Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

Insegnamento della religione in Ticino: la storia infinita

Il meno che si possa dire è che il tema dell’insegnamento della religione sta diventando una storia infinita, come se nella scuola pubblica non esistessero problemi più importanti. Lasciando perdere talune controversie di stampo vagamente ottocentesco, la spossante contrattazione tra Stato e chiese dura ormai da molti anni, benché il tema, in una Repubblica moderna e laica, dovrebbe essere prerogativa assoluta della politica.

Tanto per ravvivare la memoria: nel marzo del 2002 il parlamentare liberalsocialista Paolo Dedini aveva chiesto di sopprimere dalle griglie settimanali l’ora facoltativa di insegnamento religioso, accordata alle due chiese riconosciute, e di sostituirla invece con l’insegnamento «della storia delle religioni, dell’etica e della filosofia nel rispetto delle finalità della scuola».

Dato che il nostro è un paese esagerato, dove i messaggi partitici vanno sempre soppesati col bilancino dello speziale, ecco in dicembre una nuova iniziativa parlamentare, stavolta sottoscritta da un gruppo di gran consiglieri del centro-sinistra, capeggiato da Laura Sadis.

Mentre Dedini richiamava il valore fondamentale e insopprimibile di una visione umanistica della società, il nuovo atto parlamentare sottolineava come «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana negli studenti delle scuole pubbliche ticinesi è sempre più generalizzata ed evidente». E buttava sul tavolo la proposta: «In tutte le scuole è impartito un corso di cultura religiosa». Va da sé: in questi quasi tre lustri è successo poco, salvo la sperimentazione di qualche modello alternativo in alcune sedi di scuola media, corredata dall’immancabile valutazione da parte della SUPSI.

È invece di questi giorni, apparsa su questo giornale, un’articolessa del deputato PLR Giorgio Pellanda. Uno concreto, come si dice. Premette che la riflessione trae linfa anche dalla sua condizione di ex docente. Poi precisa la propria credenza confessionale cattolica e chiarisce la consapevolezza «di esprimere il pensiero di tanti ticinesi agnostici o atei che tuttavia riconoscono nelle nostre radici cristiane un auspicato nutrimento spirituale per la pace sociale». Infine cala l’originale disegno di legge, che farebbe contenti tutti: cattolici e protestanti continuano con le loro ore di catechismo dentro la scuola pubblica, mentre chi non sceglie né l’una né l’altra, va obbligatoriamente al corso di storia delle religioni – una sorta di «liberi tutti», che accontenta però solo chi dice di credere nelle religioni di stato.

Sarebbe molto più logico se il catechismo le chiese se l’organizzassero in parrocchia. E non vedo nemmeno chissà quale bisogno di inventare una nuova disciplina, la storia delle religioni.

Nell’ambito delle materie che appartengono ai piani di studio c’è già tutto quel che serve per sconfiggere «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana» menzionata dalla proposta di Laura Sadis. Ci sono i valori dell’umanesimo e della ragione, e di radici cristiane, lì, ce n’è in abbondanza.

Basterebbe trattare in maniera appassionante e rigorosa la letteratura e la poesia, la musica e la pittura, le arti tutte e la storia del pensiero, compreso quello matematico e scientifico. Il resto è solo finzione, genuflessa ai piedi di un cerchiobottismo parlamentare che perdura da troppi anni. Siamo una terra di fervidi credenti, a condizione che l’omelia sia breve e che i dieci comandamenti siano a geometria variabile.

Le proposte del ministro su HarmoS e il Piano di studi

Parrebbe che ai piani alti del nostro dipartimento dell’educazione ci sia un po’ di nervosismo. O, almeno, il clima sembra un po’ concitato. A inizio ottobre è apparsa sul Corriere una lettera aperta a Manuele Bertoli, direttore del DECS, con qualche domanda critica relativa all’obbligo della frequenza per i bambini di quattro anni. È una delle novità dell’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, noto come HarmoS, che sta muovendo i primi passi proprio quest’anno scolastico.

