Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

I nonni e la ricchezza della testimonianza

Nei giorni scorsi i media hanno dato molto risalto a un’iniziativa dell’Associazione ticinese della Terza Età, idea nata nel 2005 nel Luganese e ora sbarcata anche nel Locarnese, dopo aver coinvolto il Bellinzonese e le sue Valli. Di che si tratta? Ha scritto questo giornale che il progetto è «un’iniziativa intergenerazionale gratuita nata dalla voglia di molti volontari di mettere a frutto le proprie esperienze e dalle esigenze di parecchi ragazzi di prima e seconda media, che non sempre in famiglia trovano un aiuto per far fronte alle difficoltà scolastiche». In sostanza, una specie di recupero scolastico gratuito. Là dove i professionisti dell’insegnamento fanno cilecca, ecco scendere in campo i nonni, a dare una mano a famiglie stressate con relativi pargoli a carico. Con un sorriso, si potrebbe dire che il mondo di sta ribaltando: dai figli «stampelle della vecchiaia» agli anziani sostegno di nipoti e bisnipoti.

Posso immaginare che, per quei ragazzetti che l’esperienza la vivono in diretta, l’appoggio non si fermi al recupero di qualche lacuna e, magari, di quei tre espedienti per riuscire a organizzarsi meglio e a costruire la propria indipendenza. Sono invece sicuro che queste collaborazioni siano contrassegnate proprio dall’incontro tra generazioni diverse. E allora io mi spingerei ben oltre, affinché gli anziani non diventino utili solo per metter le pezze agli strappi di una scuola che troppo spesso dimentica qual è il suo vero ruolo. Qualche anno fa le scuole comunali di Massagno, pungolate dal loro pirotecnico direttore, avevano dato vita a un progetto che mirava proprio a coinvolgere i nonni nella vita dell’istituto. Non so se quell’idea, semplice eppur geniale, sia ancora viva. Ma quello è un percorso facile, che tutti potrebbero intraprendere: perché in una società sempre più votata all’efficienza e alla produttività, l’incontro tra ragazzi e anziani porterebbe con sé la ricchezza della testimonianza. Perché i nonni hanno delle storie importanti da raccontare, e perché sanno narrare con grande emozione storie incantevoli.

Un omaggio a Philippe Meirieu nei giorni in cui siamo tutti Charlie

Chi mi conosce sa che ammiro da tanto tempo Philippe Meirieu, un uomo che, per me, non è solo un «semplice» professore di pedagogia, ma uno che da sempre si batte con tenacia, attraverso l’educazione, affinché Liberté, Égalité e Fraternité non restino solo dei semplici slogan, ma arrivino un giorno a costituire un sistema di valori appartenente a ogni donna e ogni uomo in ogni parte del mondo.

Sabato scorso (10 gennaio) la «sua» università, l’Università Lumière di Lione, gli ha reso omaggio nell’anno in cui andrà formalmente in pensione, essendo nato nel 1949. La manifestazione, intitolata Où vont les pédagogues? Regards et perspectives a partir des travaux de Philippe Meirieu, è stata l’occasione per una riflessione sul lavoro pluridecennale di uno dei pochi pedagogisti di radice umanista ancora in circolazione in Europa: il giusto sostegno a chi, di sicuro, continuerà a far sentire la sua voce e le sue idee attraverso i libri, le più importanti testate francesi, le televisioni, il web e le tante occasioni di incontro diretto in Francia e altrove. Cioè a dire: non sarà certo un semplice atto burocratico come il pensionamento a farlo tacere.

L’incontro lionese per l’omaggio a Philippe Meirieu ha coinciso coi giorni in cui la Francia ha vissuto l’attentato terroristico del 7 gennaio alla redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo. Sono stati i giorni in cui eravamo tutti Charlie.

Propongo così una sua intervista, rilasciata a Lyon Capitale TV e diffusa dal vivo in streaming il 9 gennaio, in cui Meirieu parla a tutto campo della possibilità e della necessità di controllare e padroneggiare l’odio verso l’Altro, che i fatti di questi giorni potrebbero facilmente nutrire: con una toccante e limpida riflessione finale sul ruolo della scuola repubblicana nell’educazione dei suoi cittadini.

Perché in questi giorni siamo tutti Charlie, ma dovremmo esserlo anche domani.

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Qui è possibile seguire integralmente la registrazione dell’incontro del 10 gennaio all’Università Lumière di Lione.

Tra i tanti qualificati interventi segnalo la conferenza introduttiva di Daniel Hameline (L’enclos, le seuil et l’esplanade, che inizia più o meno a 32 minuti) e l’intervento, a sorpresa, del filosofo Denis Kambouchner (inizio a 3 ore e 8 minuti), che nei primi anni di questo millennio si era opposto duramente alle politiche educative dell’epoca e aveva confutato severamente le posizioni di Philippe Meirieu (DENIS KAMBOUCHNER, Une école contre l’autre, 2000, Presses Universitaires de France).

Per terminare sottolineo le reazioni finali dello stesso Philippe Meirieu (inizio a 4 ore e 31 minuti).

