Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

È già di nuovo tempo di auguri

Ohibò. Mi sono preso la briga di andare a rileggere cosa avevo scritto esattamente un anno fa. Lasciamo perdere. Tra qualche giorno le testate più varie e variegate cominceranno gli amarcord dell’anno testé trascorso.

Oggi volevo giocare a Facciamo che io ero… Gianni Rodari (figuratevi!). Così ho iniziato a comporre una filastrocca:

Quest’anno che tra poco finirà / è partito giusto giusto un anno fa. / E quell’altro che s’avvia di venerdì / sarà vecchio da qui a un anno o giù di lì.

Poi, ovviamente, mi sono fermato, e non solo perché io non sono Gianni Rodari.

Ma, insomma!, gìrala, vòltala e pìrlala, siamo sempre al punto di partenza. Da oltre due secoli c’è la scuola pubblica e obbligatoria, oltre a quell’altra che viene prima o dopo. Ma il boccino è sempre in mano ai soliti noti, e non c’è verso che lo mollino, al di là della democratizzazione degli studi, delle pari opportunità, della partecipazione delle tante componenti attive o passive (o neutre), e via elencando: tanto a smenarci son sempre i soliti poveri cristi. Il sistema, per loro, non prevede vie d’accesso ai piani alti della piramide meritocratica, ma solo percorsi di guerra.

L’ho scritto più volte, citando il professor Walo Hutmacher: «Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé» (Éducateur, febbraio 2012). Non so come bisognerebbe fare. Si potrebbe cominciare dalla scuola dell’obbligo, che dovrebbe essere un luogo in cui gli insegnanti insegnano e gli allievi si sentono al sicuro. Come dice un vecchio proverbio, sbagliando s’impara, ma non è giusto che gli errori siano puntualmente puniti. Ha scritto Aristotele, nel libro II dell’Etica a Nicomaco: «Le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole». È il principio di ogni insegnamento e di ogni apprendimento. Solo certa scuola riesce a farsene un baffo, a fingere che non è così.

Insegnare è un mestiere difficile e faticoso.

© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Broad Peack, al confine tra Cina e Pakistan, nella catena del Karakorum (8047 m s/M).
© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Broad Peack, al confine tra Cina e Pakistan, nella catena del Karakorum (8047 m s/M).

Lor signori, per citare il mio amato Fortebraccio, trovano sempre il modo per schivare l’oliva. Una volta è la meritocrazia, madre di tutte le politiche educative, e un’altra i soldi, che se non ci sono non è mica possibile fare le necessarie e ineludibili riforme. Concordo con Alex Farinelli, quando scrive, citando il compianto Giuseppe Buffi e rivolgendosi al ministro dell’educazione, che è troppo facile chiamarsi fuori…

Ora ci sono i nuovi piani di studio, armonizzati da Oberbangen nel Canton Sciaffusa a Pedrinate quaggiù in Ticino, da Chancy nel Canton Ginevra a Müstair nei Grigioni. Là fuori Germania, Italia, Francia e Austria.

E nel tempo d’uno sbatter di palpebre ecco a voi, elettrici ed elettori, La Scuola Che Verrà, a condizione che ci siano i soldi.

È una storia che sentiamo ormai da tanti, troppi anni. C’è sempre un alibi, un dito dietro il quale nascondersi.

Mi spiace, davvero, ma questi non sono tempi che inducono all’ottimismo. L’anno che stiamo per lasciarci alle spalle è iniziato a Parigi, il 7 gennaio, ed è terminato nuovamente a Parigi il 13 novembre.

Tra qualche giorno comincerà il nuovo anno. Non sembra che vi siano troppi motivi per brindare. Così riprendo pari pari gli auspici di un anno fa. Tanti tanti auguri a tutti quelli che, per scelta o per caso, conosciuti o sconosciuti, visitano questa mia piazzetta virtuale; e poi, magari, sorridono, annuiscono o smoccolano come si deve. Grazie, qualunque sia la reazione.

© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Dhaulagiri, la Montagna Bianca (Nepal, catena dell’Himalaya, 8167 m s/M).
© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Dhaulagiri, la Montagna Bianca (Nepal, catena dell’Himalaya, 8167 m s/M).

Un’etica per la scuola e una deontologia per gli insegnanti

Al di là di un certo fervore riformista e d’un dinamismo concitato, sembrerebbe che mai come oggi la scuola sia avvolta da una nebbia fitta, che impedisce di intravedere il cammino da percorrere. Da diverso tempo, ormai, si fa fatica a trovare il filo del discorso, a capire se la scuola sia (ancora) al servizio del Paese, nel difficile progetto di educare futuri cittadini democratici, cólti, dotati di spirito critico, amanti del bello e del rispetto; oppure se la precedenza sia assegnata all’economia e alla produttività, con lo sforzo di fornire le necessarie competenze e, nel contempo, orientare e selezionare i lavoratori di domani. Ma la scuola non è un’impresa, nell’accezione economica del termine. In nessun caso, anche se la condivisione è sempre più vaga e sfilacciata, la scuola deve produrre utili immediatamente spendibili, al di là degli slogan un po’ logori sull’educazione come investimento per il futuro: perché bisognerebbe mettersi d’accordo sulle sue finalità, dato che le mie, per dire, sono diverse da quelle del CEO di una qualsiasi impresa «too big to fail».

Ridotto all’osso, è forse questo il quadro generale che ha indotto il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI e l’Istituto universitario federale per la formazione professionale a organizzare, lo scorso 25 novembre a Locarno, il convegno di studio intitolato «Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico per l’insegnante?». In un’aula magna gremita, il tema è stato trattato da alcuni punti di vista essenziali. Il filosofo Fabio Merlini ha esposto i quesiti del convegno, muovendo, in particolare, dalla sempre più debole legittimazione sociale della scuola, per chiedersi se non sia necessario e urgente riconoscersi in un’etica condivisa. Dick Marty ha proposto una testimonianza su etica e società, con una conclusione ovvia quanto per nulla scontata: i cittadini consapevoli, con un’alta tensione etica, devono essere formati, perché consapevoli non si nasce.

Eirick Prairat, docente di filosofia dell’educazione all’università della Lorena, ha affrontato il tema con un accenno specifico alla funzione moralizzatrice dei docenti, che sono al servizio di una cultura per la costruzione della cittadinanza. Silvano Tagliagambe, filosofo ed epistemologo, ha messo a fuoco il codice deontologico dell’insegnante, sottolineando alcuni vincoli, che rappresentano confini chiari e ineluttabili: imparare è un processo lento, che non ammette scorciatoie, e l’insegnante deve avere la capacità di prendersene cura e di coltivare invenzione e creatività, dentro un sistema formativo aperto e dinamico, tenendo costantemente presente che la scuola è anche il luogo del dialogo tra generazioni diverse. Infine Marcello Ostinelli, docente-ricercatore al DFA, si è soffermato sull’ambiguità di quel ruolo, sempre in bilico tra valori interni, determinati dalle caratteristiche intrinseche della professione, e valori esterni, ricavati dall’interpretazione personale del contesto sociale e politico entro cui si esercita la professione.

È stato un convegno di elevato livello. Ora è necessario che non restino solo quello e gli atti che sono stati promessi. È importantissimo rilanciare l’etica per la scuola, che non può toccare solo docenti e dintorni, ma deve interessare l’intera nostra società, compresi quei politici che, ogni tanto, pur sapendo solo pressappoco di cosa stanno parlando, riescono ad approvare leggi inutili e a volte pure dannose. Fermarsi ora, infatti, non sarebbe eticamente accettabile: sarebbe come gettare il convegno alle ortiche.

Così parlò Manuele Bertoli: «Se le mie risposte infastidiscono, basta non leggerle»

È inutile cercare scuse: forse sono l’unico sciocco che s’è accorto con ritardo bernese che il Consigliere di Stato direttore del Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport – insomma, del DECS – aveva commentato il mio articolo «Le proposte del ministro su HarmoS e il Piano di studi», apparso sul Corriere del Ticino del 2 novembre scorso.

