Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

Ideologia e omologazione fra i banchi di scuola

Da esempi di palese indottrinamento a più sfumate strategie, per affermare, già dai primi anni di scuola, un’idea di società ed i suoi veri o presunti “valori”

«La propaganda di Putin ha trasformato le scuole russe in centri di indottrinamento»: con questo titolo lo storico Giovanni Savino ha pubblicato su Valigia Blu un interessante articolo, ripreso da Naufraghi/e, sul ruolo della scuola nell’adeguare il paese alle necessità della nuova fase del processo di radicalizzazione del regime putiniano con l’aggressione militare all’Ucraina.

Scrive il prof. Savino che «L’introduzione di nuove discipline nei curricula scolastici e l’organizzazione di corsi obbligatori nei percorsi universitari, orientate a instillare nei giovani idee ultraconservatrici e nazionaliste (…) rappresentano dei tentativi di irreggimentare quelle fasce d’età più ostili alla guerra e refrattarie alla propaganda trasmessa ormai senza soste in televisione».

Sarebbe da ingenui credere che la scuola, da sola, sia in grado di omologare allievi e studenti. Già questo articolo sulla scuola russa cita altri mezzi utili a inculcare idee e consensi.  La scuola, assieme al sistema formativo in cui è radicata, rappresenta così, con tanta o poca rilevanza a seconda dei tempi e delle ideologie dominanti, un potente mezzo di gestione del potere, e non solo nei regimi dittatoriali.

Per restare in un analogo contesto politico, un esempio assai vicino è quello del ventennio dell’Italia fascista, che nel 1939 – XVII anno dell’Era fascista – si dotò della sua “Carta della scuola”, composta da ventinove dichiarazioni: una sorta di Legge della scuola, che chiarisce dalle prime righe i suoi intenti: Nell’unità morale, politica ed economica della Nazione italiana, che si realizza integralmente nello Stato Fascista, la Scuola, fondamento primo di solidarietà di tutte le forze sociali, dalla famiglia alla Corporazione, al Partito, forma la coscienza umana e politica delle nuove generazioni. La Scuola fascista, per virtù dello studio, concepito come formazione di maturità, attua il principio d’una cultura del popolo, ispirata agli eterni valori della razza italiana e della sua civiltà; e lo innesta, per virtù del lavoro, nella concreta attività dei mestieri, delle arti, delle professioni, delle scienze, delle armi. E poi via a precisare e predisporne l’organizzazione: c’è veramente tutto e di tutto.

In un saggio assai celebre – «Ideologia e apparati ideologici di Stato», del 1976 – il filosofo francese Louis Althusser sostiene che alcune istituzioni sono, appunto, dei meccanismi che consentono allo Stato di creare e mantenere il potere e il consenso. Tra queste istituzioni cita la chiesa, la scuola, la famiglia, la politica, la giustizia, i sindacati, il sistema mediatico e dell’informazione e quella culturale.

Anche l’educazione in uno stato democratico non lascia quasi nulla al caso. D’accordo, non abbiamo mai avuto, nelle aule della nostra scuola pubblica, libri di lettura quali «Libro e moschetto, fascista perfetto». Ma gli esempi “patriottici” c’erano anche da noi, sebbene con toni meno perentori. Chi oggi veleggia dai settant’anni in su ha certamente in mente i Manuali di storia e di Educazione civica, i libri di lettura di Tosetti prima e di Bertolini poi, le tante Storie sacre – senza scordare gli immancabili «Cuore» e «I promessi sposi». Almeno fino agli anni ’70 lo Stato ha vigilato e consigliato le letture migliori per i futuri cittadini: c’era l’obbligo di dotare ogni allievo di scuola elementare di un libro di lettura a carattere antologico. I docenti dovevano scegliere da un elenco stilato e via via aggiornato dall’autorità cantonale, con possibili escursioni in Italia, su richiesta e relativa autorizzazione.