La scuola che verrà, i conservatori e la riscossa dei gattopardi

Propongo oggi un articolo che avevo pensato per la prima puntata del 2015 di «Fuori dall’aula». Poi, invece, mi sono accorto che la mia rubrica sul Corriere del Ticino sarà in congedo ancora fino a febbraio: attendere ancora un mese mi avrebbe fatto correre il rischio di firmare un articolo sorpassato da altri interventi sostanziali. Così eccolo qua, col suo solito taglio e il suo tradizionale metraggio.


«La scuola che verrà». Detto così sembra il titolo di una canzonetta da notte di San Silvestro. Invece è un ambizioso progetto del nostro Dipartimento dell’educazione, una sorta di manifesto per la scuola dell’obbligo del futuro prossimo. Ha scritto il ministro Bertoli nella prefazione: «Con questo progetto vogliamo migliorare il quadro entro cui avviene l’apprendimento degli allievi, affinché tutti loro possano imparare meglio e costruire un sapere più solido. È quanto si attendono i genitori, è l’obiettivo professionale di tutti gli insegnanti e deve poter diventare il fine ultimo dell’intera nostra comunità, che nella formazione dei suoi giovani si gioca un bel pezzo del proprio futuro». Effettivamente le poco più di 40 pagine del documento tratteggiano diversi cambiamenti sui quali gioverebbe aprire un dibattito schietto e rigoroso, senza le censure, i vincoli, le minacce e i pregiudizi che caratterizzano quasi sempre questi ammirevoli tentativi.

Ma non sarà così. Nei pochi giorni tra la presentazione del dossier e le vacanze natalizie si sono subito levate voci tra l’allarmato e lo sdegnato. Il Movimento della scuola, ad esempio, si è già messo di traverso: «In certe riforme troppi scienziati dell’educazione», titolava questo giornale. E mentre il direttore del Corriere invitava alla prudenza, il mondo imprenditoriale liquidava la pendenza in poche righe: secondo Silvio Tarchini si tratta dell’«ennesimo abbassamento della selettività della scuola. L’abolizione dei livelli porterà ad ulteriori difficoltà nel momento del passaggio nel mondo del lavoro»; gli ha fatto eco Fabio Regazzi: «Ritengo fondamentale ristabilire la meritocrazia, cosa però difficilmente raggiungibile con la soppressione di valutazioni e licenze». Voilà, il dibattito è servito. Tanti gattopardi, di sinistra e di destra, dentro la scuola o meno, sono ai blocchi di partenza. Gongolanti.

Personalmente vedrei con piacere una discussione a tutto campo sulla scuola che verrà, o che ognuno vorrebbe che venisse. Non mi spaventano le griglie orarie flessibili, la generalizzazione di una pedagogia differenziata (ma non c’era già?), o la collaborazione – tangibile! – tra docenti. Se c’è qualcosa che mi infastidisce, semmai, è che il gruppo di lavoro che ha tratteggiato la scuola di dopodomani è stato sin troppo prodigo di dettagli, o non ha saputo mollare del tutto il freno a mano. Qua e là si intuiscono soluzioni prêt-à-porter a problemi importanti e delicati, e questo non è un bene. La visione dipartimentale è ora in consultazione: chi volesse saperne di più o dire cosa ne pensa non ha che da digitare www.lascuolacheverra.ch.

Certo che l’entrata in campo non è stata delle più felici. Il Dipartimento che lancia un dibattito di tali dimensioni a pochi mesi dalle elezioni e in maniera del tutto inattesa – anche perché i più manco sapevano che c’era un gruppo di lavoro che sognava creando incubi – suscita qualche sospetto. Per il paese che vanta una delle prime facoltà di scienze della comunicazione non è un buon biglietto da visita. Detto questo è giusto ricordare che la scuola che verrà non è degli insegnanti, dei partiti, degli psicologi o dei funzionari; e non è nemmeno dei sindacati, delle associazioni magistrali e padronali, delle assemblee dei genitori. Non deve rispondere a interessi corporativi, finanziari, confessionali, ideologici, razziali o di genere. «La scuola che verrà» non è una canzonetta, ma la scuola dello Stato. Cioè di tutti.

È tempo di auguri

Quasi dieci mesi fa, dopo molte titubanze, ho aperto Cose di scuola. Non sapevo cosa aspettarmi, ma ho creduto utile creare uno spazio mio, per parlare a ruota libera di cose educative e scolastiche in un momento storico che, secondo la mia personale lettura del mondo della scuola e dei suoi dintorni, sembra soggiogato da tanti tecnicismi e da un conservatorismo che rasenta l’immobilismo, seppur travestito da immagini avveniristiche, benché ormai logore e rinsecchite: «la scuola cantiere perennemente aperto», «la scuola in cui investire per il futuro dei nostri giovani» e via metaforizzando.

Una-gocciaCon grande stupore, ho preso atto che in questi dieci mesi Cose di scuola è stato visitato oltre 10 mila volte, durante le quali sono state viste circa 25 mila pagine. È vero che i commenti pubblicati restano pochini, ciò che impedisce il dialogo (ma ricevo sovente commenti personali di chi preferisce non uscire sul balcone). È altrettanto vero che ogni articolo è solo una minuscola goccia, che probabilmente si perde nelle immensità degli oceani più noti. Ritengo che accanto alla bio-diversità ci sia posto anche per l’ideo-diversità.

