È soprattutto in questo contesto di competizione e selezione, sempre più tracotante e dispotica, che si colloca l’ultima fatica di Philippe Meirieu, Éducation: rallumons les Lumières!, che potremmo tradurre con “risvegliamo l’Illuminismo”, rianimiamolo, ristabiliamolo, resuscitiamolo. Applichiamone i principi fondamentali. L’autore ricorda che il secolo dei Lumi fu un’epoca di passione per l’educazione, dove si affermò la scienza contro l’oscurantismo e si lottò per liberare i bambini da ogni forma di dominio, compresa quella della Chiesa, che si vantava di proteggere i bambini dalla tentazione e dal peccato inculcando loro un catechismo basato sulla paura dell’inferno. Gli intellettuali illuministi, raccogliendo il sapere globale nelle loro enciclopedie, aspiravano invece a formare individui capaci di pensare autonomamente e scegliere liberamente il proprio destino, una visione di emancipazione che rimane fondamentale anche oggi.

D’accordo, il mondo, fin qua, non è andato esattamente in quella direzione. Forse anche perché la Costituzione della République comincia con La Francia è una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale, mentre quella svizzera decolla In nome di Dio Onnipotente: come è noto almeno agli umanisti, le parole hanno un senso.

Philippe Meirieu, Éducation: rallumons les Lumières!, 2024, Éditions de l’Aube, pp. 185 (disponibile anche in formato e-book).

La traduzione delle citazioni dall’originale è mia.

Scritto per Naufraghi/e

La scuola non è il Golgota

A Singapore i giovani pagano un prezzo elevato per un sistema estremamente orientato al rendimento: mancanza di sonno, problemi di attenzione e pensieri confusi. Ogni anno alcuni studenti si tolgono la vita per disperazione. Vogliamo questo anche in Ticino?

La Legge della scuola, votata dal parlamento sul finire del XX secolo, stabilì che i genitori erano a pieno titolo una componente della scuola, con organi e compiti sanciti da leggi, regolamenti, norme e direttive. Era il 1990 e la scuola era già un po’ diversa da quella degli anni in cui questi propositi erano nati, vent’anni prima. Diciamo che sull’arco del mezzo secolo, dall’istituzione della scuola media nel 1974 a oggi, sono cambiate parecchie cose. Il varo della nuova Legge arrivò sei anni dopo che Apple presentò Macintosh e tre mesi dopo il crollo del muro di Berlino: basterebbero queste due date a simboleggiare i frenetici cambiamenti di un’era forse ancora ai suoi inizi.

Anche solo limitandosi alla scuola obbligatoria, sarebbe già eloquente il confronto tra i (vecchi) programmi della scuola elementare e della scuola media con i contenuti del Piano di studio attuale, che copre la scolarizzazione di tutte le persone residenti nel Cantone dai quattro ai quindici anni di età. Dei genitori e dei loro dispositivi formali e informali di collaborazione, invece, è cambiato poco, e di quel poco non si sa bene chi ne usufruisce e se ne giova: ci si chieda quanti frequentano l’assemblea dei genitori e entrano nei loro comitati, e quanti hanno incontri regolari e fruttuosi con i/le docenti dei loro figli.

Nel 2023 la SRF ha realizzato un interessante reportage – Modelli scolastici a confronto – che mostra dove si situa il nostro sistema scolastico rispetto a Singapore e alla Finlandia, due mondi formativi agli antipodi, due scuole da anni al top delle classifiche PISA per i loro risultati in matematica, lettura e scienze. La scuola svizzera si colloca tra questi due modelli. Ho estrapolato qualche passaggio che riguarda Singapore e Finlandia.

I giovani singaporiani pagano un prezzo elevato per questo sistema estremamente orientato al rendimento: mancanza di sonno, problemi di attenzione e pensieri confusi, che a volte sfociano nel peggio. Ogni anno, alcuni studenti si tolgono la vita per disperazione. Centinaia chiedono aiuto all’organizzazione SOS, specializzata nella prevenzione dei suicidi.

