Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

Quando il libro diventa una tortura

Parlavo, l’ultima volta, dell’importanza di essere un lettore efficace e di cosa dovrebbe fare la scuola per valorizzare l’apprendimento della lettura e per accompagnare, guidare e sostenere ogni alunno affinché impari bene a leggere, perché la lettura è un mezzo essenziale per districarsi a scuola e nella vita, e leggere può pure diventare fonte di grande piacere.

Gianni Rodari, prolifico creatore di filastrocche, romanzi, favole, novelle, storie e racconti, è stato anche maestro di scuola e pedagogista, tanto che dopo aver lasciato l’insegnamento ha continuato a lavorare con il mondo dell’educazione, cioè con tanti insegnanti, allievi e genitori. La «Grammatica della fantasia» è sicuramente il suo capolavoro pedagogico, ma anche la ricca produzione giornalistica, iniziata negli anni ’50 e continuata sino alla sua scomparsa improvvisa, nel 1980, a soli sessant’anni, è piena di idee per una scuola più attiva ed equa, mi verrebbe da dire «più educativa».

È proprio Rodari che mi ha ricordato quante volte lui stesso ha parlato e scritto della lettura a scuola. Nel 1964, ad esempio, elencò sul Giornale dei genitori i «9 modi per insegnare ai ragazzi ad odiare la lettura», tra i quali spicca il libro usato come strumento di fatica e di tortura, attraverso le varie fasi del riassumere, del mandare a memoria, del descrivere le illustrazioni, eccetera. Tutti questi esercizi moltiplicano le difficoltà della lettura, anziché agevolarle, fanno del libro un pretesto togliendogli ogni capacità di divertire [1].

Immagine e titolo principale dell’articolo pubblicato su Il Caffè dell’11 aprile 2021 (Anno XXIII, n. 12), pag. 35 – La foto è stata scattata il 3 marzo 1977, in occasione di un’affollata conferenza che Rodari tenne a Locarno.

Nel 1974, a un congresso di studi su Collodi, disse di ricordare ancora la voce della sua maestra che ci leggeva Pinocchio, alla fine della mattinata come premio, se eravamo stati buoni. Era un’ora molto bella. La maestra leggeva bene, eravamo disponibili e distesi, di voti buoni o cattivi non c’era più rischio. Era un bel modo di stare insieme. Poi aggiungeva di conoscere maestri d’oggi che leggono invece Pinocchio non alla fine, ma all’inizio della mattinata, non come un momento di riposo, ma, al contrario, per mettere in movimento le energie della mente e della fantasia [2]: prima di passare alle cose serie…

Qualche anno più tardi tornò per l’ennesima volta su questi temi, per affermare l’urgenza di rimuovere gli ostacoli più grossolani al piacere, al gusto della lettura, che lui ravvisava nell’uso che vien fatto spesso, purtroppo, di pagine destinate a destare ed educare quel gusto, trasformate invece in strumenti di tortura individuale e collettiva: analisi grammaticale, analisi logica, copiatura, riassunto, eccetera.  Anche la pagina più poetica diventa così esercizio burocratico, il cui fine non è l’animo del ragazzo, ma un voto sul registro e, domani, sulla pagella. Le difficoltà inseparabili dalla lettura vengono così accresciute e moltiplicate. Il libro si allontana, è chiuso in una gabbia di artifici. Non è più, come dovrebbe essere, “un momento della vita” o almeno, perché no?, un bel gioco, forse il più bello di tutti [3].

Da allora è passato mezzo secolo, molte cose sono cambiate, ma ancor oggi tanti allievi potrebbero dire, con Pinocchio, che a me la scuola mi fa venire i dolori di corpo. Quasi tutto sembrerebbe ruotare attorno ai test, alle note, alle medie. Ma le note, specialmente quelle brutte, sono un po’ come l’araba fenice: son lì da vedere, ma non è sempre chiara la causa. Magari è solo perché uno non è portato, per l’italiano o per la matematica…


Note

[1] Gianni Rodari, 9 Modi per insegnare ai ragazzi ad odiare la lettura, in «Il giornale dei genitori», n. 10, ottobre 1964.

