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Piazzaparola, la letteratura per l’infanzia e uno spazio su «la Regione»

Doveva essere la tarda primavera del 2013, quando mi telefonò Raffaella Castagnola, all’epoca presidente della Società Dante Alighieri di Lugano e responsabile delle pagine culturali del Corriere del Ticino, sulle quali curavo la rubrica Fuori dall’aula, firmata per la prima volta nel 2001 e poi continuata fino al 2020.

Stavo chiudendo il mio ultimo anno scolastico come direttore delle scuole comunali di Locarno; in agosto sarei diventato un pensionato. Due anni prima la Dante luganese aveva inaugurato una nuova proposta letteraria, Piazzaparola, il cui occhiello precisava: L’arte di raccontareUn classico e voci contemporanee. Le prime due edizioni erano state dedicate a Dante e a Omero, con uno spazio riservato agli allievi delle scuole luganesi (se non sbaglio, in particolare quelli della zona Centro).

Mi chiese, senza sapere che stavo andando in pensione, di organizzare per il Locarnese le prossime edizioni di Piazzaparola per gli allievi delle scuole elementari. Diedi la mia disponibilità, chiesi la collaborazione del DFA, anche per avere un tetto istituzionale (quell’anno il direttore era Michele Mainardi), conobbi una giovane Silvia Demartini, che coinvolsi da subito – sarebbe poi diventata, negli anni a seguire, l’autrice principale dei testi di tutte le edizioni locarnesi di Piazzaparola.

Neanche tre mesi dopo quella telefonata, andò in scena al Castello Visconteo la nostra prima edizione di Piazzaparola jr, dedicata a Giovanni Boccaccio e destinata alle classi di 4ª e 5ª elementare di Locarno e Minusio: Intendo di raccontare cento novelle nel pistelenzioso tempo, con le narratrici Tatiana Winteler e Sara Giulivi, le illustrazioni di Dario Bianchi, l’accompagnamento musicale del gruppo «Greensleeves» di Paolo Tomamichel e i «Giullari dei Visconti», gruppo di studenti della Scuola Teatro Dimitri di Verscio, preparati da Oliviero Giovannoni: trattandosi dello spettacolo inaugurale merita il ricordo dei protagonisti.

Intendo di raccontare cento novelle nel pistelenzioso tempo (Giovanni Boccaccio, 2013)

Seguirono due edizioni che si svolsero per davvero nelle piazze, con gruppi di allievi che passavano da una postazione all’altra: Leonardo da Vinci nel 2014 e Publio Ovidio Nasone del 2015. Nei due anni successivi capitò di voler restare nuovamente nelle piazze, ma la meteo ci costrinse a rifugiarci dentro il Teatro di Locarno: nel 2016 Sulle tracce dell’ingegnoso nobiluomo don Chisciotte della Mancia, l’anno dopo Inseguendo l’ombra di Don Giovanni. Per ovviare al tempo che fa, da qualche anno ci siamo installati nelle piccole sale del Palacinema: Echi dal Diario di Anne Frank (2018), La vera storia del dottor Victor Frankenstein (2019), Canto di Natale (2022). Nel mezzo, a causa della pandemia, niente Piazzaparola nel 2020 e un’edizione ridotta nel 2021, con La storia di Robinson Crusoe nella corte interna del Castello; per poi tornare al Palacinema in questo dicembre 2023, con Dimezzato, inesistente, rampante: tre magnifici antenati, nel centenario della nascita di Italo Calvino.

Il barone rampante (Italo Calvino, 2023) – © Foto Marco Beltrametti

Dall’anno prossimo si vedrà, sarebbe bello poter tornare nelle piazze, ma costa un po’ di più, mentre da qualche anno parrebbe che non ci siano più soldi, neanche per Piazzaparola.

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A margine di questa edizione dedicata a Italo Calvino, il quotidiano laRegione, nellasua edizione del 18 dicembre 2023, ha dedicato un’intera pagina al tema della letteratura per i più giovani.

Far parlare la letteratura alle giovani generazioni

di Silvia Demartini, Professoressa in Educazione linguistica e linguaggi disciplinari dell’italiano presso il Centro competenze didattica dell’italiano lingua di scolarizzazione (DILS), DFA/ASP-SUPSI, e Adolfo Tomasini, pedagogista.

