Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

Archiviate le elezioni, chissà che scuola verrà?

La lunga e un po’ noiosa campagna elettorale per il rinnovo dei poteri cantonali è finalmente passata agli archivi. Come sempre, c’è chi ha vinto, chi ha perso e chi s’accontenta e gode. Considerato che la composizione del Consiglio di Stato ricalca l’esecutivo precedente, sono personalmente contento che il socialista Bertoli abbia mantenuto il Dipartimento dell’educazione e della scuola. Sul domenicale «Il caffè» del 26 aprile gli è stato chiesto: Lei ha “preso” ancora il dipartimento Educazione e cultura, come quattro anni fa. Per quieto vivere o per convinzione? Per serietà, ha risposto. Ho cominciato un lavoro nel 2011, è bene che sia continuato per dargli più forza.

Chapeau.

Il suo progetto «La scuola che verrà» è finito nei proclami di tanti candidati. I socialisti hanno per lo più proclamato il loro sostegno, senza se e senza ma. Molti altri, di altri schieramenti politici, hanno sparato ad alzo zero. Ci sono, nella proposta, alcuni enunciati che sono andati di traverso a tanti politici e politicanti. Affermare, ad esempio, che «Un primo principio, che possiamo definire di tipo etico, è certamente il postulato dell’educabilità di ogni allievo, secondo cui chiunque, indipendentemente dalla propria origine sociale e culturale, possiede un potenziale che merita e richiede di essere sviluppato» è liquidato come palese progetto di riduzione del livello della scuola.

E pensare che tra gli oltre seicento candidati che hanno affollato le troppe liste di queste elezioni, c’è sicuramente chi è andato a scuola da qualche insegnante facilone e di manica larga, magari anche tra chi accusa «La scuola che verrà» di voler scientemente promuovere tutti senza insegnare nulla, per mandare tutti all’università.

Pestalozzi tra gli orfani di Stans (Konrad Grob, 1828-1904)

Il postulato dell’educabilità di ogni allievo non è solo una finalità nobile e alta, e non è nemmeno una sorta di slogan ipocrita e irrealizzabile. L’educabilità di ogni allievo è un traguardo che vale la pena di tenere al cuore dell’azione politica quando si costruisce e si gestisce la scuola dell’obbligo. Come ho già scritto più e più volte, le pari opportunità sono state una conquista, ma oggi non devono impedire di mirare alla parità dei risultati a livello elevato, vale a dire al raggiungimento del risultato massimo a cui ognuno può spingersi.

Per edificare una scuola che sia al servizio del Paese, prima che dell’economia e dei bisogni immediati (neanche sempre così eccelsi), è necessario chinarsi con passione e originalità sul senso di un’Istituzione così importante, affinché l’educazione di cittadini capaci di vivere in un mondo sempre più complesso e di partecipare alla realizzazione dell’intelligenza e della democrazia non debba necessariamente adeguarsi agli stretti abiti di un’organizzazione scolastica di stampo ottocentesco.

Spiace, rattrista e fa rabbia che vi siano anche dei professori che scrivono ’ste cretinate. Dall’alto della loro cattedra scrivono ai giornali e spiegano come va il mondo – meglio, come funziona la scuola secondo loro: sono spesso i medesimi che, nonostante tutte le infingardaggini, vorrebbero classi più piccole, maggiore riconoscimento sociale e, perché no?, qualche franco in più in busta-paga a fine mese.

In tempi recenti la pedagogia ha generato qualche insulto, come pedagogista, con o senza punto esclamativo, o pedagogismo. Colpa certamente anche di qualche mio collega «scienziato dell’educazione», che magari non ha mai messo piede in un’aula scolastica e fors’anche conosce solo i bambini e i ragazzi dei libri. Ma non è così che funziona, non è sufficiente sapere le cose per essere un insegnante efficace, entusiasta e appassionante, uno di quelli che fan camminare i loro allievi a un metro da terra all’uscita dalle loro lezioni. Purtroppo nella nostra repubblica uno può diventare uno specialista dell’insegnamento per il solo fatto di ottenere un posto di insegnante. Poi, da lì in poi, si può assurgere anche al ruolo di direttore o di ispettore, o addirittura di funzionario del dipartimento. È un po’ come se uno diventasse primario d’ospedale perché è già stato in cura da un medico o perché, una sera, ha dato un’aspirina alla moglie e gli è andata bene. A volte funziona. Più spesso è un disastro.