Era l’Esprit du temps – ma, come si sa, i tempi di reazione della scuola sono lenti e ponderati. Così negli anni della Swinging London, noi continuavamo a leggere «Il libro dell’alpe», la Legge sulla scuola era quella del 1958 (la successiva sarebbe arrivata nel 1990), il liceo era quello di Lugano e non c’era ancora la scuola media. Nel marzo del 1968 l’occupazione dell’Aula 20 alla Scuola Magistrale di Locarno fu l’elemento esplosivo che fece venire alla luce il dibattito politico sulla gestione della scuola, che durava da diversi anni. Poi, nel 1976, la pubblicazione del «Libro bianco» di Francesco Bertola, che dava voce a tanti apprendisti di tutto il Cantone, indicò l’urgente necessità di modificare profondamente il settore della formazione professionale dei giovani, coinvolgendo nel discorso l’intera popolazione.

Le discussioni più recenti che riguardano la scuola dell’obbligo – in particolare quella sull’eventuale abbandono dei livelli della scuola media, col possibile anticipo dell’insegnamento del tedesco già a partire dalla prima media – si innestano sullo spostamento delle finalità della scuola stessa. Se le dichiarazioni contenute nella legge scolastica del 1990 affermavano manifestamente la preminenza dello Stato e l’importanza di promuovere «lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà», l’evoluzione degli ultimi vent’anni lascia trasparire una sorta di sudditanza a un mondo che chiede a gran voce selezione precoce ed esaltazione del merito: non proprio gli ideali che il parlamento aveva cercato di realizzare oltre trent’anni fa.

 

Scritto per Naufraghi/e

Alcune chiose di congedo dall’anno passato

Archiviato – si fa per dire – il Coronavirus, almeno nella sua fase pandemica, ecco subito un nuovo, grave evento, l’invasione dell’Ucraina per mano delle forze armate della Federazione Russa il 24 febbraio 2022.

Dopo le statistiche giornaliere su Covid 19 – nuovi contagi, ricoverati, morti, guariti – ecco le nuove tabelle riguardanti l’arrivo dei profughi ucraini in Ticino e in Svizzera: dove, presso chi, sotto l’egida di. E quali le scuole frequentate.

Sono stati entrambi eventi pieni di bontà: si pensi agli applausi agli infermieri prima, agli abbracci ai profughi poi, in arrivo nelle scuole del Cantone.

Ho conservato un articolo di Moreno Bernasconi apparso a pagina 4 del Corriere del Ticino del 31 maggio scorso: «Due profughe, due misure», che così inizia:


«Abbiamo capito che noi, qui, siamo profughi di serie B». Questo amaro commento circola insistentemente da un paio di mesi fra i rifugiati riparati in Svizzera da Paesi africani o dall’Afghanistan o da altri Paesi devastati dalla guerra durante anni o addirittura decenni. Circola da due o tre mesi, ovvero da quando la guerra scatenata dall’invasione russa ha spinto milioni di civili ucraini a fuggire dalla barbarie. La maggioranza ha cercato rifugio nei Paesi limitrofi dell’UE, ma non pochi anche nel nostro Paese, che si sta dimostrando coralmente generoso verso i profughi ucraini in fuga. Dal punto di vista giuridico, questa accoglienza generosa ha un nome: il permesso S, ovvero quello «per persone bisognose di protezione» (Schutz, in tedesco).

(Qui si può leggere l’articolo integralmente).

Osservo che, di solito, questa tipologia di immigrati, se autorizzata a risiedere in Svizzera, riceve il Permesso N «per richiedenti l’asilo», che da qualche parte saranno ritenuti meno bisognosi. Nei primi anni del mio periodo come direttore delle scuole comunali di Locarno, dal 1987, ho attraversato tanti drammatici arrivi massicci di profughi, per lo più famiglie che scappavano dalla guerra. La fase più acuta fu attorno al 1992/93, quando accogliemmo nelle nostre classi un centinaio di bambini e bambine, circa il 10% del totale degli allievi di scuola elementare.

Non fu facile, anche perché si trattava di un fenomeno del tutto nuovo, che toccava poche sedi scolastiche del Ticino. Le caratteristiche di questi alunni erano inoltre molto diverse: per età e sesso, per religione, lingua e cultura. Eravamo inoltre circondati da un diffuso sentimento di rifiuto – non oso parlare di razzismo o di xenofobia. Però, forse, chissà.