Dal sud-est asiatico e tropicale alla Finlandia anche il clima scolastico è assai diverso. Un maggiore riconoscimento è la chiave per avere insegnanti motivati, che dovrebbero insegnare le competenze di cui gli alunni avranno davvero bisogno: le competenze del XXI secolo, ovvero creatività, comunicazione, cooperazione, lavoro di squadra, sulla scorta di un’idea degli obiettivi fondamentali della scuola: formare futuri cittadini muniti di competenze per professioni di cui non conosciamo ancora l’esistenza.

La scuola svizzera è distante dai modelli della Finlandia e di Singapore, riportando comunque risultati sopra la media dei paesi partecipanti e nel gruppo di testa dei paesi europei. Tenuto conto che, di solito, la scuola non insegna ciò che dice, ma insegna ciò che fa, si potrebbe dire che il suo funzionamento ricorda vagamente quello singaporiano, anche se, fortunatamente, siamo ancora lontani da quei tristi finali dell’esasperata competizione scolastica.

Eppure qualche sintomo preoccupante si è già palesato: molti genitori non sanno più da che parte girarsi e accumulano stanchezza, ansia, senso di inadeguatezza. Recentemente, TIO ha riportato di Genitori sempre più in burnout. Tra le diverse testimonianze raccolte – scrive il portale – c’è quella di Sonia, 36 anni. È una mamma single di un figlio di tre anni e mezzo che – racconta – «per sbarcare il lunario faccio due lavori: il primo in un ufficio delle imposte, il secondo come badante». Ammette di essere «costantemente esausta e spesso vorrei essere altrove, anche quando sono a casa. Ogni volta che mi alzo al mattino ho la nausea e penso tra me e me: come farò ad affrontare la giornata? Vorrei solo che fosse di nuovo sera per poter dormire. Mi sembra una lotta costante per la sopravvivenza».

Nel contempo Pro Juventute parla di queste figlie e di questi figli, che, per gran parte dell’anno, sono allievi e studenti: Bambini e giovani sotto stress e pressione competitiva. Di sicuro non sono le mamme come Sonia a creare problemi alla scuola, a prendere di mira gli insegnanti a loro giudizio inadeguati. Purtroppo, capita di incontrare genitori a volte un po’ squadristi, mai sufficientemente sazi di nozioni, sacrifici, fatiche, competizione per i loro figli. Ha scritto di recente il parlamentare Piezzi del PLR: In campo educativo, e l’ho denunciato più volte, sono troppo assenti valori come il sacrificio, l’allenamento allo sforzo, la capacità di reagire agli insuccessi. Il pulpito ha naturalmente la sua importanza, dato che il deputato è pure maestro. Ma perché mai dovremmo rifarci alla narrazione cattolica, che dalla Via Crucis, disseminata di dolori, sale al Golgota?

Pieter Bruegel il Vecchio, Salita al Calvario, 1564, olio su tavola, 124×170 cm, Kunsthistorisches Museum Vienna

Alle tante mamme come Sonia, che hanno figli a scuola, non si possono chiedere ulteriori sacrifici oltre alla fatica e al sudore che già affrontano ogni giorno, felici di lasciare i figli a scuola, un po’ meno di essere costrette a far capo al doposcuola o alle colonie, per l’impossibilità di restare con loro. La scuola, per lo meno quella dell’obbligo, dovrebbe darsi una calmata e smettere di piegarsi alle richieste di tutte quelle corporazioni che chiedono sempre più nozioni, «competenze» e selezione.

In Finlandia le giornate scolastiche sono più brevi che in quasi tutti gli altri Paesi: 4-6 ore al giorno con una settimana di 5 giorni. Gli alunni, inoltre, dedicano anche poco tempo ai compiti a casa: 10-20 minuti al giorno. In questo modo si evita di penalizzare i bambini senza un supporto a casa. In questo modo non ne risentono né il sonno né le prestazioni cognitive. Ciò nonostante i livelli di competenza dei loro quindicenni sono simili ai nostri.