Assaporare la soddisfazione di un allievo che ha finalmente incontrato il piacere di imparare o la gioia di capire è tutt’altra cosa. La storia della pedagogia e delle idee pedagogiche, almeno da Rousseau e Pestalozzi in qua – una storia che ha ancor oggi molto da raccontare e da insegnare –, non può essere ridotta a un selfie.

La scuola che verrà tra idioti specializzati e cittadini educati

A poche settimane dal lancio del progetto dipartimentale «La scuola che verrà», che mira a un riesame di tutta la scuola obbligatoria, con l’intento di migliorarla e cambiarla, ecco una nuova proposta, non certo estemporanea, pubblicata su «Il Caffè» dell’8 marzo da Renato Martinoni, professore ordinario di letteratura italiana nell’università di San Gallo. «I programmi scolastici sono troppo carichi», ha scritto; ciò nondimeno «c’è una materia che manca troppo spesso e che andrebbe introdotta con più forza nelle scuole: l’economia».

È difficile non essere d’accordo, tanto che, al di là di alcune sottigliezze, si sono già espressi favorevolmente alcuni autorevoli economisti, come pure l’attuale ministro dell’educazione. L’economia, come nuova disciplina scolastica, farebbe parte delle materie fondate sul sapere, come la biologia, la fisica e la chimica, la matematica, la letteratura, la storia e la geografia, l’informatica, la lingua materna e le lingue seconde. Analogamente, accanto all’economia, si potrebbe sollecitare l’insegnamento della psicologia e della psicanalisi, della sociologia, delle scienze politiche, del diritto, dell’architettura e dell’urbanistica, tutte discipline altrettanto importanti. La scuola, però, ha le sue definizioni. Ecco allora, per sovrapprezzo, una serie di «educazioni», che solo in apparenza sembrano più sfumate: educazione musicale, fisica, artistica, civica, sessuale, interculturale, religiosa, stradale, morale; eppoi l’educazione ai mass-media, alla salute, allo sviluppo sostenibile, al non sessismo e via elencando. A questo punto dovrebbe essere chiaro che tra il dire e il fare c’è di mezzo ben più del mare. Perché poi, dietro ogni denominazione, ci sono dei contenuti da scegliere. Aggiungerei che, in linea generale, la scuola pubblica e obbligatoria, che non è un semplice corso specifico per imparare l’origami o realizzare un bonsai, vuole educare cittadini consapevoli. È evidente che tra insegnare e educare c’è una differenza abissale, che obbliga a scelte precise, di contenuti, di metodi e di ambiente pedagogico.

Così, tra le tante proposte e i tanti proclami che si sentono in giro, prediligo quello della filosofa e docente Lina Bertola, che dalle colonne della «Regione» ha gridato il suo «Il re è nudo», proprio come il bimbetto della favola di Andersen: «Il senso e il valore della scuola non si misurano sulla quantità di saperi utili e immediatamente spendibili che è in grado di offrire. Perché la scuola è un’altra cosa, è un’esperienza di senso. Rispetto alla simultaneità e ubiquità di un sapere/informazione immediatamente spendibile, fuori dal tempo, l’esperienza della conoscenza, a scuola, è stare nel tempo: stare nel tempo dell’ignoranza che ti apre alle domande, nel tempo della bellezza che nutre il contatto con sé stessi, nell’incontro con la conoscenza e il tempo dell’inutilità, di ciò che è bello e buono e vero, e trattiene in sé il suo senso». Sono almeno cinquant’anni che non ci chiniamo più sul senso fondatore della nostra scuola dell’obbligo, sulla sua ragion d’essere. Ora è tempo. Alle questioni economiche penseremo poi. Perché l’educazione non può fare a meno della conoscenza, ma di idioti specializzati ce n’è già in giro a sufficienza. Per difendere e consolidare la democrazia serve l’educazione, non un ammasso di nozioni, magari messe lì alla rinfusa, a seconda dei bisogni fugaci del momento.

