Un anno dopo la storia del jazz (v. 2001: coi “Concerti per le scuole” affrontiamo la storia del jazz) avevamo proposto un concerto che avrebbe potuto sembrare anomalo. Lo intitolammo «Ai miei nonni piace il rock», anche perché il rock di cui si è parlato includeva l’arco di tempo tra il 1955 di Bill Haley e il 1972 di Elton John, passando attraverso una decina di fermate che ci erano sembrate, storicamente e artisticamente, dei momenti significativi.
Per intenderci: in quei primi anni del XXI secolo i nomi pop più gettonati, almeno alle nostre latitudini italiche, erano quelli di Kylie Minogue, Tiziano Ferro, Raf, Anastacia, Robbie Williams, Alicia Keys, Shakira, Avril Lavigne, Eminem, Madonna… Era probabilmente ciò che ascoltava e orecchiava il nostro pubblico di quegli anni.
Tra le 47 produzioni portate in scena tra il 1998 e il 2017, questa sintesi del tutto arbitraria della storia del rock è quella che ha incassato il pubblico più numeroso: la statistica parla di 4’347 spettatori, tanto che fummo costretti ad aggiungere ben tre nuove repliche alle sei tradizionalmente previste. In questo caso, a differenza di altri, non è così difficile ipotizzare la chiave del successo: si pensi all’età che avevano gli insegnanti e alla presenza sul palco di un gruppo di musicisti ticinesi tra i più bravi e conosciuti: i nostri assidui collaboratori Giovanni Galfetti e Oliviero Giovannoni, ai quali si erano aggiunti Renato Perucchi, Mario Del Don e Fabrizio Ghiringhelli, nonché Roberto Maggini.
Purtroppo sono ben poche le produzioni di cui abbiamo conservato un documento audiovisivo. C’è comunque un certo interesse nel vedere la top nine degli spettacoli che hanno registrato un successo statisticamente significativo (è, quindi, una “valutazione” solo quantitativa). Dunque: al secondo posto c’è «Viva Mozart!» (2003), poi la fiaba musicale «La compagnia del bosco scintillante» (2004); al quarto posto «Piano pianissimo» (2002), una sfida divertente tra un pianista classico (Michele Fedrigotti sul piano a coda), un pianista jazz (Rossano Sportiello al piano verticale) e un tastierista rock-pop (Giovanni Galfetti). Ecco in seguito l’«Incontro con Johann Sebastian Bach» (1999), che segnò il definitivo addio alle scene di uno dei più importanti attori svizzeri, Hannes Schmidhauser. In sesta posizione troviamo «Ludwig van Beethoven» (2004), seguito da un’altra fiaba – «La barba magica di Natale» (2012) – spettacolo tratto dall’omonimo racconto di Simone Fornara, pure sul palco nei panni del cattivissimo Scuro Moltamorte. A chiudere la classifica «Il Natale e altro nella musica tradizionale italiana» (2009, coi Musicanti del Piccolo Borgo di Arezzo) e «Un pianista chiamato Chopin» (2007, col pianista André Desponds e la danzatrice Andrea Herdeg).
Uno dei disegni di Mario del Don, concepiti appositamente per questo spettacolo, così come le sagome dei pesci e del sottomarino protagonisti, in teatro, di Yellow submarine.
L’articolo sottostante è apparso sul Corriere del Ticino di martedì 6 febbraio, nella rubrica L’Opinione, col titolo «Locarno senza la bandiera europea».Vi sono naturalmente dei risvolti educativi, in questa vicenda sconfortante, che è però figlia dei tempi irresponsabili che stiamo vivendo.
A tanti politici locali piace evocare l’ Esprit de Locarno nei momenti topici. In quel 1925 il sindaco di Locarno sedeva tra i grandi dell’Europa del primo dopoguerra, con Austen Chamberlain, Gustav Stresemann, Aristide Briand e altri politici provenienti dal Belgio, dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia e dall’Italia.
La soppressione di un atto simbolico – l’esposizione della bandiera europea per la festa dell’Europa – non è educativamente neutra. Invece mette in risalto l’ipocrita autarchia di maniera di tanti ticinesi e svizzeri, che naturalmente non si spinge fino all’auto-isolamento in materia economica.
Scandalizzano i tempi e la circospezione, nonché l’indifferenza dei più, dopo che la notizia è venuta a galla. A ciò si aggiunga che, con buona probabilità, gli autori di questa meschinità e tanti loro ammiratori avevano sostenuto la «nuova» educazione civica come disciplina a sé stante nella scuola ticinese e si erano spellati le mani per applaudire l’obbligo di insegnare il Salmo svizzero: come diceva quello là, A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.