Meglio quindi quel che è successo nella primavera del 2022, confidando che anche in futuro queste persone godano della medesima benevolenza (e soprattutto del Permesso S), a condizione che non si parli di guerre vere e guerre finte, così da decidere solo a «Spalancare le porte ai profughi veri»: come afferma il senatore italiano Matteo Salvini.

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In questo 2022 si è tornato a parlare dei livelli della scuola media, che tutti dicono di voler abolire. Se ne parla ormai quasi da mezzo secolo, cioè da prima che nascesse la scuola media, tra slanci ideali, mugugni e ipocrisie poliedriche.

Eppure anche stavolta il dibattito si è subito acceso, coi diversi schieramenti politici a precisare, correggere, rimandare: perché in aprile ci sarà il rinnovo dei poteri cantonali, ognuno vuole solleticare la pancia dell’elettorato e non vuole scottarsi.

Credo che i livelli – o la sostanza del loro effetto pedagogico e socio-culturale – continueranno a caratterizzare la scuola media fino a che non sarà chiaro a tutti che non tocca alla scuola dell’obbligo decidere chi può e chi non può frequentare una scuola medio-superiore.
Qualche anno fa andava di moda citare il sistema scolastico finlandese – una scuola da Oscar della pedagogia, avevo scritto nel 2008 (Qual è il segreto della scuola finlandese?, Corriere del Ticino del 27.02.2008). La si citava ma non la si studiava. Se lo si fosse fatto si sarebbero scoperti alcuni suoi aspetti accattivanti: ad esempio, come predisporre una scuola altamente performante e inclusiva, senza stress e senza livelli.

Scrivevo in quel testo:

Si ritiene, nei fatti, che le basi essenziali per acquisire dei saperi e favorire una crescita armoniosa degli individui risieda in un ambiente scolastico rassicurante, in docenti premurosi e preoccupati di creare dei legami affettuosi e cordiali coi loro allievi, in modo che questi possano sviluppare una benefica autostima. Si reputa altresì che l’esigenza di un forte richiamo ai valori morali e umanistici non debba ridursi a mera enunciazione legislativa, da sacrificare giorno dopo giorno sull’altare della trasmissione di conoscenze e di competenze mirate all’inserimento nel mondo del lavoro. Conseguentemente «imparare senza stress», nel rispetto totale di ogni allievo, si traduce in una scuola che rispetta i ritmi di apprendimento di ognuno: le note fanno la loro prima apparizione dopo i nove o dieci anni della scuola dell’obbligo (Educazione fondamentale); la ripetizione di classe non esiste; accanto ad alcune discipline obbligatorie, ogni allievo ha un discreto margine di manovra per scegliere altre materie che completano il suo curricolo.

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Il 16 dicembre scorso il Palacinema di Locarno ha accolto oltre 500 allievi di IV/V elementare per un nuovo appuntamento con la manifestazione Piazzaparola, che è così giunta all’edizione numero nove. Dal 2013 a oggi sono stati presentati diversi adattamenti di opere quanto mai diverse fra loro per epoca, stile, contenuto e molto altro. Ideatori, autori e coordinatori di ogni spettacolo sono stati Silvia Demartini, professore SUPSI, ed io.

© Simone Fornara

Quest’anno la scelta è caduta su una rilettura del Canto di Natale di Charles Dickens, che abbiamo voluto sottotitolare come Una fantasmagorica storia natalizia. In scena gli attori Sara Giulivi e Alessandro Otupacca e i musicisti Deolinda Giovanettina (violino), Marco Cuzzovaglia (batteria) a André Sampaio (basso).

© Simone Fornara

Mi piace riportare qui un breve passaggio della rilettura scritta da Silvia Demartini, una battuta di Ebenezer Scrooge, il “cattivo” (redento) della storia.

Io però non capisco, non capisco… nemmeno oggi, qui, nel vostro mondo [rivolto al pubblico]. Ho fatto un giro, eh? Ma che cosa significa essere felici a Natale, stare bene, mangiare bene, avere molti giochi, quando tante, tante persone non possono esserlo e non possono avere nulla? E non solo a Natale, ma in nessun giorno dell’anno?