[Qui il testo dell’articolo di Lina Bertola: Il senso della scuola, La Regione Ticino del 26 marzo 2015].

La politica scolastica ai tempi della campagna elettorale

Mi devo scusare con gli amici che mi seguono senza risiedere in questa minuscola repubblica che si chiama Canton Ticino, 350 mila anime, compresi minorenni e stranieri, che quando fanno politica sembrano gli USA o i più blasonati paesi europei. Mi devo scusare con loro, dicevo, perché oggi voglio parlare della campagna elettorale in vista del rinnovo dei poteri cantonali, che si concluderà domenica 19 aprile. E vada come deve andare, o come può.

Da quand’ero un ragazzino fino alla maggiore età ho vissuto un Consiglio di Stato con due liberali radicali, due popolari democratici (democristiani, per chi non vive qui) e un socialista (socialdemocratico). Nel 1987 avvenne il primo terremoto: i due principali partiti socialisti – quello tradizionale, socialdemocratico, e quell’altro marxista leninista e pure rivoluzionario, nato da una scissione nel 1969 – conquistarono due seggi in governo, a scapito dei democristiani. Quest’ultimi avrebbero riconquistato il seggio nel quadriennio successivo, ma già nel ’95 l’avrebbero ceduto alla Lega dei Ticinesi, “movimento” nato nel 1991, chiaramente ispirato dalle Lega lombarda.

Quattro anni fa il popolo sancì un Consiglio di Stato a maggioranza leghista (due ministri), con un liberale radicale, un democristiano e un socialista a reggere le sorti esecutive della repubblica. Oltre a ciò il minimo di gruppi parlamentari per fare maggioranza assoluta è passato da due a tre.

Transeat su cosa è e non è successo durante questo disgraziato quadriennio, una specie di ininterrotta campagna elettorale. Ma, guardandoci attorno, potremmo dire di appartenere all’Europa, pur essendo la Svizzera un paese “extra-comunitario”.

Così fra un paio di settimane cambierà tutto (ehm ehm). O forse nulla, indipendentemente da chi “vincerà” (di solito vincono tutti) e da chi “perderà” (rara avis).

Mi ha sempre colpito il fatto che, un po’ dappertutto, le campagne elettorali siano centrate sugli esecutivi – nel nostro caso il Consiglio di Stato – benché, secondo la teoria che t’insegnano anche a scuola, il Legislativo sia più importante (ah, l’educazione civica!). Così succede assai spesso che vi siano frizioni di fondo tra Esecutivo e Legislativo. E che in questo consesso non siano eletti i migliori, quelli politicamente più profilati e, perché no?, più competenti. Invece no, sempre più finiscono in parlamento i più utili ai maggiorenti, i più flessibili e quelli che meglio azzeccano la vendita di sé stessi.

Cicerone al senato romano
Cicerone al senato romano

Dieci partiti in lizza (13 per il Gran consiglio), 41 ministri in pectore, 624 potenziali parlamentari: una manna per tipografi e fornitori di gadget. Un tormento per chi, come me, dovrà scegliere a chi dare la preferenza. Malgrado l’esiguità del paese, personalmente conosco davvero pochi candidati. Di questi pochi, una buona maggioranza non li voterò, un po’ proprio perché li conosco, un altro po’ perché l’amicizia è una cosa e la politica, a volte, un’altra. Poi bisogna cercare di farsene un’idea, seguendo qualche dibattito, leggendo qualche articolo: sempre con la precauzione che il periodo è assai fertile per le imposture, le più improbabili fanfaluche e le ipocrisie equivoche e untuose.

