Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

«Il web non è il luogo adatto per parlare di sesso»: se lo dicono Loro…

Mi ero già occupato del bel libro «L’incontro», il testo dedicato ai temi della sessualità e dell’affettività, promosso dal DECS per gli allievi della scuola media. Il 17 ottobre avevo pubblicato un articolo – A proposito di educazione alla sessualità e all’affettività – prendendo spunto da un bel contributo di Daniele Dell’Agnola – Il seno di Palomar – Incontri a scuola, fra Italo Calvino e altri profumi – pubblicato su La Regione.

In questi giorni il nostro Dipartimento dell’educazione ha deciso di mettere in rete la versione ufficiale del testo, in attesa che, tra qualche settimana, sia disponibile la versione cartacea per gli allievi di III e IV media. Permane il mistero sull’identità del membro della commissione che aveva fornito a Il Caffè la versione non ancora definitiva del testo, con motivazione altrettanto ambigua.

Il parlamentare PopDem Maurizio Agustoni, contrario sin dalla prima ora a certi “capitoli” del manuale, ha rilasciato la sua opinione al Corriere del Ticino, poi ripresa da TicinoNews: «La cosa non mi scandalizza, sia chiaro. Detto questo, la trovo poco sensata rispetto all’idea stessa del manuale, pensato per essere affrontato con un filtro educativo. Se l’idea era quella di discutere di temi anche espliciti in un contesto formativo e con delle persone competenti, metterlo in internet senza nessuna particolare indicazione su destinatari e contenuti mi sembra davvero poco coerente. Non credo che il web sia il luogo adatto per affrontare questi argomenti».

Il Giornale del Popolo del 20 febbraio ha ripreso la dichiarazione (Già online. Ma perché?).

Le parole-chiave sono due: filtro, riferito all’educazione, che senza un intervento demiurgico rischia di essere male interpretato da menti immature e inesperte. E adatto, che non ha bisogno di chiarimenti.

Diciamolo: Agustoni e il Giornale del Popolo hanno ragione. Una ragione sacrosanta. Lo sanno tutti che il web non è il luogo adatto per affrontare questi argomenti. Il web è noto al mondo per essere un luogo virtuale pensato per educande, seminaristi, penitenti e, tutt’al più, bigotti e moralisti.

Non sporchiamolo con le porcellate comuniste e laiciste dei tanti mangiapreti a oltranza.

A che serve insegnare (e imparare) la Storia?

Una volta, per incitare gli studenti a studiare la storia, s’usava una frase di Cicerone – Historia magistra vitae – che in verità, nella versione originale, è più dettagliata: «La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità». Oggi non s’usa più. Lo studio della storia ha subito negli ultimi cinquant’anni una pesante svalutazione. E c’è chi vorrebbe toglierle ancora qualche ora di lezione, per fare spazio all’educazione civica, come se la storia non fosse di per sé una componente fondatrice del cittadino educato, critico, aperto, consapevole e tollerante.

Così l’ignoranza offre a qualsiasi briccone occasioni per piegare il passato ai propri comodi. È quel che denuncia senza mezzi termini Dick Marty in un articolo apparso qualche giorno fa su La Regione (La storia alterata, 4 gennaio). Marty punta il dito sull’ampia rievocazione della battaglia di Marignano che i media e molti politici hanno dato nel 2015, a 500 anni dalla disfatta degli svizzeri da parte di Francesco I e dei veneziani. «La distorsione e la manipolazione della storia – ha scritto – non sono fatte di sole mezze verità tramutate in miti, ma anche di silenzi su avvenimenti che non rientrano nella tesi che si vuole dimostrare». E ha aggiunto: «Le interpretazioni di Marignano possono divergere. Ma se si vuol parlare di neutralità non si può farlo senza accennare al Congresso di Vienna, il cui bicentenario è stato abbondantemente dimenticato. Un oblio non casuale» dato che «quanto deciso e imposto a Vienna non rientra nella leggenda del popolo fiero, pienamente sovrano che non ha bisogno degli altri e non deve niente a nessuno, come sostengono i populisti nostrani.»