[2] Gianni Rodari, Pinocchio nella letteratura per l’infanzia, in Studi collodiani. Atti del Convegno Internazionale Pescia, 5-7 Ottobre 1974, 1976, Edito a Pesca dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.

Le note [1] e [2] sono tratte dal volume di Pino Boero Una storia, tante storie. Guida all’opera di Gianni Rodari, 2020, Edizione aggiornata, Einaudi Ragazzi.

La citazione [3] mi è stata fornita da Pino Boero, che ringrazio di cuore. È tratta dall’articolo Pinocchio non è più solo, apparso sul settimanale «Rinascita», n. 49, 15 dicembre 1978.

Leggere libri non può essere solo un noioso compito a casa

Com’è un lettore efficace e competente? E, soprattutto, come lo si diventa? A scuola capita di sentirsi dire che bisogna leggere – tanto, anzi di più – per migliorare le proprie capacità di scrittura.  Il bravo lettore non si confronta solo con la letteratura e coi suoi classici – quei libri che, secondo Italo Calvino, continuano a parlare anche alle nuove generazioni, perché non hanno finito di dire ciò che hanno da dire. Ma il lettore è efficace quando ha automatizzato la comprensione dei codici linguistici e competente quando padroneggia la lingua, sa distinguere un romanzo da un saggio, un articolo di cronaca da un commento editoriale, un testo di divulgazione da un libercolo pubblicitario. Così quel lettore sarà facilitato sull’arco della scolarità e della vita, perché capace di studiare, di risolvere nuovi problemi e imparare altre lingue. Significherà pure poter leggere per il puro piacere di farlo.

Lo ha detto di recente anche il ministro francese dell’economia e delle finanze, Bruno Le Maire, che si è rivolto ai liceali della République con un messaggio sul web, ripreso subito da diverse testate: «Leggete, staccatevi dagli schermi. Gli schermi vi divorano, la lettura vi nutre. Gli schermi vi svuotano, i libri vi riempiono. Fa tutta la differenza. La letteratura e i libri vi permetteranno di scoprire quanto siete unici e fino a che punto non assomigliate a nessun altro. È quello che fa l’umanità. Ogni persona è unica. Ed è la letteratura che ce lo insegna».

Bisogna capire se la scuola è in grado di puntare a simili traguardi, sapendo che la crescita rigogliosa della nostra lingua non dipende solamente da ciò che si riesce a fare nelle aule scolastiche, in cui confluiscono allievi abituati sin da piccoli a maneggiare, guardare e leggere libri, e allievi che crescono a stento su terreni del tutto aridi. Per prima cosa occorre creare gli spazi e i tempi per favorire lo sviluppo linguistico di ognuno. Come ha annotato su queste pagine Renato Martinoni giusto una settimana fa, «complice la mancanza di letture, l’abuso dei “sòscial”, e soprattutto la pigrizia e un peso troppo limitato dato, nelle scuole, alla lingua madre, stiamo formando generazioni di gente che si illude di possedere una lingua senza purtroppo averla per davvero. Regaliamo pertanto all’italiano più ore a scuola. Non solo in quelle di italiano, ma anche in tutte le materie. Perché abbiamo urgente bisogno di una lingua. Di una lingua davvero solida».

Quando leggere diventa un noioso compito a casa o un riempitivo tra due cose reputate più importanti, si sparge l’idea di qualcosa di scarso valore. La lettura, in primo luogo, deve ritrovare il suo peso specifico dentro la scuola, nelle ore in cui l’allievo è lì. Toccherà poi all’insegnante accompagnare, guidare e sostenere le scelte di lettura,  in modo congruo alle capacità di ognuno. Anche il lavoro sui libri dovrà essere rilevante e sensato: ad esempio favorendo la condivisione, la creazione di schede critiche, la presentazione ai compagni, la discussione e il commento critico.

Museo Plantin-Moretus, Anversa (2019)

Capita invece che, avanzando nella scolarità, il tempo per la lettura e per i libri anneghi nei troppi impegni extrascolastici, che sono dominati dallo studio supplementare per far fronte alle reiterate valutazioni di materie ritenute più utili o spendibili, soprattutto in termini di valutazioni scolastiche: le lingue due e tre, la matematica, le scienze. Mentre la lettura di un libro può attendere.