Locarno senza la bandiera europea
Da quest’anno la Città di Locarno non esporrà più la bandiera europea per la festa dell’Europa. Ne ha dato notizia questo giornale nella sua edizione di lunedì scorso. La decisione è stata presa a maggioranza dal municipio cittadino, che ha modificato l’ordinanza concernente il protocollo. Ha scritto il Corriere: «Ma quali sono i motivi che hanno portato il Municipio a questa decisione? Forse che Locarno si senta meno europea di un tempo? Impossibile ricevere una risposta. Anche perché l’Esecutivo, sebbene la modifica sia stata pubblicata in questi giorni, ne aveva discusso – adottando una specifica risoluzione – due anni fa». Perché tutto questo riserbo e tanto ritardo nell’informazione? Non si sa.
Lo stesso giorno della notizia Jacques Ducry, deputato di area progressista e presidente del Movimento Svizzera-Europa, ha reagito col dovuto sarcasmo su LiberaTV.ch, il portale diretto da Marco Bazzi: «È una decisione triste, molto triste, per una città che ha ospitato la conferenza sulla pace negli anni ’20… Una città che organizza ogni anno il Festival internazionale del Film, ricevendo crediti e personalità da tutta Europa e non solo. Una città turistica, aperta. Sono stupefatto da questa piccineria da parte del Municipio di Locarno. (…) Se non ci fossero l’Europa e gli europei Locarno sarebbe ancora un villaggio di pescivendoli!».
Dal medesimo portale è giunta la dichiarazione del municipale leghista Bruno Buzzini: «Ho portato io questa proposta – afferma – e alcuni colleghi l’hanno condivisa. Da convinto anti-europeista, ero e rimango contrario all’esposizione della bandiera sugli edifici pubblici. I motivi sono diversi: la Svizzera è ancora discriminata, essendo nella black list fiscale dell’UE, per esempio. Ma ci sono anche i mai risolti problemi di mancata reciprocità con l’Italia, con gli accordi che continuano a slittare…». Patapunfete, perché i motivi citati da Buzzini c’entrano come i famosi cavoli a merenda, dal momento che la Festa dell’Europa, di cui si parlava nella vecchia ordinanza sul protocollo, è per la Giornata del Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale che promuove la democrazia, i diritti umani, l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa: Consiglio al quale la Svizzera ha aderito sin al 1963.
Resta il fatto che per raggiungere la maggioranza, al municipale leghista se ne devono essere aggiunti almeno altri tre. Certo, la collegialità merita grande rispetto. Ma non vorrei essere nei panni del sindaco di Locarno quando, come da consolidata tradizione, interverrà ufficialmente all’apertura della 71ª edizione di Locarno Festival – edizione che, per uno scherzo del destino, aprirà il sipario il giorno della Festa nazionale. Come ha evidenziato Ducry, «Gli argomenti di Buzzini sono dunque completamente strampalati! Un po’ di cultura non guasterebbe per un municipale della città della cultura».
Cos’altro aggiungere al fragoroso silenzio dei politici locarnesi (e della stampa)?
Ho parlato più volte, in questo blog, dell’importanza che la scuola, già a partire dai primissimi anni della scuola dell’obbligo, proponga regolarmente dei momenti di fruizione artistica e culturale, partendo ad esempio da un quadro, da un romanzo, da una poesia, da una musica…
Nei mesi scorsi ho potuto recuperare il video di un bel concerto-spettacolo del 2001, proposto nell’ambito dei «Concerti per le scuole» che ho organizzato e continuo a organizzare a partire dal dicembre del 1998, con tante collaborazioni a geometria variabile.
Nelle proposte per ogni edizione non mi sono mai presentato con la puzza sotto il naso – basta scorrere l’elenco delle tante edizioni per rendersene conto.
Con «Tutti quanti voglion fare jazz!», titolo scippato ai famosi «Aristogatti» della Walt Disney Productions, abbiamo voluto tentare una spiegazione di cosa fosse il jazz, attraverso uno spettacolo divertente e pieno di ottima musica dal vivo. A dire il vero il jazz aveva già fatto capolino in due occasioni precedenti, nel ’93 e nella primavera del ’98, quando i Concerti muovevano i primi passi con la regia dell’Accademia Vivaldi. Stavolta, però, volevamo andare oltre, con qualche velleità “didattica”.
