Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

La formazione degli insegnanti tra scienza e umanesimo

Per diventare insegnante di scuola dell’infanzia o elementare occorre frequentare l’Alta Scuola Pedagogica (ASP) per tre anni a tempo pieno, dopo aver conseguito la maturità. Se invece si vuole insegnare alla scuola media o al liceo, la permanenza all’ASP cala vistosamente: più o meno un annetto a metà tempo, dopo l’obbligatorio ottenimento di una licenza universitaria (o, per dirla alla moderna, di un “bachelor” o di un “master”): in effetti ogni abilitazione vale per l’insegnamento di un’unica disciplina, per cui il tempo di formazione sembra – almeno a naso – proporzionato. Ma l’equazione scricchiola, se appena si pensa che, accanto alla specifica didattica disciplinare, ben altre competenze dovrebbero far parte della cultura professionale dell’insegnante: nell’uno come nell’altro caso.
Un mese fa è apparsa anche su queste pagine la lettera di un gruppo di docenti di italiano che hanno ottenuto l’abilitazione all’insegnamento nel settore medio-superiore nel ’05 (Corriere del 5 maggio). Nello scritto – schietto, civile e amaro – i neo-docenti manifestano tutte le loro perplessità nei confronti di una formazione post-universitaria ritenuta inutile. «Abbiamo subito il protrarsi di una situazione davvero spiacevole, per cui settimana dopo settimana eravamo obbligati a frequentare un numero importante di lezioni incapaci di creare un diretto legame fra noi e la nostra professione, incapaci di fornire degli strumenti realmente in grado di migliorare il nostro rapporto con gli studenti, incapaci di costruire un sapere solido che consentisse di leggere la realtà scolastica e sociale». Considerato che l’abilitazione l’hanno ottenuta, vien da chiedersi se non hanno imparato nulla o se non c’era nulla da imparare.
Non conosco nel dettaglio il percorso formativo proposto agli abilitandi dell’una o dell’altra disciplina. Qualche anno fa – non secoli, né decenni… – una collega alle prese con l’abilitazione per la scuola media mi aveva mostrato un compito sul tema della valutazione, chiedendomene un parere. Vi avevo ritrovato parecchie schede copiate pari pari da un corso che avevo svolto oltre vent’anni prima all’università di Ginevra: concetti importanti, che erano tuttavia un po’ isolati; quando si valuta, ad esempio, non si può scordare la fondamentale attività che precede: insegnare. L’altro giorno una giovane collega, recentemente abilitata dall’ASP, mi ha raccontato di un corso di educazione sessuale che faceva parte della trafila abilitante: è noto, per opinione comune e diffusa, che non si può ignorare la differenza statistica della curva del piacere maschile e femminile per insegnare matematica al liceo. Un po’ tutti, poi, se la prendono col socio-costruttivismo, un approccio che si è accasato all’ASP e che tende a far strame di ogni altro indirizzo pedagogico.
Intendiamoci: non è il caso di sparare a casaccio sull’ASP, occupazione che da qualche anno sembra assai di moda. Il problema, per la verità, non è solo ticinese o svizzero. La terziarizzazione della formazione degli insegnanti si sta configurando come una perniciosa spinta tecnocratica. Così le scienze dell’educazione sono sempre più soggiogate dalle più disparate tassonomie, alla spasmodica ricerca di uno statuto scientifico che è comunque lontano mille miglia dalle riflessioni, dai contributi e dalle esperienze offerte dalla storia delle idee pedagogiche. Col passare del tempo e col nostro essere vieppiù cittadini del mondo globalizzato, per contro, la conoscenza di alcuni principi fondamentali della scuola assume di giorno in giorno maggior peso: ad esempio, cosa significa e cosa implica operare in una scuola pubblica e obbligatoria? In definitiva, Enrico Pestalozzi, Maria Montessori, John Dewey e molti altri hanno ancora alcuni messaggi forti da trasmettere ai futuri insegnanti. Sembrerebbe invece che, al giorno d’oggi, l’ultimo ritrovato delle scienze dell’educazione possa fare a meno di tanti insegnamenti pedagogici che, prima di ogni infatuazione tecnologica, traevano origine dall’etica.