Eppure è stato lesto, il nostro Ministro: ha commentato il giorno stesso, sul portale denominato Ticino Libero.

Detto di transenna: il web è affollato di “Ticini”. C’è quello online e c’è quello news, senza contare le libere TV e tanti altri. Ora ho scoperto, appunto, Ticino Libero, che, dal nome, sembra un pochettino leghista, ma solo un po’. Se ne sentiva la mancanza.

Per tornare a bomba: Manuele Bertoli ha dichiarato che da quando dirige il DECS e risponde pubblicamente alle critiche più o meno fondate sui temi di sua competenza che legge dai media, osserva che, curiosamente, spesso le sue risposte dànno fastidio. Pare, stando al portale, che Bertoli ’ste cose le abbia scritte sul suo sito. E precisa: «La cosa è bizzarra, poiché mi pare naturale che rispondere faccia parte del mio mandato. Lo è ancor di più se il fastidio verso la risposta si fonda sulla rapidità di reazione, quasi come se rispondere subito sia sintomo di qualche problematicità». E poi aggiunge, stando sempre al libero portale: «Porre delle questioni pubblicamente è più che legittimo e rispondere mi pare il minimo, almeno per chi è interessato a un vero dibattito. Se poi le mie risposte infastidiscono, basta non leggerle». In definitiva, però, si limita e manifestare il suo fastidio, senza entrare nel merito delle osservazioni, alla faccia del dibattito.

Anche se, figuriamoci, il Ministro non deve mica rispondere a me, casomai al Paese.

Naturalmente non mi ha sconvolto il fatto che un Consigliere di Stato abbia replicato ai miei appunti. Mi ha invece scombinato l’invito a non leggere le risposte che potrebbero far venire il nervoso.

Ricapitoliamo.

Al mio articolo – Le proposte del ministro su HarmoS e il Piano di studi, sul Corriere del Ticino di lunedì 2 novembre – il direttore del DECS ha replicato il giorno stesso su Ticino Libero. Titolo: Bertoli scocciato, «se non vi piacciono le mie risposte non leggetele». Sottotitolo: Un articolo sul Corriere del Ticino infastidisce il ministro socialista, «come se rispondere subito sia sintomo di qualche problematicità».

Certamente potrei dire la stessa cosa al ministro Bertoli: con tutti i pensieri che derivano dall’essere Consigliere di Stato di questa Repubblica, non è il caso che ci si debba occupare anche delle scocciature. Ma, appunto, basterebbe evitare di leggerle.

Faccio parte di quella generazione che ascoltava il giornale radio delle 12.30 in religioso silenzio. Ne ho parlato più volte nella mia rubrica sul Corriere del Ticino, «Fuori dal’aula».

Ricordo bene la voce di Mario Casanova, che per decenni, come annota il Dizionario storico della Svizzera, fu “la voce” dell’informazione. Al di là di tante vicende, internazionali e locali, rammento come se fosse ieri il primo volo di un uomo nello spazio – Jurij Gagarin, 12 aprile 1961, avevo otto anni – o gli ultimi giorni di Palmiro Togliatti, nell’estate del 1964. Ero a Someo, dai nonni, per un periodo insolitamente lungo. Mio nonno, socialista, seguì con apprensione il decorso del Migliore verso la morte. E io con lui, senza capirci molto, se non la sacralità civica dell’accadimento.

Certo, in quegli anni non c’erano ancora Politica Nuova, settimanale marxista leninista e rivoluzionario dei locali socialisti, che avevano bisticciato coi socialisti storici e tradizionali, e che, per certi versi, diede avvio alla lunga stagione dello sputtanamento del potere politico e della sua messa alla berlina non stop. E non c’erano neanche la Lega dei ticinesi e il domenicale gratuito Il mattino della domenica, che formalmente non è l’organo della Lega, benché ne rappresenti il piedistallo elettorale e la linea politica. In mezzo, tra i due e tanti altri, non c’erano ancora stati Silvio Berlusconi, l’Unto del Signore, e le numerose derive tanto o poco scellerate.