Va da sé che alcune idee me le faccio leggendo ciò che si scrive a proposito della scuola, della formazione e dell’educazione. Si è parlato molto del progetto dipartimentale «La scuola che verrà», che annovera, tra i difetti più cospicui, il momento in cui è stato presentato (metà dicembre dello scorso anno). Ho ascoltato una sera il ministro Manuele Bertoli durante un dibattito in TV. Li aveva tutti contro, o quasi. Le elucubrazioni attorno a questo progetto sono tante. Non può stupire l’interpretazione pretestuosa, cavalcata da tanti candidati con reggicoda al seguito, secondo cui questa riforma abbasserebbe irrimediabilmente il livello della scuola dell’obbligo. La difesa televisiva del ministro mi è sembrata onesta e convinta. Mi sembra più in chiaro lui, da politico, di qualche suo funzionario al dipartimento. Come ha bene osservato la filosofa Lina Bertola (La Regione Ticino del 26 marzo), come e attraverso cosa realizzare la riforma ha largamente soffocato la riflessione sul senso profondo della scuola. Ma di ciò parlerò prossimamente e in maniera più mirata.

Qui mi piace invece segnalare uno scritto onesto e decisamente fuori dal coro delle tante prefiche che sparano ad alzo zero sulla scuola che verrà, forse perché è maturata col primo ministro socialista dell’educazione dopo tanti decenni, o forse perché si immagina che la maggior parte degli elettori voglia sentirsi dire quelle cose lì. Si tratta di un breve scritto di Nicola Pini, pubblicato su La Regione Ticino del 2 aprile, sotto la rubrica «Il Dibattito», La scuola deve venire. L’impressione che ne ho ricavato è che Pini conosca l’argomento di cui parla e lo faccia con la ragione, del tutto fuori dal gregge.

Nicola Pini è uno di quelli che non conosco personalmente (v. sopra). Non l’ho mai visto, neanche da lontano. Però, dopo aver letto l’articolo citato, mi sono incuriosito. E nel suo sito “elettorale” ho trovato alcune riflessioni interessanti: sul consigliere federale Georges-André Chevallaz (1915-2002) e sull’utilità di una formazione umanista in campo tecnico; su Norberto Bobbio; sulla discesa in campo di Silvio Berlusconi. E altre.

 

La memoria e le immagini: gli allievi di Ascona incontrano Paolo Di Stefano

LOGO Piazzaparola 2015 da locandinaÈ la seconda volta che ho il piacere di organizzare ad Ascona, nell’ambito degli Eventi letterari Monte Verità, un momento letterario con un gruppo di allievi di scuola elementare, nel solco tracciato da Piazzaparola, la manifestazione ideata e realizzata dalla società Dante Alighieri di Lugano.

Quest’anno l’appuntamento era per venerdì 27 marzo 2015 in Piazza Elvezia, sul magnifico lungolago di Ascona. Ad attenderci un’ottantina di allievi di 4ª e 5ª elementare delle scuole comunali del borgo. È stata l’occasione per discutere anche noi, come i convenuti al Monte Verità, di utopia e di memoria, ospitando il giornalista, critico letterario e scrittore Paolo di Stefano, autore, tra tanti altri testi di grande interesse, di un bel romanzo per ragazzi, I pesci devono nuotare, un libro del 2013 edito da Fabbri: un romanzo attuale e intenso, una storia di migrazione alla ricerca di un mondo migliore e di migliori condizioni di vita.

EventiLetterari_0284Condotto da me e da Raffaella Castagnola, ideatrice e trascinatrice di Piazzaparola, l’incontro si è sviluppato attraverso la lettura di tre brani da I pesci devono nuotare e di un capitolo di Pinocchio (il XIX, scelto dallo stesso Paolo Di Stefano: Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro e, per gastigo, si busca quattro mesi di prigione) per la voce della bravissima attrice Cristina Zamboni. La (solo apparentemente) strana combinazione tra Pinocchio e Tawfik, il ragazzo egiziano protagonista de I pesci…, ha permesso la riflessione su alcune analogie tra i due protagonisti, sul valore dei sogni e della memoria, sul ruolo salvifico di alcuni personaggi femminili dei due romanzi (la fata Turchina e Marlene).

