Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

Una chiacchierata radiofonica

Martedì 10 febbraio ’15 ho preso parte a «Diritti e rovesci», il nuovo programma della Rete 1 della nostra radio in diretta da lunedì a venerdì, dalle nove alle dieci. Come recita la descrizione ufficiale, «Diritti e Rovesci vuole provare a “rovesciare” la tendenza comune, permettendo ai chiari e agli oscuri di definirsi (dapprima) e poi dialogare, per vedere dall’altra parte tracce di possibili contaminazioni interessanti. Insomma due ospiti, due opinioni da difendere e forse anche un accordo finale!».

Non è certo un programma di approfondimento. Credo tuttavia che non sia sano coltivare troppa puzza sotto il naso: dialogare con chi sosteneva la tesi a rovescio rispetto alla mia è stato divertente, e non credo inutile.

Si può ascoltare l’intera trasmissione – con la conversazione, le schede, i brani musicali – nel sito del programma: Educazione genitoriale rigida o educazione dolce (durata 50 minuti).

Vivere la cittadinanza, un requisito per poterla imparare

Brutta bestia, l’educazione alla cittadinanza. Più che la matematica e le tante discipline scolastiche, essa esige condizioni di apprendimento che travalicano le quattro mura dell’aula. Per dire che non è sufficiente mandare a memoria le definizioni dei tre poteri dello Stato per esser diventato un cittadino consapevole, uno che contribuisce concretamente alla vita, possibilmente serena e pacifica, del Paese. Il cittadino consapevole lo si riconosce quando compila la dichiarazione delle imposte, quando legge o non legge i quotidiani, e quali legge e cosa legge; lo si capisce quando espone le sue idee sui tanti blog e social network, magari mettendoci la firma; lo si valuta per come rispetta o disprezza le istituzioni.

Se n’è accorta la Francia, all’indomani dei tragici avvenimenti d’inizio gennaio. La République è sicuramente il paese europeo che investe di più in materia di educazione civica. Come ha sottolineato Le Monde, «è il solo paese in cui i corsi di educazione civica figurano nella griglia oraria, dalla scuola elementare al liceo, ed è l’unico ad avere un modello pedagogico tanto completo da unire lezioni, partecipazione degli allievi alla vita del loro istituto e progetti educativi sulla cittadinanza. I programmi spaziano dalle istituzioni della Repubblica e dei suoi valori alle regole della civile convivenza, passando attraverso l’educazione allo sviluppo sostenibile, ai mass media, alla salute, e via di seguito». Questo, almeno, in teoria e sulla carta, come spesso accade. Eppure il primo ministro Manuel Valls ha sentito il dovere di affermare che «la cittadinanza – non parliamo di integrazione, dimentichiamo le parole che non significano nulla – ha bisogno di essere rifatta, rinforzata, legittimata». E, riferendosi alle banlieue, ha aggiunto che in Francia esiste «un’apartheid territoriale, sociale, etnica».

Ma che significa? Cosa c’entra l’apartheid con la scuola e l’educazione alla cittadinanza? Non servono chissà quali sforzi di immaginazione per figurarsi una scuola dell’obbligo di un sobborgo parigino nel quale nessuno è intervenuto per evitare forme estreme di ghettizzazione economica e socioculturale. È anche in quelle scuole che lo Stato repubblicano si gioca la credibilità. Quale educazione civica potrà mai svilupparsi in un quartiere popolare, se la sede scolastica accoglie per lo più ragazzi e adolescenti il cui futuro è bollato dall’emarginazione sin dalla culla? Dove sono l’uguaglianza, la solidarietà e la fratellanza, i grandi valori repubblicani che dovrebbero sostenere il progetto di educazione alla cittadinanza? Per imparare a conoscere i valori della società è necessario crescere in quella società e incontrare giorno dopo giorno i propri concittadini, in un contesto sociale e scolastico immune da ogni forma di segregazione. Anche nel nostro piccolo cantone ci sono istituti scolastici in cui l’esperienza civica quotidiana si fa vieppiù difficile. Certo, la Svizzera e il Ticino non sono la Francia. Ma le vie dell’esclusione e dell’emarginazione sono subdole e solo apparentemente enigmatiche. Forse è giunto il momento, soprattutto a livello di scuola media, di ripensare seriamente almeno due principi costitutivi: quello della massima mescolanza socioculturale e quello delle dimensioni. Perché, guarda te il caso!, più le scuole sono affollate, più la scala sociale s’abbassa. Quando oltre un terzo degli allievi è in difficoltà scolastica e sociale, educare, e non solo alla cittadinanza, diventa un problema.