I bambini al concerto e il solito bel “Pierino e il lupo”

Ci sono anche nel nostro cantone proposte musicali di elevato valore culturale e pedagogico, la più importante delle quali è sicuramente il concerto offerto annualmente alle scuole elementari dall’Orchestra della Svizzera Italiana (OSI). Il concerto dell’OSI è diventato un punto di riferimento importante da una decina di anni. Esso offre l’opportunità – l’unica! – di ascoltare e vedere dal vivo un’intera orchestra in un ambiente, come quello dell’Auditorio Stelio Molo presso gli studi radiofonici di Besso, dotato di un’ottima acustica e – particolare tutt’altro che trascurabile considerato il giovane pubblico – di massima visibilità per ognuno. Detto questo, c’è un però. Dato per scontato che gli alunni di 4ª e 5ª elementari – che son poi quelli che possono assaporare l’annuale proposta dell’OSI – non sono degli idioti, mal si comprende come si possa ancora presentare lo stucchevole (perché inflazionato) «Pierino e il lupo»: la fiaba musicale di Sergej Prokof’ev la conosce ogni ragazzino con alle spalle un anno d’asilo e un paio di scuola elementare.
La scorsa settimana, a Besso, quasi 6000 ragazzi ne hanno gustato un’interpretazione più che degna. Come dire: già che le cose bisogna farle, meglio farle bene. Abbiamo ascoltato un «Pierino e il lupo» aggressivo, con la Maestra Denise Fedeli impeccabile come sempre, l’orchestra in gran spolvero e il narratore, Diego Gaffuri, che non ha certo sfigurato nel confronto con alcune registrazioni storiche (sorvolando però sulla straordinaria prova di Benigni). Detto ciò, siamo al punto dolente. Il «Pierino» del compositore russo fa parte di quel mini-repertorio che chi capisce poco di scuola e di alunni dell’elementare reputa tra i pochi brani classici in grado di catturarne l’attenzione e attivarne la comprensione. Tanto per intenderci, è ovvio che non si può leggere «Anna Karenina» a dieci anni, così come è meglio evitare il «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia» durante i primi anni della scolarità. Per contro è possibile che un normale bambino di scuola elementare possa ascoltare – che so? – un’ouverture di Wagner, un trio di Schubert, una sinfonia romantica o un’opera lirica. E se l’ascolta, quale sarà la sua reazione? Di tedio quasi fatale oppure di scossa emotiva? Direi che la musica, a differenza di altre arti, non ha bisogno in partenza di chissà quali conoscenze per scatenare emozioni; eppoi un’intera orchestra schierata davanti a te è di per sé uno spettacolo che dispone all’ascolto.
Non è certo questa la sede per discettare sull’importanza educativa della musica, in tutte le sue sfaccettature. C’è addirittura chi sostiene che il semplice ascolto di Mozart sviluppi le doti intellettive. Anche le autorità scolastiche sono sensibili al discorso musicale, tanto che l’ascolto ha un suo spazio sia negli «Orientamenti programmatici per la scuola dell’infanzia» che nei «Programmi per la scuola elementare». Poi è vero che, come in tutte le cose, tra il dire e il fare c’è quasi sempre di mezzo il mare. Ma l’OSI potrebbe evitare certi anacronismi. Gli orchestrali sono di prim’ordine e Denise Fedeli è un’artista che, come il grande Leonard Bernstein, sa rivelare i segreti delle partiture più complesse anche a un invertebrato, facendolo vibrare di emozioni: che è il reale valore aggiunto quando si vuole accostare il pubblico infantile alle grandi pagine della musica. Basta, dunque, con queste proposte con la puzza sotto il naso: i nostri ragazzi di nove o dieci anni non sono degli sciocchi e sarebbero perciò felici di ascoltare qualche brano in cui l’orchestra metta in mostra i suoi registri più esclusivi: che non sono solo l’oboe-quaqua, il flauto-cicip o il fagotto-sgrunt. «L’auspicio per il futuro – hanno scritto nella presentazione del concerto Franco Baroni e Giovanni Galfetti, assistenti di educazione musicale nelle scuole elementari – è che si possano trovare sempre maggiori sinergie per allestire programmi accattivanti e, perché no, inaspettati e arditi». È eccessivo sperare che quest’augurio si avveri già tra un anno?