 

Scritto per Naufraghi/e

Su temi analoghi segnalo tre articoli di questi giorni:

Gli affanni della scuola liberal sociale, di Fabio Camponovo (Naufraghi 02.09.2024), La scuola tra l’essere e l’avere, di Elda Pianezzi (laRegione 03.09.2024) e Scuola fa rima con idea, di Michela Luraschi (laRegione 03.09.2024). I due articoli pubblicati su laRegione sono visibili anche qui.

 

Se non ci fosse la scuola non ci sarebbe l’insuccesso scolastico

È difficile capire come mai la politica non si sia ancora allarmata di fronte alla più che decennale strage di allievi, che non riguarda solo le scuole medie superiori, ma anche la scuola media

Se non ci fosse la scuola non ci sarebbe l’insuccesso scolastico.

Meglio: En un sens, il ne saurait y avoir d’échec scolaire que par référence à une école qui met en échec. È una frase di Pierre Bourdieu et Jean-Claude Passeron, sociologi francesi che, nei primi anni ’70, pubblicarono un saggio che scosse il mondo dell’educazione e della scuola: La riproduzione. Sistemi di insegnamento e ordine culturale. Secondo i due studiosi, il sistema educativo contribuisce alla riproduzione delle disuguaglianze sociali attraverso la trasmissione del capitale culturale che è patrimonio delle classi dominanti, consolidando così le disuguaglianze esistenti. Analogamente la stessa scuola legittima le disuguaglianze sociali presentandole come naturali e meritocratiche.

Scrivono, tradotto con un semplice esempio, che nei primi anni della scolarità, in cui comprendere e maneggiare la lingua costituiscono il punto d’applicazione principale del giudizio dei maestri, l’influenza del capitale linguistico non cessa mai di esercitarsi: lo stile viene sempre preso in considerazione, implicitamente o esplicitamente, a tutti i livelli del curriculum, fino all’università.

Pensando alle valutazioni della scuola, è piuttosto evidente che il possesso di un capitale linguistico, appreso perlopiù in famiglia, in quello specifico contesto socio-culturale, è un chiaro vantaggio rispetto agli allievi che, sin dall’entrata nella scuola, quel capitale non ce l’hanno: potranno imparare a scrivere e a parlare in maniera del tutto corretta, e in questo caso non finiranno nelle paludi dell’insuccesso scolastico, che li inseguirebbe anno dopo anno. Ma di rado saranno in grado di costruire una lingua alta, per lessico e sintassi, benché grammaticalmente corretta.

Fino agli anni ’70, le discipline umanistiche contavano ben più di oggi. «Tutti coloro che hanno studiato filosofia – è un passaggio dell’ultimo romanzo del greco Petros Markaris (La violenza dei vinti, 2024) – conoscono la massima di Cartesio: Penso, dunque sono. In Grecia abbiamo modificato la massima e diciamo: Ho una poltrona, dunque sono. Stèfanos Rokkos apparteneva alla categoria di chi ha una poltrona. E aveva deciso di modificare il piano di studi dei licei in modo che potessero aprire agli studenti la strada verso le poltrone delle aziende e degli enti. Il pensiero non ha importanza. Quello che conta è la poltrona. Ma noi non permetteremo che le scuole diventino spacci di poltrone. Lotteremo, quale che sia il prezzo per noi. Da noi, mi pare, non lotta nessuno.

Simona Sala ha proposto recentemente alcune riflessioni sulla «scuola post-obbligatoria, ossia, quel bacino immenso in cui si trovano spesso a galleggiare centinaia di giovani che, non ancora del tutto certi del percorso formativo intrapreso, tentano di individuare una strada che li possa portare a una realizzazione personale e professionale»: in sostanza, parliamo dei licei e della scuola cantonale di commercio. Titolo dell’articolo: Una scuola superiore davvero inclusiva? L’occhiello aggiunge: Un insegnamento post-obbligatorio spesso disumanizzato.