La risposta del ministro, un po’ piccata ma rassicurante, è giunta di corsa. Passa un giorno ed ecco una fulminante opinione di Lauro Tognola, uomo di scuola ora in pensione. Siamo ancora dalle parti di HarmoS e Tognola spara ad alzo zero sul «Piano di studio della scuola dell’obbligo», di recente pubblicazione. Lo giudica linguisticamente nauseante, pesante, ripetitivo e zeppo di ovvietà. E cita qualche passaggio un poco astruso: la «rendicontazione sociale dei risultati della produttività dell’azione scolastica» o la «pietra angolare intorno a cui si sviluppa la proposta curricolare», tanto per dirne un paio.

Anche stavolta, nel giro di ventiquattr’ore, giunge la risposta di Bertoli, che parte proprio dalla lingua del documento: «Può darsi – concede il ministro – che il linguaggio possa qua e là apparire ostico, ma il piano di studio non è un bestseller, bensì uno strumento di lavoro per i docenti».

Il problema non è la qualità letteraria del Piano o lo slancio appassionato che la trama del racconto dovrebbe scatenare. Tuttavia l’intreccio ha le sue singolarità e il linguaggio, qua e là, è ostile, condito con dosi smodate d’un pedagogichese fumoso benché di moda: ciò che non contribuisce a spianare la strada all’intento dichiarato di «affrontare la formazione in modo esplicito».

La chiarezza e il divieto perentorio di equivocare, o di interpretare secondo i propri comodi, sono irrinunciabili, soprattutto se si intende dar vita a una svolta storica, che rivolti la scuola come un calzino e, con alcune mosse ben studiate, dia scacco matto a tutti i suoi problemi, a partire dalla pesante selezione che interviene già dopo la seconda media, benché sia socialmente predisposta con largo anticipo.

Questo è l’anno del passaggio concreto ad HarmoS e ai suoi comandamenti. Poi ci si immergerà nell’ormai celebre «Scuola che verrà», un progetto che sarà presentato in primavera, dopo il lancio pubblicitario di un anno fa.

Non so da dove salti fuori questa fregola della rivoluzione copernicana a tutti i costi. Per iniziare sarebbe stato più utile avere il coraggio politico di metter mano alla Legge della scuola, per chiarire se la scuola dev’essere al servizio del Paese, dell’economia e della finanza, o di chi altro. In altre parole, bisognerebbe dichiarare a chiare lettere se la scolarizzazione obbligatoria a quattro anni deve mirare con determinazione alla formazione di base elevata di ogni futuro cittadino, oppure se sia più conveniente intervenire precocemente sulla selezione degli individui in base a criteri tutti da definire (si potrebbe chiedere ad Avenir Suisse, a costo zero).

Chi segue questa rubrica sa da che parte sto. I programmi della scuola dell’obbligo chiamano a gran voce essenzialità e chiarezza. Qualcuno, frattanto, dovrà spiegarci quando, come e con quali mezzi si procederà all’informazione dei docenti sul nuovo Piano di studi, come supplemento alla normale formazione continua.

La morale e le leggi della natura viste da destra

Alexander von Wyttenbach è un medico che si è sacrificato sull’altare della politica.

Non è naturalmente il primo, né l’unico: basti pensare a Gino Strada, oppure, in altri anni, ad Albert Schweitzer. Il nostro, però, non è andato in trincea, come suol dirsi. È un teorico, più che un attivista. Negli anni ’70 del secolo passato, mi pare di ricordare, fu tra gi ispiratori dell’«Alleanza Liberi e Svizzeri», di cui fu uno dei primi presidenti: in tempi di eurocomunismo e di una sinistra “organica”, che tendeva a occupare ogni minimo spazio della correttezza politica – definizione alla moda, che arrivò diversi decenni dopo – ci poteva stare.

Oggi è presidente, nientemeno che onorario, dell’UDC Ticino.

[Digressione obbligatoria per quei miei amici che magari non conoscono (bene) la politica svizzera e ticinese: UDC sta per «Unione democratica di centro». “Di centro”, in questo caso, è lì per ragioni storiche, poco più d’un modo di dire, dato che, nell’arco costituzionale elvetico, a destra dell’UDC non c’è nessuno. È comunque il maggior partito svizzero e, alle recenti elezioni federali, ha raccolto un terzo dei voti. Per intenderci è il partito che ha promosso l’iniziativa referendaria popolare per un bando costituzionale alla costruzione di minareti (riuscita nel 2009) e quell’altra denominata «No all’immigrazione di massa» (riuscita pur essa, nel 2014)].