La democrazia tra competenze, maggioranze e punti di vista

Sul Corriere del Ticino di martedì 3 febbraio Alberto Siccardi, promotore e agit-prop dell’iniziativa popolare «Educhiamo i giovani alla cittadinanza», se la prende per l’ennesima volta con il Governo, il DECS e il Gran Consiglio per le lungaggini che caratterizzano la discussione sull’iniziativa che, nella primavera del 2013, aveva raccolto in poco tempo oltre 10 mila firme. La sua presa di posizione, pubblicata nella rubrica L’Opinione col titolo «La civica nelle scuole: ostruzionismo statale», è comprensibile e legittima, almeno per certi versi; anche se verrebbe da dire che una persona civicamente educata e istruita dovrebbe conoscere i tempi della democrazia e sapere che, rispetto alle dittature e alle libere imprese, i tempi della democrazia diretta sono particolari: et pour cause.

Non so se corrisponde al vero che lo Stato stia facendo ostruzionismo. Forse c’è un po’ di melina, perché i giocatori in possesso di palla rallentano il gioco con passaggi leziosi. Sicuramente la posizione del Dipartimento dell’Educazione è poco chiara, dal momento che sta cercando una specie di quadratura del cerchio, nel tentativo di risolvere contemporaneamente le richieste dell’iniziativa sull’educazione civica e le istanze sull’educazione religiosa, nelle sue diverse sfaccettature.

Non condivido però il tono di Siccardi, a cavallo tra il vittimismo della minoranza – che poi minoranza non è – e certi modi da Sessantotto al contrario. Scrive ad esempio che certe frange della sinistra hanno accusato i promotori dell’iniziativa di essere fascisti e retrogradi. In tutti questi mesi non ho avvertito questo clima un po’ datato – anche se, bisogna pur dirlo, tra i promotori dell’iniziativa si incontrano diverse persone che del dileggio e dell’insulto a chi la pensa in altro modo hanno dettato e imposto un nuovo stile del dibattito politico. Non è il caso di Alberto Siccardi, col quale ho avuto modo più volte di discutere della “sua” iniziativa in modo civile e garbato: ecco perché questa sua Opinione sul Corriere mi suona un po’ come una caduta di stile.

Detto questo, chi mi segue in questo sito e chi legge la mia rubrica sul Corriere del Ticino sa che non condivido né le proposte dell’iniziativa di Siccardi & co., né i goffi tentativi del DECS e dei suoi tentacoli politici, sindacali e lobbistici di (non) risolvere i veri problemi che tormentano la scuola in rapporto alle sue finalità fondatrici.

È sufficiente inserire la parola cittadinanza nel riquadro apposito per trovare tante mie opinioni sul tema. Malauguratamente il dibattito pubblico è tutto da altre parti, apparentemente a sinistra e a destra, col rischio che gli interessi di partito o di area politica travalichino il nocciolo del discorso: ch’è poi quel che dovrebbe contare di più. E si badi bene che io non mi sento al centro.

Non scrivo ’ste cose per autocommiserazione o paranoia. Ma educare alla cittadinanza non è una questione che si può risolvere col bilancino del farmacista o con trattative da ragioniere. Non è, insomma, una questione di griglie orarie, di note sul libretto o di sciocche definizioni. Per quel che ho letto e capito, l’iniziativa «Educhiamo i giovani alla cittadinanza» pretende in sostanza che la scuola istruisca i giovani, così che conoscano, in teoria e a memoria, alcuni principi che fondano il nostro Paese: più “cose” conosci a memoria, più alta sarà la nota sul libretto, che farà media con le note delle altre discipline.