La nuova ora di religione sconfiggerà la barbarie?

L’italiano non sta tanto bene. Se lo facessero vedere all’ultimo medico condotto in fondo a qualche sperduta valle del Sopraceneri sarebbe ricoverato dritto dritto in qualche reparto di cure intensive. Invece non gli somministrano neanche una blanda camomilla. I buoi della storia, da qualche decennio, pascolano chissà dove; si sono imboscati su qualche altura, ma nessuno se ne dà pensiero. Le arti non sono mai entrate in gioco; ritenuto che, in ogni caso, è meglio metterle da parte, si è pensato bene di lasciarle dov’erano ancor prima d’iniziare: sano ragionamento razionale e poco costoso. Insomma: nel percorso di studi pensato per i nostri figli in questi primi anni del XXI secolo – e, a dire il vero, anche negli ultimi del XX – l’indice NASDAQ della cultura umanistica è ai minimi storici.
Eppure se si scorrono leggi, regolamenti, programmi, dichiarazioni e prese di posizione si dovrebbe convenire che, pedagogicamente parlando, viviamo nel migliore del mondi possibili. Siamo tutti dei candidi e laicissimi illuministi. Le nostre scuole straboccano di par condicio disciplinare: l’italiano la fa da padrone, col suo contraltare storico, la matematica. In fondo lo sanno tutti che si va a scuola per imparare a leggere, a scrivere e a far di conto. Tra le due dive, la solita schiera di importanti gregari: la storia, le scienze, la geografia, e poi l’educazione fisica, il disegno, le attività creative, la musica e le lingue nazionali. In tempi più recenti il catalogo s’è rimpinguato di una lunga fila di cortigiani (vil razza dannata!): l’inglese, l’informatica (internet! ah, internet!), le educazioni stradale, sessuale, ambientale, alimentare e alla cittadinanza – senza naturalmente scordare le diverse parentesi disciplinari che il nostro parlamento riesce a inventare a fatali scadenze, facendosi megafono della vox populi.
Nel bel mezzo di un quadro complessivo a dir poco inquietante, ecco ora il nuovo dibattito sull’ora di religione, che non mancherà di mietere le sue vittime e di onorare i vincitori. Tutto comincia, si fa ovviamente per dire, nell’ormai lontano mese di marzo del 2002. Il granconsigliere liberalsocialista Paolo Dedini presenta un’iniziativa parlamentare generica che fa l’elogio del «valore fondamentale e insopprimibile [di una] visione umanistica della società» e conclude che, secondo lui, «l’insegnamento di due sole religioni» debba essere sostituito «dall’insegnamento della storia delle religioni, dell’etica e della filosofia nel rispetto delle finalità della scuola». Inevitabile applauso. Passano sì e no otto mesi e alcuni parlamentari – prima firmataria Laura Sadis – traducono in lingua volgare alcune considerazioni sviluppate dall’Associazione per la scuola pubblica. Per farla breve: «sempre meno allievi seguono l’insegnamento religioso impartito dalle Chiese riconosciute; l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana negli studenti delle scuole pubbliche ticinesi è sempre più generalizzata ed evidente; la composizione della società (…) è tale da rendere comunque inadeguata e non più funzionale l’attuale impostazione dell’insegnamento religioso». Si propone quindi che in tutte le scuole obbligatorie e post obbligatorie a tempo pieno sia impartito per tutti gli allievi un corso di cultura religiosa, per capire la cultura e la tradizione europea e per avvicinare i giovani alla comprensione dell’universalità del fenomeno religioso.
Non mi interessa, in questo momento, discutere se occorra insegnare la religione a scuola, né a chi, in tal caso, si debba attribuire il mandato. Dietro l’ora di religione a scuola covano altri e ben più prosaici interessi. Ma cosa c’entra questa discussione con il nulla che sta «a monte»? Se, come scrivono i parlamentari, «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana (…) è sempre più generalizzata ed evidente», si crede davvero che sostituendo un’ora con un’altra si risistemerà l’intero sistema? Sciaguratamente c’è da supporre che dopo ’sto gran scompiglio la cultura umanistica della società ticinese sarà rimasta al palo. Con buona pace di tutti.