Un amico di lunga data, Primo Mella, era un jazzista per passione. Quel poco che so del jazz e della sua storia lo so grazie a lui e alla sua voglia di fare proselitismo, tanto che una volta, quando insegnavo ancora nella scuola elementare, lo invitai in classe. Arrivò armato di passione, con un pacco di storici vinili sotto il braccio e una gran voglia di raccontarci tutte le vicende del jazz. Fu un pomeriggio indimenticabile.
Tuttavia, qualche anno prima, con la scomparsa della moglie, aveva troncato col jazz e con le esibizioni pubbliche, preferendo lo studio della chitarra classica, che esercitava strettamente a casa sua, in un ambiente intimo e contemplativo. Lo chiamai lo stesso per farmi dare una mano. Ci incontrammo in un bar vicino al suo ufficio e gli esposi l’idea: raccontare la storia del jazz al nostro pubblico di ragazzini della scuola dell’infanzia e di quella elementare. Pochi giorni dopo arrivò da me con un progetto tratteggiato a penna su un foglio, con una chiarezza che solo chi conosce bene la materia può permettersi.
Coinvolgemmo alcuni grandi musicisti locali – Oliviero Giovannoni e Danilo Moccia – coi quali avevo già collaborato, poi due attori – Nancy Fürst e Emmanuel Pouilly, anch’essi “vecchie” e fidate conoscenze. E, naturalmente, Giovanni Galfetti, musicista e docente di educazione musicale alla scuola Magistrale. Grazie ai contatti della coppia Moccia/Giovannoni completammo l’organico della nostra orchestra con un gruppetto di musicisti italiani di varie età ed esperienze: Luigi Tognoli, Alfredo Ferrario, Lalo Conversano e un giovanissimo Rossano Sportiello.
Lo spettacolo fu presentato al Teatro di Locarno il 5/6 aprile 2001. Sull’arco di sei repliche fu applaudito da poco meno di 2 mila 800 spettatori, allievi delle scuole dell’infanzia, elementari e speciali del Locarnese, coi loro insegnanti. Per l’occasione chiedemmo al Servizio di educazione ai mass media del Centro Didattico Cantonale di realizzare una registrazione dello spettacolo.
Ancor oggi faccio fatica a capire come mai l’incontro della scuola con una qualsiasi manifestazione artistica resti troppo spesso una pausa episodica, una specie di ricreazione pedagogica, che in pochi si sognano di approfondire e di considerare come un possibile punto di partenza per accendere altri interessi, altre conoscenze, altre emozioni.
Nei primi anni dei Concerti l’Accademia Vivaldi, che li aveva ideati, preparava una copiosa documentazione, affinché gli insegnanti che iscrivevano i loro allievi agli spettacoli potessero prepararli e – perché no? – pianificare qualche attività successiva. Ma, per lo più, questo sussidio non funzionava.
È anche per questo motivo che, con la XIV edizione, imboccai la via del concerto-spettacolo, cioè un modo per porgere la musica in un contesto teatrale. In occasione del concerto del dicembre 1999 – «Incontro con Johann Sebastian Bach», interpretato da quel grande attore che è stato Hannes Schmidhauser – con Giovanni Galfetti registrammo un CD intitolato Duemila anni di musica, una stringata storia della musica che dal Bach eseguito da Jon Lord ci porta a Monteverdi e al canto gregoriano, passando a ritroso dai grandi nomi della storia della musica.
Così per lo spettacolo sul jazz, scrissi una storiella insieme a una maestra e aggiunsi le scelte musicali di Oliviero Giovannoni, Primo Mella e Danilo Moccia. La voce narrante fu affidata a Beppe Vedani, per gentile concessione della RSI, mentre l’edizione fu curata dal compianto Giovanni Cleis (UndoStudio 2001).
Mi piace proporne alcuni minuti, dalla scoperta dell’America a «Insomma, era nato un nuovo genere musicale, che si chiamava jazz!».
Sono certo che questo racconto e il contenuto del concerto-spettacolo avrebbero potuto offrire tantissimi spunti per fare cultura a scuola e per creare nuova conoscenza, storica e civile, tanti sono i temi correlati.
Ma il condizionale è d’obbligo.