Brenno Bertoni - Il Frassineto COPERTINAPer dirla tutta: sono nato e cresciuto in un contesto culturale un poco diverso, che magari si serviva del Frassineto, il famoso testo di educazione civica di Brenno Bertoni del 1933, «Unico testo approvato dal Dipartimento della Pubblica Educazione», ma che offriva ancora qualche solido punto di riferimento, anche se legittimamente soggettivo.

Tuttavia se un Ministro della Repubblica invita a non leggere le sue risposte qualora possano infastidire, non so proprio più cosa pensare.

Dovrò scegliere: piangere e disperarmi oppure, in linea perfetta coi tempi che viviamo, scrollare il capo e lasciarmi andare a un’enorme risata?

Forse mi converrà continuare come prima. E se a qualcuno verrà qualche prurito, che se lo gratti.

Etica per la scuola: un convegno

Immagine convegno ETICA PER LA SCUOLA_Pagina_1Mercoledì 25 novembre 2015 si terrà a Locarno, al Dipartimento della Formazione e dell’Apprendimento della SUPSI, un importante Convegno di studio che il DFA organizza in collaborazione con la sede ticinese dell’Istituto universitario federale per la formazione professionale (IUFFP).

Dopo il saluto del direttore del DFA, Michele Mainardi, e l’introduzione del direttore dell’IUFFP, Fabio Merlini, il convegno entrerà nel vivo con Una testimonianza su etica e società, oggi proposta da Dick Marty. A seguire tre conferenze di notevole importanza:

  • Pour une déontologie enseignante (Eirick Prairat, docente di scienze dell’educazione all’Université de Lorraine);
  • La “pietra angolare” del codice deontologico degli insegnanti (Silvano Tagliagambe, filosofo ed epistemologo);
  • Il codice deontologico dell’insegnante tra valori interni e valori esterni della professione (Marcello Ostinelli, filosofo dell’educazione, docente al DFA della SUPSI).

Si possono trovare programma e dettagli nel sito del DFA, mentre il programma può essere scaricato (anche) qui.

Parigi e gli attacchi del 13 novembre

Devo due parole di spiegazione in entrata, sennò ci sarà chi mi biasimerà con l’accusa di occuparmi di politica, mentre la scuola non ha nulla a che fare con la politica. Dissento, ovvio. Ho sempre detto e scritto che la pedagogia è ideologica. Ritengo inoltre, benché sembri banale ribadirlo, che non solo la scuola e la famiglia educhino, anzi.

Nei giorni degli attacchi del 13 novembre a Parigi se ne sono lette e viste tante. Ripropongo qui due riflessioni che mi sono piaciute molto – e, naturalmente, non sono le uniche: chissà quante me ne sono sfuggite.

La prima è di un comico, Maurizio Crozza. La sua copertina del talk show di Giovanni Floris dello scorso 17 novembre (DiMartedì su La7) è amaramente comica. Con un francese maccheronico – ma l’importante è capirsi – l’ha intitolata Je suis un cretin totalment brancolant dans la nuit.

Ha detto, tra le altre cose, che a gennaio, dopo la strage di Charlie Hébdo, te la potevi cavare con un «Je suis Charlie». Adesso sulle magliette cosa ci scriviamo? Je suis Paris? Sì, però due giorni prima c’è stato un attentato in Libano, 44 vittime e 239 feriti. Quindi bisogna anche scriverci «Je suis Beirut». E dieci giorni prima era esploso un aereo sul Sinai, 224 morti, per cui bisogna aggiungerci anche «Airbus 321 avec les touristes russes».

Cioè: se qualcosa accade a Parigi, giustamente ci sentiamo tutti coinvolti. Se accade sul Sinai, meno, quasi nulla. Quanto deve essere vicina una barbarie perché ci colpisca come esseri umani? Cioè: piangiamo solo le città di cui abbiamo un souvenir attaccato sul frigo?

La verità è che l’unica maglietta che mi sentirei bene addosso è Je suis un cretin total, brancolant dans la nuit, un perfetto cretino che brancola nel buio. Qualcuno parla di guerra di religione. Ma a Beirut i terroristi erano mussulmani e hanno ucciso altri mussulmani. E allora? E allora io non lo so.