Scuola e promozione sociale: un dispositivo in crisi

La «classe ingestibile» di Zurigo, quella che ha messo al tappeto sei insegnati di fila nel breve volgere di due anni e un po’, ha tenuto banco sui giornali nel periodo pasquale, surclassando i consueti articoli sulle code dell’asse nord-sud, sul bel tempo nella Sonnenstube e sull’omelia del Papa. I crudeli allievi, ovviamente stranieri, hanno fatto da traino ad altri truci fatti scolastici: sul Corriere del sabato Santo un titolaccio strillava: «Sempre più docenti minacciati»; poi, a seguire, un’antologia di “crimini e misfatti”. A Ennentbürgen, nel canton Nidvaldo, un allievo di scuola media (svizzero, precisa il comunicato) «ha proferito minacce nei confronti di un docente», facendo accorrere la polizia (chissà se a sirene spiegate?). A Siebnen è invece stato arrestato un quindicenne (croato, stavolta) che tartassava alcuni coetanei estorcendo piccole somme di denaro. E per concludere: «Da febbraio allo scorso marzo sono almeno tre i casi di minacce di morte di cui sono stati vittima» alcuni insegnanti nella svizzera interna. Sull’inevitabile nazionalità dei minaccianti, neanche un cenno piccolo piccolo. Saranno stati autoctoni.
E allora uno si chiede: ma che sta succedendo? Non era già eccessivo e intollerabile – che so? – l’uso improprio del telefonino a scuola? Parrebbe di no. Come hanno scritto i giornali – e come hanno riferito radio e televisioni in quei giorni di pace – «Nelle ultime settimane ha fatto notizia una classe della scuola elementare di Zurigo-Friesenberg, che in due anni e mezzo ha visto succedersi ben sei insegnanti. La classe in questione è composta di 22 scolari, di cui 17 provenienti dai Balcani». La provenienza è basilare. Potevano mancare le opinioni delle maggiori cariche dello Stato? Certo che no. Il consigliere federale Christoph Blocher, durante una manifestazione dell’UDC, ha criticato la passata politica di immigrazione e il conseguente aumento della violenza giovanile. Par di capire che, secondo Blocher, se i 22 scolari fossero stati svizzeri nulla sarebbe accaduto.
Per fortuna, come si sa, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Ed ecco allora un altro consigliere federale a denunciare le oscene nudità del re: Pascal Couchepin, dicendosi scioccato e inorridito, ha puntato senza mezzi termini il dito contro le autorità scolastiche: «Se in una classe vi sono ben 17 allievi su 22 che non parlano tedesco, il problema è imputabile alle autorità, non ai ragazzi». Bravo, signor ministro! Bravo, sì, perché è utile che, almeno ogni tanto, una voce autorevole si levi a spezzare questa spirale xenofoba, che diventa sempre più perniciosa. Non è una novità che a porre problemi di disciplina siano pressoché da sempre i figli dei ceti più umili, quelli che hanno poco da rimetterci e che la scuola tende a perdere facilmente per strada. Che poi le classi più indigenti siano composte in gran parte da stranieri, sembra importare poco.
Ma c’è dell’altro: rispetto a un po’ di anni fa, la riuscita scolastica non è più legata a doppio filo con l’entrata nel mondo del lavoro; analogamente la scuola è sempre meno uno strumento di promozione sociale. Fino a un tempo neanche tanto distante, tra durata della formazione e status della professione c’era un rapporto quasi inscindibile e naturale. Invece oggi il bel dispositivo si è rotto. A quindici anni è difficile, per un giovane, riuscire a capire quale sia la strada migliore per non restare inevitabilmente disoccupato – e ancor più delicato è consigliarlo. Riuscire a scuola è sempre più un fatto pressoché autoreferenziale, quasi un lusso per pochi privilegiati proverbialmente nati con la camicia – e naturalmente dopo loro padre. Forse invece di fare di ogni erba un fascio, continuando a criminalizzare i nostri giovani e a sbatterli in prima pagina, converrebbe capire che essi rappresentano il nostro futuro. Invece si preferisce vezzeggiarli per spingerli sempre più al consumo: che è effimero solo per loro ed è indipendente dalla nazionalità.