P. S.: grazie a questo progetto, Primo Mella tornò al suo primo, grande amore musicale.
Mai come oggi termini come razza, razzista e razzismo sono diventati così frequenti nei dibattiti e nelle dichiarazioni (non solo) dei politici: dai grandi quotidiani giù giù fino alle moderne osterie – che in questi anni sono diventate i famigerati social, senza scordare l’esemplarità dei commenti sconnessi e fuori controllo che infestano un gran numero di portali e di edizioni online dei grandi media. Ma è difficile trovare qualcuno che acconsenta a definirsi razzista. Nessuno lo è, razzisti sono gli altri.
L’ultimo caso è rappresentato da quel candidato della Lega che ambisce a governare la regione Lombardia. Così titolava HuffingtonPost Italia: «Troppi migranti, razza bianca a rischio». Poi corregge il tiro: «È stato un lapsus». Ma, per difendersi, aveva citato nientepopodimeno che la Costituzione italiana. Ancora l’HuffingtonPost: Attilio Fontana colpisce ancora. Nonostante consideri “inopportune” le sue parole di ieri sulla “razza bianca a rischio” per l’invasione dei migranti, il candidato del centrodestra in Lombardia insiste sul tema. “Dovrebbe anche cambiare la Costituzione perché è la prima a dire che esistono le razze”. Il riferimento è all’articolo 3 della Costituzione italiana: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Le style est l’homme même, avrebbe chiosato Georges-Louis Leclerc de Buffon, il naturalista del XVIII secolo che ha influenzato gli evoluzionisti del secolo successivo. Insomma, uno che di razze se ne intendeva.
Nel ’72 Giorgio Gaber cantava: In Virginia il signor Brown era l’uomo più antirazzista. Un giorno sua figlia sposò un uomo di colore. Lui disse «Bene!», ma non era di buon umore. Il ritornello, tra una situazione e l’altra, fa così: Un’idea, un concetto, un’idea / finché resta un’idea / è soltanto un’astrazione. / Se potessi mangiare un’idea / avrei fatto la mia rivoluzione. E c’è pure una premessa: È cambiarsi davvero, è cambiarsi di dentro, che è un’altra cosa. [Giorgio Gaber, “Un’idea”, dall’album «Dialogo tra un impegnato e un non so», 1972].
È difficile far cambiare opinione a un adulto che s’è fatto un’idea zootecnica della specie Homo sapiens, quand’è chiaro che non esistono razze umane. Da qualche parte qualcosa non ha funzionato a dovere nell’educazione di tante persone, che son venute su così, con le loro certezze, come quelli che credono che la terra è piatta, che i castelli sono infestati dai fantasmi, che l’astrologia è una scienza e che i regali di Natale li porta Gesù bambino; e prima i nostri, che è una versione aggiornata e allargata del vecchio donne e buoi dei paesi tuoi.
Se, come detto, è quasi impossibile far cambiare certe idee a un adulto, bisognerebbe invece darsi da fare per l’educazione dei cittadini di domani – mi riferisco, per intenderci, ai ragazzini che frequentano la scuola dell’obbligo, ma anche a studenti e apprendisti delle scuole medio-superiori e professionali. Oggi non sono più sufficienti la lettura di «storie esemplari» o i pistolotti moraleggianti che fanno il verso, attualizzandolo, al Cuore deamicisiano. I predicozzi, magari tolti dal fondo dei cassetti quando succede “qualcosa” che va oltre la ragazzata, mettono in pace le coscienze del sistema scolastico, ma servono a poco. Sono strategie che forse potevano funzionare per educare i figli del secondo dopoguerra, che crescevano in una società per molti versi meno caleidoscopica di quelle venute dopo, e che, soprattutto, sentiva da più parti le storie vere, molto vicine nel tempo, del nazismo e del fascismo, di Hitler e di Mussolini, dell’olocausto e delle bombe atomiche sganciate sul Giappone.
Invece è importante che il discorso prenda le mosse da basi scientifiche, ad esempio spiegando che la specie Homo sapiens fa parte della famiglia degli Hominidae, assieme agli oranghi, ai gorilla, agli scimpanzé e agli australopitechi – quest’ultimi ormai estinti da un po’.
Oggi la divulgazione scientifica ha assunto un’enorme importanza formativa e sarebbe utile che entrasse sempre più nella scuola. Gli esempi sono numerosi. Dato che sono partito dal discorso sul razzismo ho scelto di segnalare due lavori che hanno una base scientifica molto complessa, ma che, sul piano della divulgazione, offrono degli spunti che dovrebbero toccare da vicino la nostra sensibilità.