© SUPSI/DFA Luca Ramelli

La banalizzazione del merito

In un’epoca durante la quale ci si appella sempre più frequentemente al merito e alla meritocrazia, il nuovo governo italiano, insediato il 23 ottobre, ha istituito il Ministero dell’istruzione e del merito.

Ha detto Luciana Littizzetto durante la trasmissione televisiva Che tempo che fa del 30 ottobre 2022:

Vi accanite col merito nella scuola, ma vogliamo parlare della politica? Se c’è un campo dove non ci si arriva tutti per merito è proprio la politica… Non è che aprendo le porte del parlamento pensi: “Ehi, sono finito al CERN, per caso!?” Il merito vale per tutti, tranne che per i politici?

[…] Abbiamo avuto ministri dell’istruzione che volevano far passare i neutrini dentro tunnel che non c’erano, Ministri dei trasporti che parlavano del trasporto su gomma nel tunnel del Brennero, che non è stato ancora realizzato… Ministri degli esteri che l’unica lingua che conoscevano era quella di vitello quando la ordinavano al ristorante… Quindi se proprio vogliamo partire con il merito in questo paese, inizierei sì dalle scuole, ma durante le elezioni e non durante le lezioni”.

Nel frattempo il Gran consiglio ticinese, nella sua seduta del 17.10.2022, ha approvato l’iniziativa parlamentare generica «Rinnoviamo la scuola dell’obbligo ticinese», che era stata presentata nel 2018 dall’Unione Democratica di Centro – che di centro ha solo il nome: 43 sì, 21 no e 19 astenuti. Stando alle cronache, la maggioranza favorevole è stata favorita dalla concordanza dei deputati liberali e della lega dei ticinesi.

Va da sé che, tra i 61 punti irrinunciabili ma negoziabili che costituiscono il proposito rinnovatore della destra ticinese, non poteva mancare l’imperativo di promuovere e offrire dei percorsi selettivi e meritori sia per gli allievi che per i docenti. Gli altri 60 punti, in sostanza, portano lì.

Continuo a credere che le finalità della scuola dell’obbligo siano altre. Proprio oggi si è conclusa a Bruxelles la 3ème Biennale internationale de l’Education Nouvelle (Convergenza per la nuova educazione), promossa da numerose associazioni internazionali, che aveva al centro dei suoi lavori anche l’aggiornamento del Manifesto per l’Educazione Nuova: il mondo che vogliamo, i valori che difendiamo.

E nel medesimo ordine di idee, mi piace segnalare l’interessante contributo di Marco Viscardi, docente all’Università degli studi di Napoli, pubblicato su DOPPIOZERO all’indomani dell’istituzione del Ministero dell’istruzione e del merito: Il merito è una fantasia. L’articolo può anche essere scaricato qui in formato PDF.

Un concorso letterario per raccontare la matematica

La comprensione del linguaggio della matematica è considerata dalla ricerca in didattica uno dei maggiori ostacoli per l’apprendimento della disciplina, a tutti i livelli scolastici. È a partire da questo apparentemente semplice ragionamento – perché è proprio dalla difficoltà di capire il linguaggio della matematica che si dipanano tanti insuccessi scolastici – che, da alcuni anni, ben tre centri di competenze del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI si occupano dell’italmatica: Italmatica. Comprendere la matematica a scuola, tra lingua comune e linguaggio specialistico.

Il progetto – che è finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica (FNS) – si propone di affrontare la questione attraverso indagini interdisciplinari multilivello su una significativa massa di dati. Più nello specifico, il progetto è dedicato all’analisi, dal punto di vista linguistico e matematico, di un corpus di libri di testo scolastici di matematica in lingua italiana della scuola elementare e media, al fine di delinearne le caratteristiche e i possibili ostacoli per la comprensione da parte di allieve e allievi.

È in questo contesto che è nato quest’anno, per la prima volta, un concorso letterario – Matematica a parole – che si indirizza ad allieve e allievi dai 3 ai 18 anni, nonché all’intera cittadinanza. Il concorso letterario «Matematica a parole» – si legge nel documento che lo lancia, lo descrive e ne fissa i paletti – ha come obiettivo quello di stimolare il dialogo fra matematica e lingua italiana: la letteratura si configura, infatti, come un mezzo per parlare di matematica e per “far parlare” la matematica con parole che sappiano trasmetterla in modo originale, ma anche rispettoso della disciplina, senza ovviamente rinunciare alla qualità del testo.