Alle volte invidio chi ha le idee chiare. Poi mi accorgo che chi le ha è gente come Gasparri, Belpietro e Salvini. E mi dico: ma sai che forse essere un cretin che brancola nella nuit non è mal pour moi? Il giorno dopo gli attentati, «Libero» di Belpietro titolava «Bastardi islamici»; Gasparri ha scritto: «Radiamo al suolo lo stato islamico»; e Salvini ha detto «Il terrorismo va bombardato».

Io sarò anche un cretin dans la nuit, ma loro sono dei cretin anche in pieno jour.

In effetti bombardare tutti è una soluzione: non nuovissima. Perché dopo l’11 settembre l’abbiamo fatto. E oggi in Afghanistan i talebani controllano molto più territorio di quello che avevano quindici anni fa. E il terrorismo nel mondo è più forte di prima.

Ma io sono un cretin. Brancolo.

So solo che coi nostri bombardamenti sono stati uccisi un milione di civili iracheni, 220 mila civili afghani e 80 mila civili pachistani. Più che una guerra di civiltà per ora è stata una riuscitissima guerra ai civili. E quella, secondo me, l’abbiamo già vinta. Ma sbaglio o adesso stiamo per rifare la stessa cosa?

E no, io sbaglio, je suis totalement cretin.


La seconda riflessione, pubblicata su La Regione del 18 novembre, è una lucida riflessione di Dick Marty: e non sembri irriverente l’accostamento.  Si intitola Tragico tranello. Per chi non avesse il tempo o la voglia di leggerselo interamente, eccone la  conclusione:

Il dibattito politico, come inteso oggi, appare purtroppo poco idoneo ad atteggiamenti di fredda analisi e di scelte razionali. La tentazione di capitalizzare consensi facendo leva sulle emozioni e la paura è grande. Poche ore dopo la strage di Parigi c’era già chi era all’opera in tal senso. Oltre alla repressione, necessariamente rigorosa, occorre anche agire a livello di prevenzione, ricercare e capire cioè i motivi che contribuiscono a scatenare gesti talmente disumani e indurre giovani a farsi saltare in aria per meglio uccidere altri a loro totalmente estranei. I terroristi finora identificati sono nati e cresciuti in Europa, spesso in zone gravemente trascurate dalle istituzioni e caduti nelle maglie di predicatori dell’odio, un odio e un’ideologia alimentati anche dalle ingiustizie commesse nei confronti del mondo arabo e dalla tragedia palestinese tuttora irrisolta, non senza responsabilità occidentali. Questo non giustifica niente, sia ben chiaro, ma dovrebbe almeno indurci a riflettere per definire risposte più adeguate. La stragrande maggioranza dei musulmani non si riconosce per niente in questi criminali. La reazione a questo terrorismo deve fondarsi pertanto su di un’alleanza con il mondo musulmano.

Nel generale schiamazzo politico, massmediatico, bombarolo e di pancia, converrebbe davvero lasciarsi alle spalle il proprio ticinocentrismo e provare a pensare. Già il tentativo sarebbe di per sé un bel segnale.

Giorno dopo giorno gli insegnanti accolgono nelle nostre aule schiere di bambini, ragazzi e giovani, che naturalmente han sentito parlare del 13 novembre parigino e di tutte le complessità storiche e politiche che l’accompagnano. E quasi certamente sono portatori delle interpretazioni ascoltate dai grandi, spesso senza mediazione alcuna.

Non sarebbe male riprendere in classe questi temi, magari senza bisogno di organizzare chissà quali itinerari didattici: in fondo basterebbe mettere in dubbio qualche certezza. Perché, come ha scritto una volta Umberto Eco in un suo articolo sul “Corriere della Sera”, è importante imparare a confondersi le idee fin da piccoli, per avere le idee in chiaro da grandi (citazione a memoria, purtroppo: ma anche se non l’avesse scritto è comunque un bel trattatello di pedagogia).

Anche questa sarebbe educazione civica.