Il 29 ottobre, sul Corriere del Ticino, von Wyttenbach ha espresso la sua opinione riguardo all’«eccezionale risultato dell’UDC alle elezioni federali [che] ha sorpreso un po’ tutti, compresi i responsabili del partito». Spiega il medico e presidente onorario: «Non vi è dubbio, che fra i temi sollevati dal partito, oltre ai rapporti con l’UE, quello sull’immigrazione incontrollata sia stato di gran peso. Con un sicuro intuito politico, il popolo teme l’immigrazione incontrollata e ha votato per il partito che prende più sul serio il problema». Fin qua c’è poco da eccepire, ci mancherebbe, siamo a una normale percezione politica di destra. Queste cose avrebbe potuto raccontarle anche Marine Le Pen in Francia o Matteo Salvini in Italia, tanto per restare, da ticinese, all’area latina.

Il nostro opinionista, naturaliter, non si ferma alle interpretazioni politiche, ma butta lì una spiegazione, come dire?, scientifica. Sentite.

Per valutare questo risultato [quello dell’UDC alle elezioni federali] dal punto di vista morale, è necessario conoscere le leggi della natura. Ogni animale che vive in società – fra cui l’uomo – ha un’istintiva paura di fronte all’invasione di una popolazione straniera. Questo istinto naturale ha lo scopo preciso di garantire la conservazione della specie e, nell’uomo, la salvaguardia della propria cultura della convivenza. È ora di capire che il sentimento dominante nei confronti degli immigrati non è assolutamente odio o razzismo come erroneamente si vuol far credere, ma la pura e semplice paura. L’attuale immigrazione di massa, che rappresenta di fatto una conquista del nostro territorio senza l’uso delle armi, risveglia nella popolazione giustificata paura soprattutto nei confronti dei mussulmani.

Albert Schweitzer, 1875-1965, con un gruppo di ragazzi di Lambaréné, in Gabon (© Deutsches Albert-Schweitzer-Zentrum Frankfurt am Main).

Hanno un bel dire, certi intellettuali, che Homo sapiens è un mix di natura, cultura e società – e che la sua eccezionalità starebbe tutta in questo magico triangolo equilatero . Per certi versi, a sentire il nostro medico, non siamo invece molto diversi da un comune formicaio o da un enorme branco di gnu.

Com’è logico, si potrebbe commentare ogni singolo passaggio di questo trattatello etico, antropologico, etnologico e non so cos’altro ancora. E, con un pizzico di volgare malignità, sarebbe pure lecita qualche battuta greve sugli svizzeri tedeschi che hanno occupato il Ticino, in combutta coi soliti maggiorenti locali, e ci hanno pure rubato l’acqua.

Invece mi assale un sentimento di grande tristezza.


Poscritto

Ho riflettuto a lungo sulla convenienza di mettere in rete cotanta opinione. Alla fine ho deciso che sì, può essere opportuno. Ognuno potrà farsi la propria opinione leggendo l’originale: «La tirannia del politicamente corretto». Tanto non credo che Cose di scuola sia frequentato da minorenni.

A proposito di educazione alla sessualità e all’affettività

La Regione del 17 ottobre ha pubblicato un bel contributo di Daniele Dell’Agnola – Il seno di Palomar – Incontri a scuola, fra Italo Calvino e altri profumi – che, da qualche parte, ha a che fare con «L’incontro», il testo per gli allievi della scuola media dedicato ai temi della sessualità e dell’affettività.

Ha fatto benissimo «Il Caffè», qualche settimana fa, a mettere a disposizione «L’incontro», il volumetto che da qualche mese, sino a oggi neanche pubblicato, è al centro di una pruriginosa polemica lanciata dai soliti ambienti cattolici, che si reputano gli unici depositari della corretta educazione, da dispensare ovviamente in famiglia, al riparo da ogni minaccia di corruzione da parte della pedagogia laica. Vien da dire che, sommessamente, anche i cattolici, a volte, portano il niqab: poi, sotto sotto, va’ a vedere cosa succede.