Citazioni

Le parole del ministro francese dell’Economia, delle Finanze e della Ripresa Bruno Le Mair sono tratte dal sito di Repubblica del 7 febbraio 2021. Il messaggio del ministro è in YouTube: Arrachez-vous de vos écrans ! Lisez !

L’articolo di Renato Martinoni è invece apparso sul Caffè del 14 marzo 2021, nella sua rubrica settimanale «Fogli in libertà»: Più ore di italiano per imparare l’italiano.

Saper parlare aiuta il rapporto con gli alunni

Dicevo, due settimane fa, dell’urgente bisogno che la scuola dell’obbligo insegni ai suoi allievi a esprimersi oralmente e che l’istituto per la formazione degli insegnanti – quello che tanti anni fa si chiamava scuola magistrale – inizi presto a lavorare su una moderna didattica della lingua parlata. Ci si potrebbe comunque chiedere come mai la scuola dell’obbligo continui a riservare alla scrittura e alla lettura uno spazio privilegiato, quasi che la capacità di esprimersi oralmente fosse un’acquisizione spontanea, che non necessita di particolari percorsi didattici – tutt’al più di correzioni immediate di fronte agli errori più grossolani.

Eppure parlare e scrivere sono due lati della stessa medaglia. È però curioso notare come l’attività di scrittura – penso in particolare ai famosi «temi» da svolgere individualmente – ha solitamente un unico lettore, peraltro più interessato agli aspetti “tecnici” del testo che alla comunicazione dell’allievo/autore, indipendentemente dalla natura del compito svolto: una descrizione, un racconto, un riassunto, un’argomentazione. L’insegnante interverrà dunque puntualmente, per segnalare errori ortografici, punteggiatura, grammatica e sintassi, forse l’uso appropriato del vocabolario.

L’espressione orale, invece, non è mai un esercizio destinato a un unico ascoltatore. Quasi sempre chi parla ha bisogno di qualcuno che ascolta. Si può dunque dire che lo sviluppo delle capacità orali, al contrario della scrittura, non può esistere né crescere senza la collaborazione dei compagni e dell’insegnante – per parlare da soli ci si può anche inventare una lingua.

Ora, per imparare a parlare servirebbe un impianto didattico altrettanto variegato e puntuale. Si sa che, in Europa, vi sono sistemi scolastici in cui l’oralità ha pari dignità della scrittura. Si tratta tuttavia di scelte pedagogiche strettamente legate alla cultura e alla storia di paesi, per citarne solo un paio, come la Danimarca e la Finlandia. Sappiamo però che i funzionamenti delle scuole dei diversi paesi non si possono importare come si importerebbero aringhe o mobili da montare.

Anche da noi ci sono esperienze significative, soprattutto nell’ambito della cosiddetta Scuola attiva, un movimento pedagogico nato nei primi decenni del ’900. Ha annotato Philippe Meirieu, parlando del lavoro di Célestin Freinet (1896-1966, pedagogista e educatore francese): «Talvolta, a scuola, gli alunni si annoiano. Non è perché li si costringe a lavorare, ma perché non li si fa lavorare per davvero: è il maestro che lavora, mentre loro ascoltano. Dunque mettiamoli al lavoro e diamogli dei compiti che abbiano un senso. Freinet ne è convinto: è il lavoro che stimola, il lavoro vero. Perché ha senso. È il lavoro che permette agli studenti di mettersi in gioco».

È proprio nel contesto della scuola attiva che troviamo tante proposte didattiche per insegnare agli allievi a esprimersi oralmente. Si tratta di attività regolari e alle quali tutti devono partecipare; senza contare gli spazi per la comunicazione collettiva, come può essere l’assemblea di classe, per discutere di argomenti grandi e piccoli che coinvolgono quella piccola comunità: una discussione che ha le sue regole, dove ognuno ha diritto a esprimersi e dove si impara ad ascoltare, a condividere, a dibattere.