È una questione di chiarezza, perché l’istruzione è una cosa, l’educazione un’altra. Le parole non sono un optional, bisognerebbe usarle nel loro significato, a meno che non si considerino sinonimi l’istruzione e l’educazione, che per me restano comunque cose diverse, checché ne dicano e ne pensino i poteri che decidono.

Vi sono persone molto istruite, ma civicamente maleducate. Mi è venuto in mente un breve passaggio di un romanzo che sto leggendo in questi giorni, «Il male non dimentica», di Roberto Costantini (2014, Marsilio): «Vorrei parlare un po’, ma mio fratello è a Londra per studiare l’inglese e fare amicizie utili. Per imparare a rubare legalmente, come sostiene» sua madre (pag. 88).

E vi sono persone poco istruite, ma talmente educate che non raccontano frottole quando compilano la dichiarazione per le imposte, fanno cortesemente la coda allo sportello, rispettano lo Stato e i suoi rappresentanti anche quando non sono d’accordo, dànno dei lei sia al consigliere di stato che al cameriere che porta in tavola la pizza; leggono i giornali e ascoltano i dibattiti televisivi, ma non pendono dalle labbra di nessuno; pagano i contributi sociali e stanno alla larga da mazzette e inciuci col potere. E non rubano legalmente.

È quasi logico che, in questi tempi di politica da stadio e di posizioni in bianco e nero, il dibattito sull’educazione alla cittadinanza si riduca all’ennesima (inutile) discussione tra posizioni inconciliabili: inconciliabili perché, tutto sommato, da una parte e dell’altra si evita di andare al centro del problema, che è più complesso di come si tenta di sdoganarlo nell’arengo politico.

Non è un comportamento utile alla democrazia. Dato che non ho la sfera magica, non so come andrà a finire. Ma se nel frattempo non cambierà qualcosa di sostanziale nel dibattito, non potrà andare che male. Dovesse vincere l’iniziativa dei 10 mila e passa sottoscrittori non cambierebbe un ette, si svilirebbe l’insegnamento della storia, già ridotto ai minimi termini, e si nutrirebbero illusioni, funeste quasi per definizione. Dovesse prevalere il pensiero del DECS, invece, come sopra.

Credo che l’espressione Educare alla cittadinanza possa essere riassunta in un’unica parola: Educare. Un cittadino educato sa che non ha ragione che grida più forte, ma chi è in grado di dimostrare meglio. Appartenere alla maggioranza non significa ancora avere ragione: la democrazia, quella vera, è un’altra cosa.

I nonni e la ricchezza della testimonianza

Nei giorni scorsi i media hanno dato molto risalto a un’iniziativa dell’Associazione ticinese della Terza Età, idea nata nel 2005 nel Luganese e ora sbarcata anche nel Locarnese, dopo aver coinvolto il Bellinzonese e le sue Valli. Di che si tratta? Ha scritto questo giornale che il progetto è «un’iniziativa intergenerazionale gratuita nata dalla voglia di molti volontari di mettere a frutto le proprie esperienze e dalle esigenze di parecchi ragazzi di prima e seconda media, che non sempre in famiglia trovano un aiuto per far fronte alle difficoltà scolastiche». In sostanza, una specie di recupero scolastico gratuito. Là dove i professionisti dell’insegnamento fanno cilecca, ecco scendere in campo i nonni, a dare una mano a famiglie stressate con relativi pargoli a carico. Con un sorriso, si potrebbe dire che il mondo di sta ribaltando: dai figli «stampelle della vecchiaia» agli anziani sostegno di nipoti e bisnipoti.