Nel mondo digitale la parola scritta rischia di attirare sempre meno giovani. Ma i piccoli lettori possono trovare ricchezza nei grandi classici.

La letteratura è un magico spazio in cui ritrovarsi, (ri)conoscersi, ma anche scoprire, conoscere e vivere altre vite oltre alla propria. L’ha sintetizzato a chiare lettere Umberto Eco oltre trent’anni fa: “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5’000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’Infinito… Perché la lettura è un’immortalità all’indietro” (dall’articolo “Perché i libri allungano la vita”, rubrica La bustina di Minerva, L’Espresso, 2 giugno 1991). Proprio quest’ampiezza di vedute è uno degli aspetti principali (non il solo) per cui vale la pena di avvicinare bambine e bambini alla letteratura.

Il bisogno di letteratura nella formazione delle giovani generazioni

Dell’immortalità all’indietro evocata da Eco, oggi, c’è quanto mai bisogno, anche e forse soprattutto per i più giovani. Catturati sin da molto presto nella rete e nel digitale, infatti, bambine e bambini hanno meno occasioni di accostarsi alla letteratura come ambito di esplorazione, come spazio di divertimento e di approfondimento, come palestra linguistica, come luogo in cui semplicemente passare il tempo. E anche come elemento di complessità. Una complessità, certo, che va calibrata sulla base dell’età e della maturità di lettrici e lettori, per cui l’incontro con la letteratura deve essere sfidante, ma non impossibile, onde evitare banalizzazioni grottesche o riduzioni scimmiottanti. Se affrontata nel modo giusto, proprio la sana complessità del testo letterario e dei personaggi che lo popolano continua ad avere un grande potenziale formativo, a più livelli. Basti pensare alle profonde discussioni che possono scaturire dalla lettura di un’opera non banale o alla modalità di lettura estensiva (piacevole, ma anche prolungata e non “a salti”) che richiede un bel romanzo. Per non parlare del ricco patrimonio linguistico al quale la letteratura espone, proponendolo senza “insegnarlo”.

Navigare nel “mare” della letteratura

Domanda per niente semplice, perché le risposte possono essere molte e non unanimi. Ai fini del nostro discorso va però almeno precisato che “letteratura” è tante cose; è tanti generi (dall’epica ai romanzi agli albi illustrati, per intenderci), è tanti stili, è tanti destinatari, è tante epoche, è tanti formati (in prosa e in versi): per non perdersi servono consapevolezza, preparazione e cura, soprattutto se si tratta di avvicinare certe opere a giovani ragazze e ragazzi. Perché c’è una letteratura che, a seconda delle età, va affrontata in autonomia (magari confrontandosi su di essa in gruppo, a scuola), e c’è una letteratura alla quale da “piccoli” è bene accostarsi in modo mediato, scoprendo scrittrici, scrittori e opere grazie al tramite di qualcuno che ne cura l’accessibilità. Ciò non significa forzare l’incontro con la letteratura “adulta”, ma promuovere la curiosità: con una metafora, significa offrire una scala per incentivare a fare capolino e a curiosare in un giardino bellissimo, che, più in là, ragazze e ragazzi andare a visitare completamente. E non solo: significa accostare al bello, alla ricchezza di contenuti e di parole, alla grandezza di certi personaggi; accettando anche di saper rinunciare a certe sfide, posticipandole.

Fra scuola e divulgazione: il senso dei “classici”

Che la letteratura non sia in senso stretto una “materia scolastica” è cosa nota, o dovrebbe esserlo, come dovrebbe essere altrettanto noto, però, il suo potenziale in chiave educativa e didattica. Da questo presupposto è nata l’idea (ormai dieci anni fa, nel 2013) di realizzare una proposta per le scuole elementari del locarnese nell’ambito di un evento letterario concepito per il pubblico adulto (PiazzaParola), cogliendo anno dopo anno la sfida di proporre un grande classico, o un autore/un’autrice, all’attenzione di ragazze e ragazzi di IV e V elementare. Fino al 2019 PiazzaParola si è svolto in settembre, per fornire un momento iniziale intenso, quasi rituale, che avrebbe potuto fare da detonatore di un progetto pedagogico da sviluppare durante l’anno scolastico. In tal senso già in primavera si informavano gli istituti scolastici di ciò che avremmo presentato a fine estate, fornendo anche una documentazione che poteva servire per la preparazione di allieve e allievi, e per sviluppare percorsi di approfondimento.