Nei giorni dalle festività mi sono imbattuto in un altro importante contributo che (ri)abilita la storia e la sua capacità di essere maestra di vita. Patrick Boucheron è uno storico, specialista dei comuni italiani nel Rinascimento. Ha ottenuto recentemente la cattedra di Storia dei poteri nell’Europa occidentale al prestigioso Collège de France, e il 17 dicembre ha tenuto la sua lezione inaugurale, «Cosa può fare la Storia?», con alcune risposte: uscire dal suo pessimismo, rompere con l’idea delle fini (delle ideologie, della storia, della politica), riattivare l’idea di progresso, riconciliare l’erudizione e l’immaginazione.

«Un mese fa – ha esordito – sono tornato a Place de la République, assieme a tanti altri, increduli e tristi». Tra i fiori, le candele, i bigliettini, ha visto una pagina strappata da un quaderno scolastico. Qualcuno aveva ricopiato una citazione di Victor Hugo, «Fiat lux!», che rimanda a un passaggio dei Miserabili: «Il grido: Coraggio! è un Fiat Lux. Perché l’umanità progredisca è necessario che vi siano in permanenza, sulle cime, fiere lezioni di coraggio. Le temerarietà abbagliano la storia e sono una delle più grandi sorgenti di luce dell’uomo: l’aurora osa, quando si leva. Tentare, sfidare, persistere, perseverare, essere fedele a se stesso, ghermire in una lotta a corpo a corpo il destino, stupire la catastrofe colla poca paura che ci fa». Stupire la catastrofe!

Ha scritto il Nouvel Observateur che, secondo Boucheron, nulla è più letale che usare la Storia, una storia immobile, per creare lezioni di disperazione. «Nessuno può sapere cosa accadrà nel divenire. Ma ognuno capisce che per percepire il domani bisognerà essere calmi, diversi, ed esageratamente liberi».


Nel sito del Collège de France è possibile ascoltare e vedere la lezione inaugurale di Patrick Boucheron oppure scaricare il video o l’audio: «Ce que peut l’histoire», 17 décembre 2015, Leçon inaugurale à l’Amphithéâtre Marguerite de Navarre – Marcelin Berthelot (l’intervento inizia all’ottavo minuto).

Qui, inoltre, si può leggere integralmente il passaggio dai Miserabili citato nell’articolo.

Complimenti alla scuola elementare di Maloja!

Che bello, davvero!

Nell’ambito del «Premio scolastico svizzero 2015», la Scuola elementare bilingue del comune grigionese e bregagliotto di Maloja ha ottenuto il premio nella categoria «Svizzera italiana», con la seguente motivazione:

Il piccolo istituto bilingue di Maloja mostra chiaramente come in una scuola assai eterogenea si possa creare una forte coesione attraverso metodi didattici flessibili e creativi. L’insegnamento è completamente bilingue, ci sono classi con allievi di varie età e si punta a un soddisfacimento individuale dei bisogni delle studentesse e degli studenti nonché a una vita scolastica familiare, che si concretizza tra l’altro nella mensa.

Chi mi segue in questo sito (i miei followers, che brutta definizione) sa che nutro una stima quasi incontrollata per le pluriclassi e la diversità più esagerata. Questo premio, dunque, mi riempie di felicità, perché va controcorrente.

Guardatela qua, la scuola elementare bilingue di Maloja.

Auguriamoci tutti insieme che la scuola di Maloja, insieme a tante altre scuolette, non sia annientata da ragioni economiche (come ad esempio la scuola intercomunale di Derrière-Pertuis, che avevo citato parlando del documentario «Tableau noir» di Yves Yersin) o, peggio, dalle menate tecnocratiche ed efficientiste imposte dall’Accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, più noto come HarmoS, con le maiuscole in entrata e in uscita.