La risposta al quesito, chiaramente retorico, è già scritta in una pubblicazione del DECS – Scuola ticinese in cifre 2023 che nella Prefazione, firmata dalla Consigliera di Stato Marina Carobbio Guscetti, afferma: Nell’anno scolastico 2021/22 solo 74% degli allievi di prima liceo sono stati promossi. Alla Scuola cantonale di commercio la selezione è stata ancora più massiccia: solo 62% degli allievi di prima sono stati promossi. Ma c’è un altro dato, raccolto in quel medesimo prezioso documento che, anno dopo anno, presenta le cifre della scuola ticinese. Cosa intendono fare tutti quegli studenti che, consci o meno delle loro attitudini, si iscrivono al liceo? Il 31% (i dati si riferiscono al 21/22) sceglie l’opzione Lingue moderne, seguono Biologia e chimica (28.3%), poi Economia e diritto (20.4%). Molto più staccate arrivano le Lingue antiche (8.6%), Fisica e applicazioni della matematica (7.1%), per finire con la Musica e le Arti visive, scelte peraltro possibili solo in alcune sedi. Cosa ci sia dietro questi indirizzi non è di facile comprensione, basti pensare, ad esempio, a chi vuole intraprendere la carriera di maestra/o di scuola dell’infanzia o elementare.

È difficile capire come mai la politica non si sia ancora allarmata di fronte a questa più che decennale strage scolastica, che non coinvolge solo le scuole medie superiori, ma anche la scuola media, che è scuola dell’obbligo. Per restare ai numeri, i medesimi dati dell’anno 21/22 dicono che il 60% degli allievi del II ciclo della scuola media ha seguito due corsi attitudinali – mutatis mutandis, per capirci, quelli che all’inizio erano i livelli A. Si può ipotizzare che un bel numero di loro, con l’iscrizione al liceo, rincorrerà un destino funesto e già scritto.

Il fallimento pare duplice: della scuola media, che è incapace di orientare un gran numero di suoi allievi; e della scuola media superiore che, con queste fucilazioni scolastiche, sembra voler incriminare la sua scuola-filtro. Dietro tutto ciò non si può far finta di non vedere che il diploma di maturità è il pezzo di carta che dà l’accesso a un numero impressionante e variegato di formazioni universitarie e para-universitarie, una specie di coperchio per tante pentole.

Resta, sullo sfondo, il dubbio di sempre, che riguarda le valutazioni scolastiche, dietro le quali ci possono essere le responsabilità di ogni studente o studentessa. Ma c’è anche, con altrettanta potenza di fuoco, l’incapacità di qualche insegnante: di educare, motivare, valutare e insegnare. Non necessariamente in quest’ordine.

 

Scritto per Naufraghi/e

Scusate, sulla scuola abbiamo cambiato idea (liberale)

La scuola ticinese l’hanno fatta e gestita soprattutto i liberali, ma adesso, ohibò, a loro non piace più

In altre epoche c’era stato uno che aveva promulgato una Legge in dieci articoli, che aveva chiamato Comandamenti. I liberali radicali svizzeri vanno vicini al raddoppio: Diciassette campi d’azione per un’educazione scolastica equilibrata e orientata al futuro. «Il modello di successo liberale radicale presuppone che tutti abbiano l’opportunità di affrancarsi nella scala sociale. Tuttavia, questo è possibile solo con una solida istruzione. La comprensione del modello liberale di società richiede però un’ampia istruzione e, tra le altre cose, la conoscenza dell’Illuminismo»: alla faccia del minimo sindacale della modestia, che i liberali inglesi di un tempo chiamavano understatement, una sintesi di autoironia e sobrietà. Non so cosa sappiano questi novelli liberali dei grandi illuministi della storia della pedagogia – da John Locke a Jean-Jacques Rousseau, Denis Diderot, Voltaire, Johann Heinrich Pestalozzi e Immanuel Kant – senza evocare alcuni filosofi e pedagogisti che, in anni successivi, molto hanno dato alla scuola moderna, penso a John Dewey, Maria Montessori, Jean Piaget, Lev Vygotskij e altri.