Questa scelta intendeva facilitare e stimolare la ricerca di quell’immortalità all’indietro offerta dai “classici”, tema che nel 2012 era stato ampliato e approfondito durante un convegno dedicato alla letteratura per l’infanzia (poi sfociato nel volume Il gatto ha ancora gli stivali? Perché leggere i classici a scuola, oggi e domani, curato a D. Corno, S. Fornara e A. Tomasini, Armando Dadò Editore, 2013).

Quella era stata l’occasione di chiedersi, per dirla con Italo Calvino, se è ancora vero che i classici continuano a parlare anche alle nuove generazioni, perché non hanno finito di dire ciò che hanno da dire. Suggestione sempre attuale, che, in questo 2023 (nel centenario della nascita di Calvino), rilanciamo proponendo una rilettura della trilogia calviniana I nostri antenati. Ormai un “classico” recente, il cui insieme di fantasia, originalità, divergenza rispetto alla normalità del mondo che ci circonda è certamente in grado di intercettare l’ “orecchio acerbo” di rodariana memoria dei più giovani.

Un rapporto dell’OCSE che premia la nostra scuola, ma non si cura dei ragazzi che la scuola perde per strada

Secondo i dati forniti da PISA 22 la scuola Svizzera e ticinese stanno bene, anzi meglio, e guadagnano posizioni nel contesto mondiale. Ma quanto vale una graduatoria dettata da un’organizzazione economica?

A inizio dicembre sono stati diffusi i risultati di PISA 2022, il programma per la valutazione internazionale dei quindicenni promossa dall’OCSE, che sarebbe poi l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico degli stati caratterizzati da economie avanzate ed elevati redditi pro capite. A ritmo triennale si misurano i livelli di competenza dei quindicenni in matematica, scienze naturali e lettura. Mica roba per tutti, insomma, ma sempre più paesi se la giocano.

In questa tornata la Svizzera e il Ticino hanno ottenuto ottimi risultati. Le prestazioni elvetiche, nel complesso, collocano la Svizzera al quinto posto, con il 19.4% di allievi molto performanti – per semplificare, gente da 5 ½ o 6 – e il 12.4% di allievi all’altro estremo della scala. Il nostro cantone contribuisce significativamente a questo successo. «In PISA 2022 il Ticino, in matematica e in scienze, ottiene punteggi medi simili a quelli della Svizzera. In lettura raggiunge un punteggio statisticamente superiore rispetto a quello della Svizzera, anche se la differenza è minima. Il Ticino si trova inoltre sopra la media OCSE in tutti e tre gli ambiti».

© Ambrosetti, A., & Salvisberg, M. (2023). PISA Ticino 2022. Centro competenze innovazione e ricerca sui sisteemi educativi.

Molto bene, quindi, soprattutto se si pensa a qualche brutto risultato dei primi anni. Nel 2003 il Ticino era finito tra gli ultimi della classifica elvetica – ed era partita la solita baraonda di reazioni più o meno scomposte. Non c’è stata testata che non se ne sia occupata: da chi metteva in dubbio la serietà dello studio (cioè: colpa del “termometro”, cioè di PISA) a chi evocava l’alta percentuale di stranieri presenti nelle nostre classi (toh?!), per giungere a chi criminalizzava i tagli finanziari di quei mesi (ri-toh?!), scordando che i risultati conseguiti dai quindicenni non si costruiscono nello spazio di un mattino: allora come oggi.

«Il Ticino si situa in cima a tutte le classifiche», ha esultato l’appuntamento informativo RSI del  Quotidiano del 5 dicembre (in versione alquanto “governativa”). Che ha poi chiesto l’immancabile commento a Emanuele Berger, grand commis del DECS: «Uno si può chiedere perché. Potremmo fare tre ipotesi: una potrebbe essere che la nostra è una scuola inclusiva, e PISA ci dice da sempre che i sistemi inclusivi hanno dei buoni risultati. Inoltre, da molti anni lavoriamo su una didattica per competenze, e PISA verifica le competenze. E la terza ragione ovviamente è l’ottimo lavoro di tutti i docenti, che contribuiscono in materia determinante e ne vanno tutti ringraziati»: una sviolinata, ma ci sta.