Ellaha, giovane curda. Immagine da YouTube, Let’s Open Our World
C’è un bell’esperimento, riassunto in un emozionante filmato presente in YouTube, cinque minuti avvincenti. È stato chiesto a 67 giovani provenienti da tutto il mondo di fare un test del DNA. Hanno scoperto di avere molto più in comune con altre nazionalità di quanto avrebbero mai pensato. In quei cinque minuti di questa sintesi ci sono momenti divertenti e altri emozionanti.
Ad esempio, seguiamo il dialogo dei due ricercatori con Jay, un giovane inglese.
JAY. Sono fiero di essere inglese, la mia famiglia ha servito nell’esercito, abbiamo difeso questo paese e siamo stati in guerra. Sì, penso che il mio sia il miglior paese del mondo, in tutta onestà. Quindi so di essere inglese. I miei genitori e i miei nonni mi hanno detto che sono inglese, perciò non vedo bene altre opzioni, devo per forza essere inglese.
RICERCATORE. Secondo lei, che cosa la rende inglese?
Il fatto di essere nato in Inghilterra. Il fatto che i miei genitori siano nati in Inghilterra. Il fatto che mia nonna e mio nonno siano nati in Inghilterra. [Mostra una foto dei nonni.] Entrambi sono stati nell’esercito, come dicevo, tutti e due in marina, la Royal Navy. Io in mezzo, con mio fratello maggiore a sinistra e mio fratello minore a destra.
Pensi ad altri paesi e ad altre nazionalità del mondo; ce ne sono alcune con cui pensa di andare d’accordo o che non le piacciono molto?
La Germania, sì, non mi piacciono i tedeschi.
Perché mai?
Eh, probabilmente deriva dai miei genitori e dai mei nonni, probabilmente risale alla guerra.
Che ne direbbe di intraprendere un viaggio basato sul DNA?
Che cosa potreste dirmi che non so già?
Sa come funziona il DNA? Ne riceviamo metà dalla mamma e metà dal papà, il 50% da ciascuno di loro, e loro ricevono il 50% dai loro genitori, e così via indietro nel tempo. E tutti quei frammenti dei nostri antenati fanno di noi la persona che siamo.
Dovrebbe sputare in questo tubo, lo riempia di saliva fino alla lineetta nera. Bene, la sua storia è in quel tubo. Che cosa ci dirà?
Dirà che sono inglese, come vi ho già detto.
Due settimane dopo i due ricercatori incontrano il gruppo di giovani che si è prestato per questo esame. Ogni giovane riceve un grafico con la sua stima etnica: provenienza geografica e percentuale.
Jay, può scendere e raggiungerci? È pronto?
Non proprio, ma ormai sono qui, perciò…
Gli viene consegnata la busta coi suoi risultati.
(Sorride e sospira). Irlanda 55%, Gran Bretagna 30%, 5% tedesco e 5% turco… Ci avete infilato anche la Turchia solo per farmi arrabbiare? Germania… Oddio… Germania. Vi avevo detto che non avrei voluto essere tedesco o turco e ci sono entrambi, quindi… È un po’ uno shock scoprire da quanti paesi provengo.
Non è solo Jay dall’Inghilterra, vero?
Sì, sono Jay da tutti i paesi, a quanto pare.
Immagine da YouTube, Let’s Open Our World
Allora, le piacerebbe visitare tutti questi posti?
Per restare al tema delle razze e del razzismo, segnalo, tra i tanti, la ricerca che sta conducendo la prof. Anna-Sapfo Malaspinas, attualmente docente all’Università di Losanna. Specialista in biologia computazionale ed evolutiva, è interessata alla genetica delle popolazioni, in particolare partendo dall’analisi del DNA di popolazioni scomparse.
Tra l’altro la rivista rimanda a un progetto didattico concreto, scaturito dai lavori della prof. Malaspinas, una pièce teatrale per grandi e piccoli – Génome Odyssée – Un viaggio teatrale al cuore della scienza e delle tradizioni aborigene – che è stato presentato al museo etnografico di Ginevra nell’autunno scorso e che resterà al Musée de l’homme di Parigi fino al 27 gennaio prossimo.
Sono solo due esempi tra i tanti. Oggi la divulgazione scientifica è praticata da specialisti di grande bravura e sa porgere temi complessi con grande fascino. Attraverso il ruolo insostituibile dei maestri, è importante trasmettere queste passioni per superare ogni forma di pensiero magico: perché la conoscenza è una cosa seria e dev’essere possibile, nella scuola, occuparsi di problemi complessi per il solo piacere di conoscere e di accrescere il proprio bagaglio culturale.