Si possono scoprire tutti i dettagli del concorso sfogliando le pagine di Matematicando del Centro competenze didattica della matematica oppure scaricando qui il dépliant di presentazione.

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In quest’ordine di idee – che sono le idee della divulgazione, mai banale – mi piace aggiungere un altro progetto proposto dal medesimo centro di competenza: i matematici a fumetti, una serie di ritratti che illustrano la storia della matematica dalla bella Didone (IX sec. a.C.) a Maryam Mirzakhani (XXI sec.), passando da tanti filosofi e matematici che, per colpa della scuola, hanno selezionato, bastonando!, tante generazioni di allievi e studenti (non potevano mancare Pitagora ed Euclide, citando da bastonato).

Alain Turing, che, per mia fortuna, non ho conosciuto a scuola, ma tramite un bel romanzo che ho letto l’estate scorsa (La caduta di un uomo – Indagine sulla morte di Alan Turing, di David Lagercrantz, 2021, Marsilio).

Lettera a un professore di didattica dell’italiano

Caro professor Fornara,

ho letto il suo libro Lettere a una maestra, l’ho finito da un po’, ma volevo pensarci bene prima di scriverle queste brevi note. Ci conosciamo ormai da diversi anni, sa bene che non mi sono mai occupato in maniera approfondita di didattica, benché si tratti naturalmente di un complesso di conoscenze che fa parte della “cassetta degli attrezzi” di ogni insegnante. Quando seguii la mia formazione di base non c’erano le didattiche disciplinari, sostituite dalla didattica generale e da tanti “consigli pratici” da parte dei nostri assistenti di didattica. In tal senso la nostra «Bibbia» era un volume pubblicato da Armando Armando Editore nel 1968 (la mia copia è del 1970, V ristampa), col titolo Nuove lezioni di didattica, autore Robert Dottrens; per la cronaca, l’edizione originale, Éduquer et instruire, è del 1966 (Unesco/Nathan, Parigi). Chissà perché i titoli tradotti in Italia sono spesso ben diversi dagli originali; il cinema, a questo riguardo, offre esempi spassosi.

Ma, per chiarirci, in quei primi anni ’70 del secolo scorso avevamo superato da un pezzo la preistoria della pedagogia, della didattica e delle cosiddette scienze dell’educazione. Tutt’al più continuo a credere che, per tanti versi, la scuola reale, quella di tutti i giorni, non è cambiata molto nei decenni, ma questo è naturalmente un altro discorso.

Un’immagine di Simone Fornara, presidente della giuria e scrittore ospite della III edizione del «Premio Luca Franscella», concorso di scrittura per gli allievi di 5ª elementare delle scuole comunali di Locarno, quell’anno sul tema «Scrivo per ricordare». È il 12 giugno del 2009 ed eravamo nella corte interna del castello visconteo di Locarno, durante la cerimonia di consegna delle licenze e la premiazione del concorso.

La lunga premessa, tuttavia, è per sottolineare che non ho i numeri per entrare nel merito scientifico dei tanti capitoli che lei ha toccato lungo le diciotto Lettere a una maestra sull’insegnamento (non solo) dell’italiano. Così la mia lettura si è arricchita – forse, per taluni, sarebbe stata viziata – con diversi rimandi, del tutto personali, mi creda, all’opera di alcuni grandi protagonisti della storia della pedagogia che lei ha citato: in ordine di apparizione sono Mario Lodi, Alberto Manzi, don Milani, Gianni Rodari, Jerome Bruner e Lev Vygotskij.