Eugène Delacroix (1798-1863), La Liberté guidant le peuple, 1830, Musée du Louvre
Eugène Delacroix (1798-1863), La Liberté guidant le peuple, 1830, Musée du Louvre

Conosco qualche persona che ha partecipato all’elaborazione del “manuale”. Così sono rimasto sbigottito quando ho letto di incitamento alla masturbazione o altre amenità del genere, neanche che col passaggio del Dipartimento dell’educazione dai liberali ai socialisti la politica educativa di questo Cantone abbia imboccato le strade che portano alla lussuria sfrenata, una nuova rivoluzione sessuale che farebbe arrossire Wilhelm Reich e Alfred Kinsey.

Invece no. «L’incontro», a differenza di molti tentativi del passato, è un testo ammirevole. Serio ma non serioso, tanto per cominciare: tratta argomenti anche psicologicamente difficili e controversi con un intenso rispetto verso i potenziali lettori, che sono ragazze e ragazzi di varie culture, provenienze e livelli intellettuali, che stanno crescendo in un mondo colonizzato dal sesso, con la pornografia a portata di clic e i modelli dello star system che di frequente inneggiano e incitano al machismo e alle tante sfumature del libero mercato del sesso, salvo poi indire referendum contro gli abbigliamenti islamici, perché l’Islam sottomette(rebbe) le donne.

La scelta di abbandonare finalmente il ristretto ambito del corso di scienze naturali permette di lasciarsi alle spalle un’istruzione che, a tratti, pareva essenzialmente zootecnica  – tanto politically correct da sembrare più adatta a futuri allevatori di vacche, che a uomini e donne: solo un gradino più su delle cicogne e dei cavoli – a favore di un’Educazione autorevole e responsabile ai temi della sessualità e dell’affettività.

C’è solo da sperare, ora, che a nessuno venga in mente di sottoporre gli allievi ai soliti test e di dare le note, che andranno a far media chissà con cosa. A questo livello il tema dell’affettività e della sessualità potrebbe essere un bell’esempio anche per altre discipline: perché ci si potrebbe innamorare della matematica o della letteratura, della poesia o della fisica, e avere rapporti intensi con tutte le discipline dell’arte e dell’intelletto, senza bisogno di voler misurare a ogni piè sospinto chi ce l’ha più lungo.

Ovidio, la censura e la prudenza di Einstein

Attribuito ad Albert Einstein: Zwei Dinge sind unendlich, das Universum und die menschliche Dummheit, aber bei dem Universum bin ich mir noch nicht ganz sicher. Vale a dire, più o meno: «Due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana. Riguardo all’universo non sono ancora completamente sicuro».

Come spesso accade, è difficile sapere se quest’aforisma appartenga veramente ad Einstein. Tuttavia credo che, se fosse ancora vivo, non avrebbe nessun problema ad ammettere che sì, die menschliche Dummheit pare non finire mai.

Sentite questa. Sul Corriere del Ticino di oggi Tommy Cappellini intervista Giulio Giorello, filosofo della scienza e allievo di Ludovico Geymonat (Oggi la libertà non è mai abbastanza), a proposito dell’uscita di un suo nuovo saggio, La libertà, edito da Bollati Boringhieri. Riporto un passaggio del dialogo.

DOMANDA. C’è un’altra «schiavitù» che avanza: quella dell’emotivamente corretto. Alla Columbia University si censura Ovidio: turba le studentesse.

RISPOSTA. «Le rispondo con un aneddoto che circolava già all’epoca di Mill [John Stuart Mill]. Una vecchietta chiama a casa sua un poliziotto: “Agente, vada sul balcone, osservi anche lei, la mia sensibilità è ferita dagli atti osceni dei miei vicini”. L’uomo esce sul balcone e si trova davanti un muro piuttosto alto: “Non vedo niente”. E la vecchia: “Ah, signor agente, non sa la fatica che devo fare per sporgermi!”. Ecco, la fatica della vecchietta è il compendio di tutti questi emotivi che s’inventano i peccati più strani».

Forse Ovidio è davvero urtante.

«Ma per favore. Si censura Ovidio perché è più difficile catturare, attraverso una seria azione di polizia, i violentatori delle suddette studentesse nei campus. E via così. Si censura la parola “negro” e si arriva tardi, a sangue versato, addosso ai suprematisti bianchi fuori di testa. Si pensi poi ai “difensori della vita” che ritengono giusto ammazzare i medici che praticano l’aborto, come è già accaduto. Invece di imporre tanto politically correct si facciano rigorose azioni politiche. Invece che alla pretesa scorrettezza intellettuale, si guardi alle prevaricazioni concrete che ci accadono sotto gli occhi. Di cui sono vittima, ovviamente, i più deboli».