Presumo che i liberali radicali ticinesi abbiano aderito all’eptadecalogo nazionale e che lo sottoscrivano senza se e senza ma, tant’è che questa lista della scuola che vorrebbero l’ho trovata nel loro sito. Così non possono dimenticare, o fingere di farlo, che per oltre sessant’anni, dal dopoguerra in qua, i loro predecessori hanno gestito la Pubblica educazione ticinese con i Consiglieri di stato Brenno Galli, Plinio Cioccari, Bixio Celio, Ugo Sadis, Carlo Speziali, Giuseppe Buffi e Gabriele Gendotti, e che in tutti quegli anni hanno proposto e realizzato tante importanti riforme, tra le quali spiccano l’istituzione della Scuola media e l’Università della Svizzera italiana, senza scordare la diffusione dei licei o i grandi sforzi per favorire e concretizzare la democratizzazione degli studi. Come spesso capita, vien da dire che gli originali sono migliori delle copie.

I «padri» della scuola ticinese dal dopoguerra, tutti liberali: Brenno Galli (1946-1959), Plinio Cioccari (1959-1965), Ugo Sadis (1971-1979), Carlo Speziali (1979-1986), Giuseppe Buffi (1986-2000) e Gabriele Gendotti (2000-2011). Manca Bixio Celio (1965-1971).

Certo, non tutto e non sempre è stato immune da errori e critiche, e non lo è neanche oggi, perché ogni legge è frutto di compromessi e scambi politici, così come la realizzazione dei suoi principi deve fare i conti con chi, nelle scuole e nelle aule, deve tradurre i principi in pratica, magari a volte dissentendo; e perché i tempi cambiano in fretta, gli impianti normativi resistono e i tempi della politica li conosciamo.

Forse non rammentano, i liberali odierni, che nel 1974 i liberali radicali ticinesi, coi socialisti, avevano istituito la scuola media, che avrà pure tanti difetti, ma che continua a rappresentare una grande conquista politica e sociale. La scuola maggiore era certamente un’ottima scuola, mentre azzerare il ginnasio fu una decisione davvero liberale e radicale, benché la scuola media, col passare degli anni, somigliò più al secondo che alla prima. Tra l’altro il relatore di maggioranza in Gran consiglio era stato il liberale radicale Diego Scacchi. E, a proposito di amnesie vere o di comodo, anche la Legge della scuola del 1° febbraio 1990 era nata con il sostegno convinto dei liberali radicali e del Consigliere di stato Giuseppe Buffi. E comincia con ben altre finalità rispetto allo slogan di oggi, La scuola dell’obbligo annaspa: torniamo alla missione principale.

Quale sarebbe allora la missione principale della scuola? Quella delle Competenze di base, competenze di base, competenze di base? Quella che Gli allievi alloglotti dovrebbero ricevere lezioni intensive nella lingua d’insegnamento prima di entrare in una classe tradizionale? Quella che Le note scolastiche devono essere mantenute e i tentativi ideologici di abolire le note devono essere respinti? Quella che Più Svizzera in classe e Tolleranza zero per i fondamentalisti? Suvvia: se davvero si vuole così pacchianamente abbandonare quell’ideologia che tanto ha prodotto in anni neanche troppo lontani, si abbia almeno l’audacia di manifestare a chiare lettere che si è cambiato idea, perché quell’idea del secolo scorso, secondo loro, ha prodotto riforme ormai alla canna del gas.

E allora se l’ideologia – oh che brutta parola! – non c’è più andate in parlamento e combattete come leoncelli per aggiustare quel che si può, mandate a gambe all’aria tutto quanto e restaurate secondo il vostro millantato «metodo liberale» (neutro, neh!). Gli alleati politici, quelli ideologicamente vicini a voi, non mancheranno.

 

Scritto per Naufraghi/e