Educare è meglio che vietare: per non fare di ogni erba un fascio

Tempi grami, per il telefonino. Tempi di grandi tribolazioni. Ora ci si è messa una pivellina neanche quindicenne, un’allieva della scuola media di Bellinzona. Pare che, con il leggendario telefonino usato come una cinepresa, abbia girato un filmetto osé, di cui, oltre che regista e operatrice, è anche incontrastata protagonista. Poi il cortometraggio è stato trasmesso a qualcuno – chissà: un’amica? un critico cinematografico? – e da lì ha inondato un fracco di altri telefonini. Successivamente dev’essere successo l’irreparabile: qualcuno non ha gradito e ha innescato la delazione. Così, ora, il povero telefonino è di nuovo sotto accusa e lo si vuole proibire, almeno all’interno delle scuole e in mano agli allievi.
Un po’, a onor del vero, è colpa sua. Quando il telefono era ancora appeso a un filo e non lo si poteva scarrozzare di qua e di là, serviva per telefonare. Ora fa di tutto e chi non ce l’ha è uno snob o un miserevole sfigato. Se ne leggono di tutti i colori, sempre con degli adolescenti davanti o dietro la minuscola e rabberciata macchina da presa: stupri di gruppo, insegnanti colti in atteggiamenti inadeguati, ordinarie violenze da branco. Più raramente, passeggiate scolastiche o lieti avvenimenti che interrompono la quotidianità.
Quanto all’uso scriteriato del telefonino, il mondo degli adulti non è così edificante. A prima vista si direbbe che i grandi ne fanno un uso appropriato: cioè telefonano o ricevono telefonate. Non si sa se lo usino anche per scrivere romanzi, girare capolavori da oscar, analizzare complicati business plans o, molto più semplicemente, svagarsi coi giochini elettronici. Ma anche quando si limitano a un uso calzante del mezzo – cioè a telefonare – non sempre sono più beneducati della ragazzina di cui sopra: se una vettura ti taglia la strada o invade la tua corsia in curva, puoi star certo che il suo guidatore ha il telefonino incollato al padiglione auricolare. E non c’è più incontro di lavoro che non sia interrotto più volte da squilli spocchiosi: così vedi il compassato collega che s’aggira ai bordi della sala con espressione di circostanza, e tutti pensano: “Poveraccio, chissà cosa gli sarà successo”. Cos’avranno tutto il santo giorno da raccontarsi, ’sti dipendenti del telefonino, non è dato sapere. Personalmente quando sono fuori ufficio lascio detto di chiamarmi “caso mai bruciasse la scuola”. Qualche fuocherello c’è pur stato, ma molto raro. Se mi guardo intorno constato invece che la repubblica è perennemente messa a ferro e fuoco.
Ma il motore di tutte queste sconvenienze non è il telefonino in sé. Francamente non mi passa neanche per l’anticamera del cervello di trascorrere ore a cicalare col telefonino attaccato all’orecchio, di chiamare mia moglie per dirle che sto arrivando o di frastornare un amico con le mie ciance durante il tragitto da Lugano a Locarno: così, tanto per far passare il tempo. Invece sono gli atti in sé a far riflettere, non il mezzo. In termini educativi, quindi, dovrebbero sconvolgere i contenuti di questi videoclip fatti in casa e il loro uso teppista. Per dirla tutta, non so a quante adolescenti verrebbe in mente una fesseria come quella della nostra ragazzotta. Tuttavia ci si trastulla con intenzioni di divieto che rievocano maledettamente le tre scimmiette, insinuando pure il dubbio che ogni adolescente col telefonino sia un potenziale untore sociale. Ogni persona di buon senso che conosce i nostri giovani sa che non è così. Sarebbe meglio, quindi, se tutti insieme ci chinassimo sull’uso sensato del mezzo, piuttosto che vedere in ogni adolescente un potenziale attentatore della pax helvetica. Anche una qualsiasi Maria che vuole improvvisarsi un’audace Kim Basinger ha diritto alla nostra attenzione: non è educazione alla cittadinanza anche quella? Non sarà di sicuro sparando nel mucchio e inventando proibizioni che fanno di ogni erba un fascio che contribuiremo a creare cittadini civicamente e democraticamente educati.