Gli allievi, attentissimi e interessati, hanno mostrato di apprezzare la proposta, tanto che, dopo le serie di letture e spiegazioni di noi adulti, hanno tempestato di domande Paolo Di Stefano: anche perché non succede tutti i giorni di poter dialogare con uno scrittore in carne e ossa.

È possibile scaricare qui uno dei brani da “I pesci devono nuotare” proposto agli allievi asconesi.

Ascona 2015 - 0298

Le foto sono di Ivana de Maria.

L’arte sottile del sillogismo

Senza voler scomodare “il gran padre Dante” (O insensata cura de’ mortali / quanto son difettivi sillogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali!) devo parlare di una sintetica intervista che m’è capitato di leggere in questi giorni. «Cooperazione», il settimanale del gruppo Coop, ha dedicato un servizio garbato al tema delle pluriclassi, con una specie di omaggio alle quattro pentaclassi che sopravvivono in Ticino – Microcosmo di periferia – presenti a Locarno-Monti, a Personico, Ronco s/Ascona e Bissone.

Chi mi conosce e mi segue in questo sito sa che nutro grande stima delle pluriclassi e dell’eterogeneità. Ma mi ha colpito, nel servizio di «Cooperazione», la breve intervista a Mirko Guzzi, direttore dell’Ufficio cantonale delle scuole comunali. È sintetica quanto basta per poterla riproporre qui di seguito.

 

In Ticino sono rimaste solo quattro pentaclassi. È un modello destinato a sparire?

Non per forza. La pentaclasse non rappresenta mai una scelta didattica. Bensì una conseguenza dei numeri legati a piccole realtà periferiche. Alcuni comuni hanno davvero pochi bambini. Per non chiudere la scuola, si crea così una pentaclasse. Sono la demografia e la geografia a imporlo.

Pedagogicamente quali sono i vantaggi di questo modello?

Più classi nella stessa sezione rappresentano una ricchezza per l’allievo. Per esempio, si ha la possibilità di acquisire competenze con modalità e tempi diversi, si sviluppa la capacità di lavorare in modo autonomo, si capisce il valore formativo dei momenti di scambio. Per il docente è, però, impegnativo coordinare il tutto. Per forza di cose è costretto a fare delle scelte. Va detto, tuttavia, che nemmeno le monoclassi sono omogenee e la capacità di differenziare deve fare parte dell’Abc dell’insegnante.

Il futuro della scuola svizzera, e ticinese, è HarmoS. In quest’ottica che valore assume il concetto di pluriclasse?

È in corso un dibattito interessante. Una delle ipotesi è quella di avere la prima e la seconda elementare nella stessa sezione, in modo da creare un vero primo ciclo, per avere più continuità con la scuola dell’infanzia, diventata obbligatoria. Questa idea potrebbe facilitare il passaggio dei bambini alla scuola elementare, aprendo interessanti possibilità per gestire accelerazioni o rallentamenti del percorso scolastico. Per quanto riguarda terza, quarta e quinta elementare, la questione è più delicata, anche perché l’articolazione dei piani di studio è più complessa.

 

Ed ecco il sillogismo insuperabile.

  • Più classi nella stessa sezione rappresentano una ricchezza per l’allievo: si ha la possibilità di acquisire competenze con modalità e tempi diversi, si sviluppa la capacità di lavorare in modo autonomo, si capisce il valore formativo dei momenti di scambio.

Dato però che per il docente è impegnativo coordinare il tutto:

  • la pentaclasse non rappresenta mai una scelta didattica (e, perché no?, pedagogica), ma è imposta dai numeri. Sono la demografia e la geografia a imporlo.

Per dirla tutta, conviene sempre omologare il più possibile, al di là delle evidenze. Lasciando perdere gli studi di Ferrière sulle influenze astrologiche, che potrebbero contribuire a guidare la formazione migliore delle classi, sarebbe utile studiare altri sistemi di uniformazione, per superare l’ormai ammuffito criterio dell’età. Lo attesta anche il prof. Guzzi nell’intervista citata: «Nemmeno le monoclassi sono omogenee».

Ma guarda un po’?!