L’OCSE non è un’associazione di beneficienza, né una fondazione che sostiene valori umanistici. Persegue scopi economici, anche se l’aggettivo, di per sé, è neutro. Tuttavia, se i primi confronti internazionali ci avevano fatto conoscere sistemi scolastici di grande interesse – la Finlandia su tutti – negli anni a seguire si è insinuato il dubbio che PISA abbia ben altre mire: e già non siamo troppo lontani da una scuola globalizzata, che mette al centro tre discipline e crea classifiche di buoni e cattivi, grazie all’adesione di una settantina di paesi nei cinque continenti.

Tanto per fare un esempio, l’edizione 2003 di PISA aveva relegato il nostro Cantone tra le peggiori della Svizzera, che aveva raggiunto per conto suo risultati mediocri. Vent’anni fa, agli esordi del programma per la valutazione internazionale dei quindicenni, si osservava, parlando dei due paesi in vetta alla classifica, Finlandia e Corea del sud, che nel paese asiatico le ore settimanali di scuola erano addirittura più imponenti delle nostre e che la frequenza degli esami e la pressione della nota provocavano il dilagare di depressioni nervose, fino al suicidio. Per contro la scuola finlandese terminava verso le tre del pomeriggio, i famosi “test” erano pressoché inesistenti, così come le bocciature, e il tempo scolastico era riservato all’apprendimento delle discipline giudicate essenziali. Il meno che si possa dire è che, a parità di risultati, i due sistemi scolastici erano tanto diversi. Ma questi sono aspetti che non interessano all’OCSE, che si limita a spiattellare punteggi, medie e percentuali di allievi in media o significativamente molto distanti da essa – poveri cristi in grande difficoltà scolastica da una parte, precoci primi della classe dall’altra.

Che ne sappiamo dell’Estonia, oggi primo classificato dei paesi OCSE, o di Singapore, primo classificato in assoluto, davanti al Giappone e alla Corea? Nulla, o poco più. Però vediamo paesi, come il nostro, che nel frattempo hanno guadagnato tante posizioni, non senza che s’insinui qualche dubbio. Come diceva quello là, a pensar male si fa peccato, ma a volte ci s’azzecca. Eppure il dubbio che molti sistemi educativi abbiano virato sempre più verso gli obiettivi scolastici PISA è grande. Anche il sistema scolastico svizzero si è a poco a poco uniformato, dapprima, nel 2007, con l’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria; poi con i nuovi piani di studio delle tre aree linguistiche svizzere, molto vicine alle aspettative della cooperazione economica mondiale. Tutto ciò assomiglia molto, forse troppo, a quel famigerato «studiare per i test», passati i quali ci si può anche scordare ogni cosa.

Il risultato è che oggi un gran numero di stati del mondo – oltre una settantina – sta commisurando i suoi obiettivi formativi a quelli di PISA, incurante di chiedersi cosa ne sanno i quindicenni della storia del loro paese, della letteratura, della poesia, del teatro, delle arti. E non sono interessati a sondare quanto sono razzisti i quindicenni dei paesi partecipanti; che governo istituirebbero, se potessero; quale attitudine mostrano verso l’accoglienza, le dipendenze, l’ecologia, l’etica, la politica o l’economia. No, all’OCSE interessano la matematica, le scienze naturali e la lettura, e stilano classifiche che se ne fanno un baffo delle immense diversità culturali tra un paese e l’altro e delle loro ricchezze intangibili.

Siamo forse vicinissimi alla globalizzazione planetaria dei valori di educazione e istruzione degli adulti di domani, una sorta di nuova colonizzazione delle politiche: benché la ricca Svizzera, ai piani alti della classifica mondiale, perda per strada il 12% dei suoi quindicenni, inadeguati in matematica, lettura e scienze.  Diceva don Milani che «la scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde».

Scritto per Naufraghi/e

Il dato del 12% di allievi inadeguati in matematica, lettura e scienze è tratto da Résultats du PISA 2022 (Volume I), p. 25. Per contro il rapporto ticinese (Ambrosetti, A., & Salvisberg, M. (2023). PISA Ticino 2022. Centro competenze innovazione e ricerca sui sistemi educativi) indica percentuali più alte.