Pochi giorni fa il nostro Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport (insomma, mens sana in corpore sano) ha diffuso il suo progetto per il futuro prossimo: «La scuola che verrà». In pochi giorni abbiamo già letto le coordinate di quel che s’annuncia come un funeralone d’altri tempi, con la banda che strimpella la Marcia di Chopin e quattro pariglie di possenti frisoni che trainano il carro con le misere spoglie di un aborto. Non ci saranno le prefiche. I discorsi, invece, sì. Forse.

I Grandi Conservatori, i più furbi Gattopardi della nostra epoca, hanno già diffuso i primi bollettini medici. La prognosi è riservatissima.

Ma di queste cose avremo tempo di scrivere e parlare nei prossimi mesi.

Questi, invece, sono i giorni delle Feste, quando tutti si vogliono più bene. Lo si vede subito. Stamattina ho fatto un salto in città. Girava un sacco di gente che correva qua e là, come palline del flipper. Erano tutti talmente buoni, per via del Natale imminente, che sembravano gnomi della Bahnhofstrasse (quella di Zurigo, e quale sennò?) nell’incombenza di un crac di proporzioni epocali.

Tanti tanti auguri, ad ogni modo, a tutti quelli che, per scelta o per caso, conosciuti o sconosciuti, visitano questa mia piazzetta virtuale; e poi, magari, sorridono, annuiscono o smoccolano come si deve. Grazie, qualunque sia la reazione.

«La Svizzera nella storia», un manuale scolastico di gran pregio

Ammetto che ho sempre fatto fatica a intendere come mai l’insegnamento della storia sia stato tanto deprezzato durante la lunga stagione delle riforme scolastiche avviata quasi mezzo secolo fa. Nel dicembre del 2007 «Discours Suisse», un progetto sostenuto dalla Confederazione, aveva segnalato che «Nella maggior parte delle scuole di tutte le regioni linguistiche l’insegnamento della storia svizzera viene trascurato». A dirla tutta a esser trascurato è semplicemente l’insegnamento della storia, prima che di quella svizzera, come se la capacità di storicizzare una qualsiasi realtà fosse una competenza di niuna importanza. È però facilmente comprensibile che il tentativo di capire il presente in una prospettiva storica contribuisce ad avere una testa ben fatta, capace di pensare: può dare fastidio. Tant’è. La nostra scuola media prevede la dotazione di due ore settimanali di insegnamento, per intenderci un’ora in meno della ginnastica (pardon: dell’educazione fisica), col rischio concreto che in tempi brevi il tempo a disposizione sia ulteriormente decurtato, per far posto all’educazione civica, materia che, secondo un’iniziativa popolare ancora in attesa di discussione formale e di verdetti, dovrebbe diventare disciplina a sé stante, con tanto di nota sul libretto, e con uno spazio nella griglia oraria della scuola media rapinato proprio alla storia, che è un po’ come dire che la storia e l’educazione alla cittadinanza non hanno nulla a che fare l’una con l’altra.

A dispetto del quadro poco inebriante, soprattutto per chi è sul campo, il DECS non ha desistito ed è andato all’attacco, promovendo la pubblicazione di un manuale per l’insegnamento della storia nella scuola media, il cui primo volume – che dal paleolitico ci porta al XVI secolo – era stato pubblicato un anno fa. Ne avevo scritto in toni calorosi, prima di tutto per l’opzione deliberata di «inserire pienamente la storia nazionale nel processo politico, economico, sociale e culturale dell’Europa e del mondo», tanto che «il manuale si orienta verso un altro tipo di impostazione: la Svizzera non come risultato di un caso isolato, ma punto di arrivo di una rete di relazioni che hanno condizionato e favorito determinate scelte al posto di altre». Finalmente fuori dal Sonderfall, com’è giusto che sia.

È di questi mesi l’arrivo nelle classi del secondo volume, che conferma l’ottima impressione destata dal primo, con questa decisione moderna e originale di raccontare il percorso della Svizzera nella storia, a differenza di una tradizione didattica che – o tempora, o mores! – prediligeva un percorso, come dire?, più «patriottico», con una preistoria un po’ da favola, e poi i buoni elvezi, i miti nazionali, le battaglie epiche e il ridotto alpino. Il nuovo volume conserva le scelte di partenza e ha il coraggio di sfatare un principio di comodo che sconsiglia di avvicinarsi troppo alla contemporaneità, tanto da spingersi fino all’«Età dell’incertezza tra globalizzazione, ‘deregulation’ e neoliberismo», parlando pure di poste e telefoni, del fallimento di Swissair, della crisi finanziaria del 2008, con tanto di salvataggio di UBS da parte dello stato. Si tratta insomma di una proposta di grande valore documentario, culturale e didattico, che non sarebbe male poter trovare anche nelle normali librerie, a disposizione di chi la scuola dell’obbligo l’ha frequentata tanto tempo fa e che magari della Svizzera nella storia non ha mai capito granché.