Posso immaginare che, per quei ragazzetti che l’esperienza la vivono in diretta, l’appoggio non si fermi al recupero di qualche lacuna e, magari, di quei tre espedienti per riuscire a organizzarsi meglio e a costruire la propria indipendenza. Sono invece sicuro che queste collaborazioni siano contrassegnate proprio dall’incontro tra generazioni diverse. E allora io mi spingerei ben oltre, affinché gli anziani non diventino utili solo per metter le pezze agli strappi di una scuola che troppo spesso dimentica qual è il suo vero ruolo. Qualche anno fa le scuole comunali di Massagno, pungolate dal loro pirotecnico direttore, avevano dato vita a un progetto che mirava proprio a coinvolgere i nonni nella vita dell’istituto. Non so se quell’idea, semplice eppur geniale, sia ancora viva. Ma quello è un percorso facile, che tutti potrebbero intraprendere: perché in una società sempre più votata all’efficienza e alla produttività, l’incontro tra ragazzi e anziani porterebbe con sé la ricchezza della testimonianza. Perché i nonni hanno delle storie importanti da raccontare, e perché sanno narrare con grande emozione storie incantevoli.

Un omaggio a Philippe Meirieu nei giorni in cui siamo tutti Charlie

Chi mi conosce sa che ammiro da tanto tempo Philippe Meirieu, un uomo che, per me, non è solo un «semplice» professore di pedagogia, ma uno che da sempre si batte con tenacia, attraverso l’educazione, affinché Liberté, Égalité e Fraternité non restino solo dei semplici slogan, ma arrivino un giorno a costituire un sistema di valori appartenente a ogni donna e ogni uomo in ogni parte del mondo.

Sabato scorso (10 gennaio) la «sua» università, l’Università Lumière di Lione, gli ha reso omaggio nell’anno in cui andrà formalmente in pensione, essendo nato nel 1949. La manifestazione, intitolata Où vont les pédagogues? Regards et perspectives a partir des travaux de Philippe Meirieu, è stata l’occasione per una riflessione sul lavoro pluridecennale di uno dei pochi pedagogisti di radice umanista ancora in circolazione in Europa: il giusto sostegno a chi, di sicuro, continuerà a far sentire la sua voce e le sue idee attraverso i libri, le più importanti testate francesi, le televisioni, il web e le tante occasioni di incontro diretto in Francia e altrove. Cioè a dire: non sarà certo un semplice atto burocratico come il pensionamento a farlo tacere.

L’incontro lionese per l’omaggio a Philippe Meirieu ha coinciso coi giorni in cui la Francia ha vissuto l’attentato terroristico del 7 gennaio alla redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo. Sono stati i giorni in cui eravamo tutti Charlie.

Propongo così una sua intervista, rilasciata a Lyon Capitale TV e diffusa dal vivo in streaming il 9 gennaio, in cui Meirieu parla a tutto campo della possibilità e della necessità di controllare e padroneggiare l’odio verso l’Altro, che i fatti di questi giorni potrebbero facilmente nutrire: con una toccante e limpida riflessione finale sul ruolo della scuola repubblicana nell’educazione dei suoi cittadini.

Perché in questi giorni siamo tutti Charlie, ma dovremmo esserlo anche domani.

Je_suis_Charlie


Qui è possibile seguire integralmente la registrazione dell’incontro del 10 gennaio all’Università Lumière di Lione.

Tra i tanti qualificati interventi segnalo la conferenza introduttiva di Daniel Hameline (L’enclos, le seuil et l’esplanade, che inizia più o meno a 32 minuti) e l’intervento, a sorpresa, del filosofo Denis Kambouchner (inizio a 3 ore e 8 minuti), che nei primi anni di questo millennio si era opposto duramente alle politiche educative dell’epoca e aveva confutato severamente le posizioni di Philippe Meirieu (DENIS KAMBOUCHNER, Une école contre l’autre, 2000, Presses Universitaires de France).

Per terminare sottolineo le reazioni finali dello stesso Philippe Meirieu (inizio a 4 ore e 31 minuti).