Nel regno del pedagogichese si diffondono i bigini

Ancora a proposito del linguaggio utilizzato per informare docenti e famiglie sugli indirizzi e gli orientamenti della scuola ticinese

Da una decina d’anni a questa parte è sbarcata anche nel Canton Ticino la Scuola delle competenze e, con essa, si è elettrizzato il pedagogichese, una lingua per descrivere la scuola, che in questo stesso sito Fabio Camponovo (Quando il pedagogichese offusca la scuola), citando Machiavelli, giudica «ripiena di clausole ample, o di parole ampullose e magnifiche».

Difficile dargli torto.

Già nel 2015 Lauro Tognola, direttore del liceo di Locarno da poco in pensione, aveva sparato a zero sul linguaggio del neonato Piano di studio. Io stesso, allora, avevo avuto occasione di annotare che  Tognola spara ad alzo zero sul Piano di studio della scuola dell’obbligo, di recente pubblicazione. Lo giudica linguisticamente nauseante, pesante, ripetitivo e zeppo di ovvietà. E cita qualche passaggio un poco astruso: la rendicontazione sociale dei risultati della produttività dell’azione scolastica o la pietra angolare intorno a cui si sviluppa la proposta curricolare, tanto per dirne un paio.

Può darsi – aveva replicato il consigliere di stato Manuele Bertoli – che il linguaggio possa qua e là apparire ostico, ma il piano di studio non è un bestseller, bensì uno strumento di lavoro per i docenti. Già.

Si è chiesto il sociologo Philippe Perrenoud: Perché la scuola è “invasa dalle competenze” quasi in tutti i paesi, sviluppati e meno sviluppati? Senza dubbio perché alcune organizzazioni internazionali, a cominciare dall’OCSE, ne hanno fatto una bandiera, e perché c’è una forma di contagio. Un paese che non si preoccupasse di accentuare lo sviluppo delle competenze potrebbe sembrare fuori moda.

I nuovi programmi, ha rilevato Gianni Ghisla (Scuola: l’equivoco delle competenze), prevedevano in origine oltre 4’500 (quattromilacinquecento!) obiettivi cosiddetti di valutazione (…). Una scuola piegata alla strumentalizzazione della conoscenza, poiché competenza è sinonimo di capacità, di fruibilità e applicabilità in situazione, di spendibilità sul mercato del lavoro. E questa è l’ombra dell’efficientismo pianificato, dell’azzeramento di tutto quanto nella scuola è semplicemente culturale, affettivo, casuale, magari anche contemplativo.

Si potrebbe aggiungere che gran parte di ciò che si fa a scuola – insegnare dei linguaggi, delle conoscenze e, secondo la moda del momento, addirittura delle competenze – si svolge in realtà in un contesto artificioso com’è quello dell’aula scolastica, che rimane da decenni sempre uguale a sé stessa. Siamo lontani anni luce da una scuola dell’esperienza e di una differenziazione concreta delle diversità che ogni allievo porta con sé all’entrata nella scuola: differenze culturali e psicologiche, perché non si nasce né si cresce tutti allo stesso ritmo e nello stesso posto.

A ciò si aggiunga che nella scuola dell’infanzia e in quella elementare gli insegnanti sono per lo più generalisti, mentre, nella scuola media, vige la rigorosa separazione tra le materie. Nei primi sette anni della scuola dell’obbligo, dunque, ci sono le maestre e i maestri che, già da prima della “rivoluzione delle competenze”, affrontano progetti didattici interdisciplinari. Nella scuola media, invece, perdura la tradizione delle professoresse e dei professori che si rinchiudono nella loro materia: una scelta che, al momento dell’istituzione della Scuola media, si era uniformata al vecchio ginnasio. Così sembra contraddittorio che il medesimo governo che ripropone a oltranza la frammentazione disciplinare della sua scuola media venga oggi a proporre modelli che comportano la collaborazione tra le discipline e i loro insegnanti, non certo famosi per la capacità di lavorare in équipe.

Osserva Fabio Camponovo, nel testo già citato, che il Piano di studi della scuola dell’obbligo ticinese rimane di difficile decifrazione per qualsiasi genitore voglia capire che cosa studia, e che cosa impara, il proprio figlio a scuola. Aggiungerei che la comprensione del documento è ostica anche per i docenti.