Tra l’altro: sono i primi esercizi di democrazia, che hanno anche benefici effetti sulla competenza linguistica di ognuno.


La citazione è tratta da dall’opuscolo Célestin Freinet – Comment susciter le désir d’apprendre di Philippe Meirieu. Fa parte di una serie di 26 opuscoli che accompagnano 26 film che erano stati trasmessi tra il 1999 e il 2001 dal canale televisivo France 5. Ogni film della serie, intitolata «L’éducation en question», presenta i contributi di una grande figura dell’educazione con le domande che i professionisti del nostro tempo si pongono quotidianamente. Si possono vedere tutte le puntate (di 13 minuti l’una) nel sito di Philippe Meirieu (L’éducation en question).

Serve una nuova didattica per l’oralità

Chissà se la scuola insegna a parlare? Nell’immaginario è più rinomata per il silenzio, perché a scuola si sta zitti e si ascolta con attenzione l’insegnante: che spiega, puntualizza, espone. A volte rimprovera, ad esempio quando si chiacchiera. Ci sono pure situazioni ambigue, come quando pone una domanda a tutta la classe. C’è chi fa scattare la mano alzata e l’accompagna con «Io! Io!». E c’è chi, se potesse, si nasconderebbe, e fa il possibile per non farsi notare: perché è insicuro o timido. Spesso, quando poi arriva la risposta, lui si pente, perché la sapeva. Ma stando zitto rischia poco. Di solito, però, gli allievi fanno silenzio. Ascoltano, sembrano attenti. Saranno stuzzicati dall’argomento e lo capiranno? Chissà, a volte sì. Alcuni sì. Ma quando le cose vanno per le lunghe è quasi certo che ci sia chi si distrae, libera la fantasia, cercando di non darlo a vedere.

Secondo il nostro piano di studi, leggere, parlare, ascoltare e scrivere sono le essenze dell’espressione linguistica, le quattro abilità che «si combinano tra loro, vengono acquisite contestualmente e si rafforzano l’una con l’altra». Tuttavia la scuola è molto più centrata sulla scrittura, quella da produrre e quella da leggere. La didattica dell’italiano è prodiga di proposte interessanti in questi campi, ma è difficile trovare delle proposte strutturate e avvincenti dedicate all’espressione orale (o all’ascolto).

Non è ragionevole limitarsi al solo parlato informale, con interventi di revisione più o meno casuali e forse limitati agli errori più grossolani. Anche in quest’ambito, per contro, sarebbe più che appropriato far sì che l’allievo diventi protagonista attivo del suo apprendimento, così come si impara a scrivere scrivendo e a leggere leggendo. Oltre a ciò si consideri che l’oralità coinvolge un pubblico, grande o piccolo che sia: perché si può dialogare, presentare, discutere. Serve dunque un progetto didattico con i suoi tempi, le sue regole, i suoi contesti specifici.

Parlare bene è difficile come scrivere bene, ma non è la stessa cosa. Esprimersi davanti a un gruppo di compagni è un po’ come affrontare il foglio bianco. Prima di parlare o di scrivere è necessario prepararsi, strutturare il proprio pensiero, sapere cosa si vuole raccontare, descrivere o argomentare. Tra queste due produzioni linguistiche vi sono analogie e diversità. C’è che il testo lo puoi rivedere e cambiare prima affidarlo al lettore; mentre quando parli, se ti parte la cretinata corri un serio pericolo. Senza una didattica dell’oralità, regolare e bene articolata, è alta la possibilità che a parlare sia solo chi porta in dote quel tanto che ha imparato prima di entrare a scuola.

Serve insomma, con una certa urgenza, un nuovo impegno didattico, affinché l’espressione orale diventi un apprendimento fondamentale durante tutta la scuola obbligatoria, perché imparare a parlare in modo appropriato significa anche saper ascoltare e discutere con rispetto.

Dovrà essere una didattica che per forza di cose coinvolgerà anche l’educazione di chi ascolta. Ad esempio, l’esercizio di presentare un libro, un’immagine o un evento dovrà avere regole sue: un tempo prestabilito per la preparazione e per la presentazione, una scaletta chiara, un finale critico e formativo. Il ruolo dell’insegnante, in tutto ciò, sarà come sempre essenziale, perché toccherà a lui garantire lo svolgimento sereno dell’intervento e proporre una correzione utile al relatore e al suo pubblico.