Ciò che ho letto io – ma sono sereno, non ho fatto una lettura sviata da pregiudizi – mi porta a condividere con un certo entusiasmo la didattica dell’italiano che ha in mente lei. Vorrei che tutte le didattiche avessero in comune la tensione etica che mette al primo posto ciò che gli allievi imparano, piuttosto che la loro riuscita scolastica, che è tutt’altra cosa. Le sue proposte sono davvero impregnate di quella scuola attiva che rimanda a Lodi, Manzi, Milani, Rodari (aggiungerei Célestin Freinet, tra i tanti), un approccio basato sulla mobilitazione dell’allievo, ma anche sulla cooperazione tra allievi. È una didattica, quella delle lettere a una maestra, che chiama a gran voce la scuola attiva, anche grazie a quel «non solo» che lei ha messo tra parentesi nel sottotitolo.

Il mio timore è che questo affascinante approccio didattico inciampi in qualche vecchia pedagogia poco differenziata, individualista, selettiva, competitiva – una pedagogia “bancaria”, per dirla con Paulo Freire. Negli anni ho visto passare tante didattiche, ognuna più magica e miracolosa della precedente. La didattica che lei propone con queste lettere è impegnativa. Per rispettarne il senso non la si può uniformare, con il vecchio e ambiguo slogan delle “pari opportunità”. Ha scritto il sociologo Walo Hutmacher:


Les politiques d’égalité des chances n’ont pas réduit les inégalités de résultat, comme la recherche le montre depuis des années et l’enquête internationale PISA une fois de plus. En comparaison internationale, au terme de la scolarité obligatoire, en moyenne, les niveaux de compétences mathématiques des jeunes Suisses sont bons, la 
culture scientifique
est moyenne, les compétences lectrices plutôt médiocres. A côté
 des moyennes, il faut 
aussi regarder les disparités. Parmi les pays européens, la Suisse se caractérise par des disparités particulièrement fortes, dans l’absolu et entre classes sociales. Et l’OCDE d’insister sur le rôle que joue chez nous le caractère séparatif du secondaire I. Elle met aussi en exergue les résultats de pays qui (…) visent explicitement non pas l’égalité des chances, mais l’égalité des résultats à un niveau élevé. Ils y réussissent avec les mêmes objectifs d’apprentissage renonçant à toute division sociale ou culturelle avant la fin de la scolarité obligatoire.

Il paradosso è tutto nell’istituzione in cui lei opera. A metà degli anni ’80 nacque la magistrale post liceale, a cui seguirono l’ASP e, oggi, il DFA della SUPSI. La storia delle idee pedagogiche ha perso di importanza (eufemismo). Nei miei anni la chiamavamo pedagogia, si parlava di Rousseau, Claparède, Dewey, Bruner…

Continuo a credere che nella Scuola ci debba essere una gerarchia di valori, conoscenze e competenze che non può essere modificata a seconda dei bisogni della politica e dell’economia. O viceversa. In vetta devono restare gli aspetti istituzionali, etici e deontologici. Da questi discendono le scelte pedagogiche e quelle didattiche: scegliere se educare o selezionare, se istruire o orientare per rispondere al mondo del lavoro, se inserire gli allievi dentro la curva di Gauss o se mirare all’equità dei risultati ad alto livello.

Senza queste scelte – concrete, oltre gli slogan – tutto diventa vacuo.

In ogni modo: complimenti per le sue Lettere a una maestra. Sono lettere profonde. Se saranno travisate o svuotate per mezzo di scelte pedagogiche sballate non sarà un suo problema. Ormai viviamo questi tempi. Un giorno o l’altro bisognerà ricominciare a parlare di pedagogia con i futuri insegnanti.

La saluto cordialmente, e pedagogicamente attivo.

AT

P. S. Non mi spaventa fa parola FINE. La disprezzo.


La citazione di Walo Hutmacher è tratta dall’articolo «Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats à un niveau élevé», in Éducateur – Les bâtisseurs du «siècle de l’enfant» | Cent ans de recherches et d’innovations pédagogiques, Numero speciale nel centenario di fondazione dell’Institut Jean-Jacques Rousseau, 24.02.2012.


Ecco un esempio spassoso di titoli del cinema in traduzione italiana. Domicile conjugal, film di François Truffaut del 1970, uscì in Italia col titolo Non drammatizziamo… è solo questione di corna. Tanto per dirne una.


SIMONE FORNARA, Lettere a una maestra – Sull’insegnamento (non solo) dell’italiano, 2021, Einaudi ragazzi