Ciliegina sulla torta. Da qualche settimana circola un opuscolo informativo denominato Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese: come quell’altro, insomma. È un libretto di una sessantina di pagine, coloratissimo e arioso, scritto in buon italiano, senza funambolismi gergali. Sintetizza il Piano originale, ma non si capisce bene né a chi è destinato, né perché si sta muovendo come i bigini durante gli “espe” degli anni analogici del ginnasio d’antan: sottocoperta, nessuna conferenza stampa, neanche un approfondimento del Quotidiano della nostra RSI.

Qualche maligno mormora che sia stato concepito come testo informativo per le famiglie (mica tutte, neh?!, perché sessanta pagine sono comunque tante, e quel po’ di pedagogichese è pur rimasto). Spiega l’opuscolo, per smussare il tema delle competenze, che in pratica le conoscenze vengono impiegate in una situazione concreta, reale o realistica, utilizzando risorse individuali e considerando valori personali o condivisi.

Ma non è quel che la scuola dovrebbe fare da sempre?

Scritto per Naufraghi/e

La citazione di Philippe Perrenoud è tratta da: PERRENOUD PHILIPPE, Quand l’école prétend préparer à la vie – Développer des compétences ou enseigner d’autres savoirs?, 2011: Paris, ESF Éditeur

 

Un’educazione del sentimento civico

Per non confondere, nella scuola, una pretesa educazione civica con una più appropriata educazione alla cittadinanza e alla democrazia

La pensata comune tende a ridurre l’educazione civica a quelle quattro nozioni in croce. «A livello di scuola media – ha detto Greta Gysin in un’intervista a Enrico Lombardi (Tre domande a Greta Gysin) – si impara ancora quante persone siedono in Consiglio nazionale e quante ce ne sono agli Stati: questi, in fondo, sono dei dettagli che non importano poi così tanto». Invece, continua, «bisogna far crescere la passione per la politica, quindi far capire come si discutono le cose, andare a palazzo federale, andare a palazzo delle Orsoline. Far sentire quella che è la politica, ma proprio sulla pelle, e forse così si riuscirebbe, almeno nelle persone giovani, a risvegliare un po’ di interesse, e così, in definitiva, aumentare un po’ la partecipazione».

Che bello. Ho sott’occhio l’introduzione di un testo di educazione civica di quasi cent’anni fa. «Mentre altri testi hanno cercato di procurare agli allievi molte nozioni esatte intorno all’organizzazione dei pubblici poteri e di fornire al docente un prontuario delle cose che il programma a lui richiede – sono le parole di Brenno Bertoni, autore di uno storico testo di educazione civica – io mi sono sforzato di eliminare tutti i particolari, tutte le singolarità che oggi sono e domani non sono, e forse saranno murate quando lo scolaro sarà fatto uomo. Per contro ho cercato di conseguire l’educazione del sentimento civico, coltivando nel cuore dell’allievo il naturale amore al suo paese, la naturale inclinazione al bene, il naturale aborrimento del male. Mi sono ingegnato di inspirare nell’animo del giovinetto un ideale semplice ma bello di ciò che dev’essere il suo comune, la sua valle, lo stato di cui sarà il futuro cittadino e difensore».

In realtà già l’educazione alla cittadinanza è un proposito piuttosto complesso da definire; se poi si vogliono anche raggiungere obiettivi inequivocabili, il rischio è di creare illusioni, per nascondere la solita figura da cioccolataio. Far crescere la passione per la politica, realizzare il sentimento civico, l’amore per il paese, l’inclinazione al bene e il disprezzo del male, sono fondamenti etici propri di ogni educatore che si muove nell’ambito di una società democratica. Da qui al declinare il desiderio in un percorso pedagogico con le migliori scelte didattiche il passo è sicuramente più lungo della gamba, e forse lo è sempre stato sin dai tempi del “Frassineto”.

Il Piano di studio della scuola dell’obbligo dedica ampio spazio al tema dell’Educazione civica, alla cittadinanza e alla democrazia, con il lodevole tentativo di precisarne il significato e i traguardi formativi, il modello e i traguardi di competenza, le indicazioni metodologiche e didattiche. È possibile che questo sforzo sia scaturito, almeno in parte, dalle diverse pressioni giunte allo Stato attraverso iniziative che si sono inseguite per almeno vent’anni, da quella dei giovani liberali per l’introduzione dell’ora di civica, all’iniziativa popolare «Educhiamo i giovani alla cittadinanza (diritti e doveri)», al beneplacito del parlamento per una nuova disciplina nelle scuole medie e medio-superiori e, infine, il verdetto popolare del 24 settembre 2017: 44% di votanti, 63% di voti favorevoli. 56% da educare, per farli andare appassionatamente alle urne.