Possibile?!, mi sono chiesto. Possibile censurare Ovidio in un’università blasonata come la Columbia? Grazie alla rapidità del web, sono corso a controllare. Inserendo trigger Ovid Columbia harassed si trovano quasi 240 mila risultati. Ecco qualche titolo, tra i primi link che ho trovato (tra l’altro la notizia risale alla scorsa primavera):

Una decina di anni fa, nella mia rubrica sul Corriere, avevo pubblicato un testo su temi analoghi, In America non c’è educazione senza censura: già allora si registravano episodi simili. Avevo peraltro riportato che «Le avventure di Huckleberry Finn» non è accessibile a chiunque, perché il nostro eroe smoccola un po’ troppo; oppure che tutta la saga di Harry Potter è andata incontro ad alterne fortune in questa o quell’altra scuola, perché incita alla stregoneria. Altri libri assai noti – e stra-letti da schiere di adolescenti, almeno fino a qualche anno fa, quando leggere era ancora un’attività assai diffusa dentro e fuori dall’aula – sono incappati nelle maglie censorie dell’«American Civil Liberties Union»: ad esempio «Ragazzo negro» di Wright e «Il colore viola» della Walker (razzialmente scorretti); «Ritorno al mondo nuovo» di Huxley, «1984» di Orwell e «Peter Pan» (contenuti sessuali); «Uomini e topi» di Steinbeck (linguaggio scurrile e violenza).

Noi europei, così disincantati e smaliziati, guardiamo a queste americanate con la puzza sotto il naso, neanche che la Vecchia Europa non fosse (stata) ammaliata da tanti affari americani: anche perché noi abbiamo il Vaticano, ma ci sentiamo secolarizzati; mentre, al di là dell’Atlantico, in God they trust.

In un romanzo del genovese Bruno Morchio (Colpi di coda, 2010, Milano, Garzanti), c’è un dialogo che dice molto (pagg. 111-12; il romanzo non è tra i suoi che prediligo):

«Avete vinto la guerra», mi scappò detto, «e insieme al comunismo avete fatto fuori l’istruzione di massa.»

Mi guardò dritto negli occhi, con un’espressione intensa. Sul suo viso da adolescente maturato con parsimonia affiorò un’espressione di dispiacere che forse era rammarico, forse qualcosa di più. Richiamò l’attenzione di un giovane cameriere e mi invitò a ordinare. Chiesi un caffè espresso e lui fece altrettanto.

«Gli americani dovrebbero evitare il nostro espresso», commentai. «A chi non ci è abituato scompensa il battito cardiaco.»

Ignorò la battuta, come se non avesse sentito, e domandò: «Parlavi sul serio?».

«A proposito di istruzione e comunismo? Mi sono limitato a registrare i fatti.»

«Sai benissimo che non è questo il punto.»

«E quale sarebbe il punto?»

«Quali fatti si registrano e quali no. Il comunismo ha promosso la scolarizzazione, ma ha soppresso e deportato i dissidenti e costretto interi popoli a vivere in una perenne condizione di penuria.»

«Non scaldarti», lo interruppi. «È acqua passata.»

«Sai che ti dico?» proseguì. «Il comunismo è caduto anche perché i suoi metodi non funzionavano più. Nell’era di Internet è diventato impossibile censurare una notizia. Tutto quello che si può fare è evitare che essa venga recepita, facendola scomparire in una pletora di informazioni. Tecnicamente, si chiama azzerare la differenza accrescendo la ridondanza. Sopprimere e reprimere è costoso e poco remunerativo. Molto meglio allungare e diluire, come il caffè americano rispetto al vostro espresso.»

A parte tutto l’ho scampata bella. Il mese scorso ho presentato Ovidio e le Metamorfosi a ragazzini delle scuole elementari (parlo in prima persona per evitare chiamate di correità che sarebbero ingiuste e un poco perfide). Avevo iniziato due anni fa, con quell’altro bellimbusto d’un Giovanni Boccaccio, quello del Decameron. Ci converrà passare ad autori meno pruriginosi.

Per fortuna che L’origine du monde, l’olio su tela dipinto da Gustave Courbet del 1866, è custodito in Europa, al Musée d’Orsay di Parigi.