Il tempo delle opinioni importanti, quelle che guidano il cittadino quando deve prendere delle decisioni o esprimere dei pareri, verrà più in là. Ma sarebbe conveniente imparare sin dall’età più tenera che le verità scientifiche non sono convinzioni personali, magari dei semplici pregiudizi, o peggio il risultato di una votazione. La scienza non è una mera questione di maggioranze e minoranze – ne sanno qualcosa quegli scienziati, che un tempo erano pure filosofi, incappati nelle ire dei poteri dell’epoca, perché le loro scoperte mettevano in dubbio le credenze dei contemporanei. Insomma, la terra non solo non è piatta, ma addirittura gira attorno al sole, e non il contrario.
Ai primi di dicembre i mass-media hanno riferito diffusamente di una ricerca commissionata dal DECS al Centro di ricerca sui sistemi educativi del DFA: «Lavorare a scuola. Condizioni di benessere per gli insegnanti». Ha riassunto il committente: «L’8% dei docenti presenta sintomi di gravità media o elevata da esaurimento legato alla professione (burnout)». I dati dicono che l’80% dei docenti non sta rischiando lo sfinimento, mentre quell’altro 20%, mica un’inezia, è a livello di guardia. «Solo pochi docenti – continua il comunicato – presentano sintomi di gravità media, e una minima parte di gravità elevata». Sui motivi che innescano il burnout, la ricerca menziona «l’accresciuta diversificazione dei compiti, l’aumento della responsabilità educativa e il peggioramento dell’immagine della professione diffusa a livello sociale». Cosa fare coi dati emersi non è naturalmente un problema dei ricercatori, anche se Luciana Castelli, responsabile del progetto, ha tenuto a gettare acqua sul fuoco attizzato da qualche catastrofista. Ad esempio il portale tio.ch titolava: «550 docenti sono ‘sfiniti’ e temono per il loro futuro nelle scuole». Giustamente la ricercatrice ha precisato che si tratta di una quota contenuta, che non deve inquietare, benché non sia da trascurare.
Come ogni ricerca ben fatta, anche questa dà qualche risposta e stimola nuove domande. Si sa che la storia personale di ognuno ha a che fare con la decisione di scegliere cosa si vuol fare da grande. È vero che il caso gioca le sue carte, ma a volte sarebbe interessante conoscere quali erano i motivi della scelta e le attese. Per restare ai docenti, ci sarà chi, magari per belle esperienze di volontariato con bambini e ragazzi, ha voluto trasformare l’episodio in professione. Ci sarà chi è stato incitato da motivi etico-politici, per contribuire all’educazione dei cittadini di domani. E ancora, qualche insegnante di scuola media avrà voluto trasmettere alle nuove generazioni il suo amore per la matematica, la letteratura, il tedesco o l’inglese, le scienze o la geografia – senza naturalmente escludere ragioni più prosaiche: ha scritto Don Milani – ma parlava degli anni ’60 – che «quel posto ha fatto gola a tanti cui di fare il maestro non importa nulla. Se aumentate l’orario spariranno tutti». Dissento, perché fare il maestro può essere un lavoro difficile e faticoso. Ma non si può escludere che ci sia chi imbocchi la carriera magistrale per le vacanze o per il sogno di una vita in cattedra, al di là delle severe selezioni per l’entrata al DFA e dei controlli impietosi esercitati da ispettori, direttori ed esperti di materia.
Allora, ci si può chiedere, chissà se queste moderne rarità pedagogiche saranno capaci di salvarsi dal burnout? Sarebbe interessante incrociare i dati di questa ricerca con le storie di ciascuno, con le sue realtà esistenziali, le scelte di fronte alla professione e al futuro. Forse da un esame di tal fatta uscirebbero elementi di rilievo per orientare la selezione dei futuri insegnanti e, soprattutto, per munirli, sin dalla formazione di base, delle armi più adatte per blindare le proprie sensibilità, rafforzare le fragilità e forgiare insegnanti credibili per la scuola della Repubblica, donne e uomini che sappiano insegnare con grande rigore anche ai più recalcitranti, e che siano in grado di formare, con lungimiranza, futuri cittadini nel caos sociale, politico e culturale odierno – ciò che non è scontato: perché nessuno sa come sarà il mondo vent’anni dopo.
Nel sito del DFA è possibile scaricare il rapporto e la rassegna stampa.
Dai margini dell’aula: esperienza, pensiero critico e qualche nota fuori dal coro