Come capita spesso, un conto è raccogliere firme e marcare il territorio mandando il popolo alle urne; un altro, invece, credere per davvero che la scuola sia in grado, da sola, di raggiungere obiettivi educativi di questa portata. Che poi, a ben guardare, non c’è bisogno di una nuova disciplina scolastica con le sue brave note – brave nel senso manzoniano del termine. La Legge della scuola, per tanti versi vecchiotta e incerottata, dice tutto già col suo art. 2 dedicato alle finalità. Bisogna leggerlo bene, ricordarselo e fare sempre il possibile per realizzare pienamente quel grande progetto educativo, che si sviluppa attraverso la scuola, la famiglia e – dice la legge – le altre istituzioni educative, vale a dire quella realtà sociale e culturale in cui tutti i cittadini sono immersi: i mass media, i luoghi di studio e di lavoro, i contesti artistici, sportivi, del divertimento.

La scuola di Atene (Raffaello Sanzio, 1509-1511)

 

È lì che avviene la vera educazione civica e alla cittadinanza, e lo è soprattutto nella società di oggi, che ha caratteristiche ben diverse dalla Svizzera e dal Ticino del secolo passato: basta pensare alla moltitudine di culture che vivono e danno vita alla nostra quotidianità, svizzeri o stranieri che siano. La vera sfida di cittadinanza, semmai, è quella di riuscire a rafforzare una convivenza che non sia solo tollerante, rispettosa e laboriosa, ma che sia anche partecipativa nel senso più largo ed empatico del termine. Proprio lì, forse, ci potrebbe essere il vero punto di forza della scuola, già a partire da quella dell’infanzia. Perché è a scuola che si incontrano, convivono e devono imparare a cooperare persone che provengono dalle più diverse situazioni religiose, economiche, storiche, etniche.

Già a quattro anni si possono (e si dovrebbero!) creare dei contesti di cittadinanza, che col passare degli anni – dalla prima infanzia all’adolescenza all’età adulta – diverranno via via più consapevoli della centralità del Diritto in una società democratica. E sarà nel momento della seppur parziale consapevolezza del Diritto che si potrà cominciare a spiegare il perché di talune scelte politiche, di consessi diversi dal comune alla confederazione, di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari.

Quell’altra educazione civica che si continua a evocare è solo un insieme di nozioni più o meno vuote o incomprensibili, che non possono lottare contro l’assenteismo alle urne.

Scritto per Naufraghi/e

Riempiamo la scuola di letteratura, non di computer

A proposito di delitti e di pene nelle aule e di un recente intervento sulla scuola del filosofo Umberto Galimberti

Il portale orizzontescuola.it ha recentemente pubblicato una sorta di intervista al filosofo Umberto Galimberti, che se la prende a 360° col mondo della scuola in occasione di un’iniziativa del Comune di Modena sul tema «Prendersi cura delle nuove generazioni: la scuola va in città», una tre giorni di conferenze e seminari con pedagogisti, scrittori e urbanisti. Cari professori, dovete riconoscere se avete un interesse vero per l’insegnamento o se invece è un ripiego, afferma Galimberti: un argomento che aveva già solleticato un altro filosofo, Karl Popper. Sono stato un insegnante – aveva detto durante un congresso – e mi sono sempre molto interessato alla riforma scolastica, una riforma tremendamente semplice, ma difficile da realizzare. Basterebbe consentire a ogni insegnante che trovi di aver sbagliato mestiere di uscire dalla scuola senza alcun svantaggio economico o di altro tipo. C’è molta gente nella scuola che ha sbagliato mestiere, ma non si può essere un bravo insegnante senza amare seriamente la professione.