È già di nuovo tempo di auguri

Ohibò. Mi sono preso la briga di andare a rileggere cosa avevo scritto esattamente un anno fa. Lasciamo perdere. Tra qualche giorno le testate più varie e variegate cominceranno gli amarcord dell’anno testé trascorso.

Oggi volevo giocare a Facciamo che io ero… Gianni Rodari (figuratevi!). Così ho iniziato a comporre una filastrocca:

Quest’anno che tra poco finirà / è partito giusto giusto un anno fa. / E quell’altro che s’avvia di venerdì / sarà vecchio da qui a un anno o giù di lì.

Poi, ovviamente, mi sono fermato, e non solo perché io non sono Gianni Rodari.

Ma, insomma!, gìrala, vòltala e pìrlala, siamo sempre al punto di partenza. Da oltre due secoli c’è la scuola pubblica e obbligatoria, oltre a quell’altra che viene prima o dopo. Ma il boccino è sempre in mano ai soliti noti, e non c’è verso che lo mollino, al di là della democratizzazione degli studi, delle pari opportunità, della partecipazione delle tante componenti attive o passive (o neutre), e via elencando: tanto a smenarci son sempre i soliti poveri cristi. Il sistema, per loro, non prevede vie d’accesso ai piani alti della piramide meritocratica, ma solo percorsi di guerra.

L’ho scritto più volte, citando il professor Walo Hutmacher: «Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé» (Éducateur, febbraio 2012). Non so come bisognerebbe fare. Si potrebbe cominciare dalla scuola dell’obbligo, che dovrebbe essere un luogo in cui gli insegnanti insegnano e gli allievi si sentono al sicuro. Come dice un vecchio proverbio, sbagliando s’impara, ma non è giusto che gli errori siano puntualmente puniti. Ha scritto Aristotele, nel libro II dell’Etica a Nicomaco: «Le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole». È il principio di ogni insegnamento e di ogni apprendimento. Solo certa scuola riesce a farsene un baffo, a fingere che non è così.

Insegnare è un mestiere difficile e faticoso.

© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Broad Peack, al confine tra Cina e Pakistan, nella catena del Karakorum (8047 m s/M).
© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Broad Peack, al confine tra Cina e Pakistan, nella catena del Karakorum (8047 m s/M).

Lor signori, per citare il mio amato Fortebraccio, trovano sempre il modo per schivare l’oliva. Una volta è la meritocrazia, madre di tutte le politiche educative, e un’altra i soldi, che se non ci sono non è mica possibile fare le necessarie e ineludibili riforme. Concordo con Alex Farinelli, quando scrive, citando il compianto Giuseppe Buffi e rivolgendosi al ministro dell’educazione, che è troppo facile chiamarsi fuori…

Ora ci sono i nuovi piani di studio, armonizzati da Oberbangen nel Canton Sciaffusa a Pedrinate quaggiù in Ticino, da Chancy nel Canton Ginevra a Müstair nei Grigioni. Là fuori Germania, Italia, Francia e Austria.

E nel tempo d’uno sbatter di palpebre ecco a voi, elettrici ed elettori, La Scuola Che Verrà, a condizione che ci siano i soldi.

È una storia che sentiamo ormai da tanti, troppi anni. C’è sempre un alibi, un dito dietro il quale nascondersi.

Mi spiace, davvero, ma questi non sono tempi che inducono all’ottimismo. L’anno che stiamo per lasciarci alle spalle è iniziato a Parigi, il 7 gennaio, ed è terminato nuovamente a Parigi il 13 novembre.

Tra qualche giorno comincerà il nuovo anno. Non sembra che vi siano troppi motivi per brindare. Così riprendo pari pari gli auspici di un anno fa. Tanti tanti auguri a tutti quelli che, per scelta o per caso, conosciuti o sconosciuti, visitano questa mia piazzetta virtuale; e poi, magari, sorridono, annuiscono o smoccolano come si deve. Grazie, qualunque sia la reazione.

© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Dhaulagiri, la Montagna Bianca (Nepal, catena dell’Himalaya, 8167 m s/M).
© Foto di Gianni Goltz, spedizione al Dhaulagiri, la Montagna Bianca (Nepal, catena dell’Himalaya, 8167 m s/M).

Un’etica per la scuola e una deontologia per gli insegnanti

Al di là di un certo fervore riformista e d’un dinamismo concitato, sembrerebbe che mai come oggi la scuola sia avvolta da una nebbia fitta, che impedisce di intravedere il cammino da percorrere. Da diverso tempo, ormai, si fa fatica a trovare il filo del discorso, a capire se la scuola sia (ancora) al servizio del Paese, nel difficile progetto di educare futuri cittadini democratici, cólti, dotati di spirito critico, amanti del bello e del rispetto; oppure se la precedenza sia assegnata all’economia e alla produttività, con lo sforzo di fornire le necessarie competenze e, nel contempo, orientare e selezionare i lavoratori di domani. Ma la scuola non è un’impresa, nell’accezione economica del termine. In nessun caso, anche se la condivisione è sempre più vaga e sfilacciata, la scuola deve produrre utili immediatamente spendibili, al di là degli slogan un po’ logori sull’educazione come investimento per il futuro: perché bisognerebbe mettersi d’accordo sulle sue finalità, dato che le mie, per dire, sono diverse da quelle del CEO di una qualsiasi impresa «too big to fail».

Ridotto all’osso, è forse questo il quadro generale che ha indotto il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI e l’Istituto universitario federale per la formazione professionale a organizzare, lo scorso 25 novembre a Locarno, il convegno di studio intitolato «Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico per l’insegnante?». In un’aula magna gremita, il tema è stato trattato da alcuni punti di vista essenziali. Il filosofo Fabio Merlini ha esposto i quesiti del convegno, muovendo, in particolare, dalla sempre più debole legittimazione sociale della scuola, per chiedersi se non sia necessario e urgente riconoscersi in un’etica condivisa. Dick Marty ha proposto una testimonianza su etica e società, con una conclusione ovvia quanto per nulla scontata: i cittadini consapevoli, con un’alta tensione etica, devono essere formati, perché consapevoli non si nasce.

Eirick Prairat, docente di filosofia dell’educazione all’università della Lorena, ha affrontato il tema con un accenno specifico alla funzione moralizzatrice dei docenti, che sono al servizio di una cultura per la costruzione della cittadinanza. Silvano Tagliagambe, filosofo ed epistemologo, ha messo a fuoco il codice deontologico dell’insegnante, sottolineando alcuni vincoli, che rappresentano confini chiari e ineluttabili: imparare è un processo lento, che non ammette scorciatoie, e l’insegnante deve avere la capacità di prendersene cura e di coltivare invenzione e creatività, dentro un sistema formativo aperto e dinamico, tenendo costantemente presente che la scuola è anche il luogo del dialogo tra generazioni diverse. Infine Marcello Ostinelli, docente-ricercatore al DFA, si è soffermato sull’ambiguità di quel ruolo, sempre in bilico tra valori interni, determinati dalle caratteristiche intrinseche della professione, e valori esterni, ricavati dall’interpretazione personale del contesto sociale e politico entro cui si esercita la professione.

È stato un convegno di elevato livello. Ora è necessario che non restino solo quello e gli atti che sono stati promessi. È importantissimo rilanciare l’etica per la scuola, che non può toccare solo docenti e dintorni, ma deve interessare l’intera nostra società, compresi quei politici che, ogni tanto, pur sapendo solo pressappoco di cosa stanno parlando, riescono ad approvare leggi inutili e a volte pure dannose. Fermarsi ora, infatti, non sarebbe eticamente accettabile: sarebbe come gettare il convegno alle ortiche.