L’articolo è stato pubblicato col titolo Lo studente protagonista con la didattica dell’oralità.

Come dare parola al pensiero

La scuola insegna fin dall’età più tenera a strutturare un testo. Ancor prima di cominciare a scriverlo – più o meno in seconda elementare – il testo richiede un senso e un’organizzazione. Quando l’insegnante della scuola dell’infanzia chiede ai suoi piccoli allievi di reagire dopo aver ascoltato una fiaba, li aiuta, con stimoli mirati e opportuni, a organizzare ciò che vogliono esprimere, passando da qualche parola-chiave a frasi semplici di senso compiuto. Bisogna cioè imparare a dare delle parole a un pensiero, a un’idea.

Negli anni successivi proseguirà un cammino di formazione lungo, difficile e appassionante. Per insegnare a raccontare un’idea, un parere o una storia non ci si può limitare a dire o scrivere le prime cose che vengono in mente, in maniera disordinata e sconclusionata. La scrittura, in proporzione col proprio grado di sviluppo cognitivo e culturale, deve mirare a un senso. Ma per avvicinarsi sempre più a questo traguardo – un traguardo che potrebbe durare per tutta la vita – è necessario che la scuola affronti il percorso col massimo degli sforzi, perché la strutturazione del pensiero ha bisogno di competenze linguistiche – l’ortografia, la grammatica, la sintassi, il lessico – e di competenze culturali, vale a dire di conoscenze e di relazioni interdisciplinari. È quindi un impegno che coinvolge tutta la scuola, non solo i docenti di italiano.

Il compito della scuola non è quello di formare scrittori, giornalisti o poeti. Ma è possibile e doveroso adoperarsi affinché a quindici anni ognuno sia in grado di esprimersi con chiarezza e rispetto delle regole linguistiche. Tutti devono raggiungere la capacità di dare valore e profondità a ciò che si vuole raccontare, descrivere, esporre, argomentare o riassumere. L’obiettivo è alto e nobile. Nondimeno, per parlare di qualcosa, occorre conoscere l’argomento. Sarà, da adulti, una responsabilità individuale. Ma la scuola deve educare alla responsabilità e all’impegno, affinché nessuno si esprima a vanvera, in modo sciatto, camuffando le proprie inettitudini o millantando conoscenze inesistenti. C’è un galateo della comunicazione, orale o scritta che sia, e ci deve essere un bon ton pedagogico.

Ad esempio, non si può accettare che gli allievi debbano svolgere dei temi a freddo, raccattando le prime idee che vengono in mente. Prima di affrontare il foglio bianco, per contro, bisogna chinarsi insieme sul tema dato o scelto: con la lettura, la discussione, il dialogo; e occorre recuperare i saperi appresi in altre discipline – la storia, le geografia, le scienze, la matematica, le arti.

Pian piano, dunque, si dovrà passare da frasi semplici a testi più complessi e strutturati, imparando a padroneggiare con la giusta misura gli strumenti espressivi e gli artifici della lingua, e a scegliere il registro linguistico più adeguato al contesto.

C’è il tempo per farlo, ma il tempo non bisogna sprecarlo. E, soprattutto in questo campo, bisogna rifiutare la logica della competizione e del posto in classifica. Bisogna aiutare gli allievi a scrivere e a pensare. Si impara con la pratica, con lo studio e con l’aiuto dei docenti. Ha scritto don Lorenzo Milani: Durante i compiti in classe [la professoressa] passava tra i banchi, mi vedeva in difficoltà o sbagliare e non diceva nulla. Io in quelle condizioni sono anche a casa. Ora invece siamo a scuola. E lì, ritta a due passi da me, c’è lei. Sa le cose. È pagata per aiutarmi. E invece perde il tempo a sorvegliarmi come un ladro.


La citazione di Don Milani è tratta da SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, 1967, Libreria editrice fiorentina, pp. 127-8