Tra tutti i temi toccati dall’illustre filosofo – autore, peraltro, di un bel libro: Perché? 100 storie di filosofi per ragazzi curiosi (Feltrinelli, 2019) – ce n’è uno che mi interessa particolarmente, quello delle punizioni a scuola, una sorta di codice penale che si manifesta con una gamma che va dal rimbrotto alla sospensione: sanzioni che fanno parte del “profilo identitario” della scuola stessa, benché sia difficile capire a quali condizioni sia anche utile, educativo, soprattutto laddove il «reo» non riconosce il progetto della scuola e, dunque, non vi aderisce.

Cosa fa la scuola con i bulli?, si domanda Galimberti. Li sospende. Mi ero occupato anch’io di questo tipo di sanzione. L’occasione era stata una decisione del Gran Consiglio zurighese, che, chiamato ad esprimersi sulle sanzioni da adottare nei confronti degli scolari più indisciplinati, aveva inasprito le norme sull’espulsione, spostando il periodo massimo da quattro settimane a tre mesi. Per la cronaca: la scuola media ticinese contempla nel suo «dei delitti e delle pene» la sospensione dall’insegnamento o dalla scuola fino a dieci giorni (o anche più, quando il comportamento di un allievo pregiudica manifestamente la regolarità della vita scolastica).

Avevo scritto in quell’occasione che «paradossalmente il fatto di allontanare un allievo dalla scuola perché la prende a calci finisce col rendergli un favore e magari creargli l’aura di eroe di fronte ai suoi pari. Certo, la classe ritroverà un po’ di tranquillità; nel contempo l’espulso dedurrà che la frequenza non è poi così importante e costruirà egli stesso la sua scuola: quella dell’arte di arrangiarsi che, in condizioni estreme di esclusione sociale (e assai spesso, in questi casi, familiare), può facilmente spianare la strada verso la criminalità. E allora? Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se il rimedio non potrebbe risiedere in un intelligente supplemento di scuola, proprio per evidenziarne l’importanza. Rompi le scatole durante la lezione di scienze, ti dai al turpiloquio e fai lo scemo, insulti l’insegnante e – perché no? – lo aggredisci fisicamente? Va bene. Ti condanno a seguire un corso parallelo di filosofia, di letteratura, di storia, di diritto e di storia dell’arte. Non ti farò esami e non ti darò note, non sarà un corso che avrà ricadute dirette sulla pagella. Però, ragazzo mio, ti obbligherò a stare un po’ di ore sui libri, ti farò scrivere e pensare, discuterò con te, cercherò di capire da dove vengono la tua avversione e il tuo odio. Il tutto potrebbe durare anche più dei tre mesi della sospensione; ma, come minimo, non sarai stato in giro a oziare e a delinquere».

È un po’ quello che ha scritto anche Galimberti: Bisogna tenerli a scuola, i ragazzi, e insegnare loro i sentimenti. I sentimenti non sono qualcosa di innato, sono un fenomeno culturale, cioè si imparano. S’imparano con la letteratura. La letteratura insegna l’angoscia, il coraggio, la noia, il suicidio, la gioia. Allora riempiamo la scuola di letteratura, non di computer. La scuola deve occuparsi di formazione dell’uomo. Un competente che non ha tratti umani a che serve?

Oddio, bisogna pur dire a chiare lettere che i “castighi” scolastici, di cui la sospensione è il grado più terribile del disprezzo delle regole, non è l’unico modo per emarginare un alunno o escluderlo del tutto. E certamente non è il più diffuso. Perché ci sono pratiche che, in tanti casi, si ripetono giorno dopo giorno e, per finire, convincono la ragazza o il ragazzo della propria inadeguatezza. Sono situazioni che, per lo più, avviliscono gli studenti, che non sempre hanno la lucidità per migliorare la loro situazione scolastica. Ma in altri casi sfociano in bullismi e cafonate di vario genere.

Se la scuola è una cosa seria, tanto vale essere conseguenti e credere fermamente che nessuno possa essere condannato a priori. La scuola pubblica deve educare e integrare, invece di decretare l’emarginazione di chi, solitamente, emarginato lo è già.

Scritto per Naufraghi/e

Note

KARL POPPER, “La ricerca di un mondo migliore”, in Nuova civiltà delle macchine – Rivista trimestrale di analisi e critica, Anno II, n° 3 (7), Estate 1984 | Atti del convegno «1984: comincia il futuro», 3/5 maggio 1984 a Locarno

La mia ampia citazione è dall’articolo Quando la scuola non sa più che pesci pigliare (Corriere del Ticino, 28.05.2011).