Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

L’elogio del manrovescio

Stanno arrivando tempi sempre più grami per le adolescenti che amano smutandarsi e presentarsi a scuola senza rendersi conto che i diversi regolamenti d’istituto pretendono un abbigliamento confacente. Ultimo in ordine di tempo, l’intervento della direzione della scuola media di Gordola, di cui riferisce La Regione di sabato scorso: “Mi sembra il minimo pretendere un abbigliamento consono al luogo in cui ci si trova” dice il direttore. Che aggiunge: “Sarebbe importante appunto trasmettere agli allievi l’importanza dell’essere interiore, ben più di quella dell’apparenza, del mostrare capi firmati o succinti, e questo solo per apparire, imitare, conformandosi a modelli spettacolari”. In principio, come si ricorderà, c’era stato un analogo provvedimento a Lugano-Besso, nella primavera del 2003, con un richiamo alla decenza da parte del direttore di quella sede, che se l’era presa pure lui coi pantaloni a vita calante e le stringhe del tanga che fuoriescono in bella vista. Poi più niente – Don Gianfranco da Chiasso a parte – fino all’altro dì.
Non mi si fraintenda, ma sono d’accordo solo in parte con queste crociate un tantino pruriginose. Tra tutti gli atteggiamenti da sempre un po’ grulli dei teenager, questo mi sembra tra i più innocui; e, d’altro canto, la perdita di quel certo formalismo nell’abbigliarsi per andare a scuola s’è perso ormai da qualche decennio, senza che mai nessuno si sia sentito in dovere di prendersela – che so? – con i jeans o le magliette attillate, con le kefiyah o con chi tende ad avere un rapporto assai disinvolto con l’acqua e il sapone. Anzi, a ben vedere la storia recente ci dice che talune divise degli adolescenti sono poi diventate le posture correnti dei loro insegnanti di qualche anno dopo. Personalmente non credo che le nostre ragazzine allestiscano questi spettacolini audaci “contro” chissà cosa o per affermare chissà quale libertà. Molto più semplicemente imitano i loro miti dello show businnes, schiere di “cattive” ragazze che costruiscono popolarità e carriere, sempre più brevi ed effimere, sull’ammiccare di un ciuffo di peli in mancanza di doti artistiche di maggior spessore.
In ogni modo, ben altri sono gli atteggiamenti che imporrebbero gli interventi determinati e intransigenti delle direzioni scolastiche. Penso a piaghe sempre più diffuse in larghe fasce di giovani, di cui purtroppo i mezzi di comunicazione di massa devono occuparsi con sempre maggiore intensità. E non concordo con Dario Robbiani, che, sul Caffè di domenica scorsa, mette tutto in un unico calderone e scrive: “La sbronza, la violenza, fare a cazzotti, rompere i cassonetti, imbrattare le vetrine e i vagoni, la sfacciataggine, la malcreanza, la tenuta provocatoria, con la vita bassa e l’esposizione dell’ombelico e del perizoma, sono segnali lanciati dai giovani spaesati, che si sentono emarginati, privi di valori e non riescono ad immaginare il proprio futuro”. No, caro Robbiani, l’esposizione dell’ombelico e del perizoma han poco a che fare col male di vivere e molto, invece, con la necessità di potersi riconoscere in un gruppo, di costruire un’identità e un senso di appartenenza: purtroppo, in mancanza di appigli più veri, è facile aggrapparsi ai chitarrosi della TV o alle stelle dello sport.
Per Robbiani una soluzione c’è: “Il ceffone non è un atto di violenza, come pretendono quelli che attribuiscono la colpa alla società, vogliono evitare traumi e paure ai bambini, affermano che le mani si alzano solo per accarezzare. È ormai appurato che non la severità ma l’eccesso di permissivismo crea degli spostati. Una sberla, motivata e spiegata, è più efficace d’un predicozzo, di una bocciatura o di uno spot televisivo”. Sarà. Però le cronache riferiscono tristemente che di violenza tra le quattro mura domestiche ce ne sia già a bizzeffe, sicuramente troppa. Forse è proprio lì che s’accumula quell’odio che poi esplode nei fine settimana, mettendo a soqquadro intere zone dei nostri centri. Più che di manrovesci e sganassoni si sente un impellente bisogno di Educazione e di Cultura: forse è in questi ambiti che la Scuola potrebbe ricominciare ad applicare quel rigore che, invece, è più facile mettere in atto davanti a un ombelico malizioso.

“Mi ha piaciuto molto!”…

E così anche il Canton Uri ha ceduto all’inglese, dopo aver dapprima abbracciato l’italiano come seconda lingua nella sua scuola elementare: non sono passati molti anni da quando le maestre e i maestri delle terre di Attinghausen e di Intschi calavano nel nostro Cantone nell’ambito di corsi di formazione organizzati dal loro Dipartimento dell’Istruzione. Erano simpatici, restavano a Lugano o a Locarno per qualche settimana, visitavano scuole, conoscevano la nostra realtà e chiacchieravano coi nostri maestri. Ora andranno anche loro a impratichirsi a Cambridge, assieme ai colleghi zurighesi. Non so com’è la tendenza nei cantoni di Svitto e Untervaldo – la Svizzera primigenia e ormai non più vergine – e non ho notizie dai Grigioni, che qualche anno dopo Uri avevano adottato l’italiano come seconda lingua.
Che dire, di fronte a notizie come questa? Di primo acchito che ha ragione Saverio Snider, che dalle colonne del Corriere di sabato scorso ha manifestato senza remore il suo dispiacere: «… rincresce veder naufragare in questo modo un progetto didattico e (soprattutto) culturale che aveva il pregio d’andare controcorrente. […] Il fatto è che sull’altare dell’utilitarismo si stanno compiendo nelle aule scolastiche del Paese riti assai penalizzanti per lo spirito federalista che ci ha condotti sin qui». Ma ha ragione solo di primo acchito, perché a ben guardare il vero problema è l’abbandono della lingua materna in tutte le scuole elvetiche. L’ormai famoso studio comparato Pisa 2000 aveva dimostrato come in tutta la Svizzera la lingua materna stesse andando a ramengo – ed è questo il vero fatto grave, poiché l’utilitarismo e una strana idea della comunicazione tra i popoli ci stanno trascinando, tutti insieme, sulle spiagge dell’incomprensione.
Mio figlio, mentre frequentava la scuola media, ha partecipato con la sua classe a un’attività di scambio con degli allievi del Canton Uri. Dopo l’ultimo incontro, avvenuto quaggiù in Ticino, ha ricevuto, tramite il suo insegnante, una lettera dal suo corrispondente: “Come stai? Io sto bene.” E fin qui tutto a posto: sembra una di quelle lettere degli emigranti ticinesi che dalla California scrivevano all’amata madre. Ma poi prosegue, senza nulla togliere all’immediatezza dell’epistola: “Mi ha piaciuto molto. Che cosa fai nell vacanca.”. Non che uno pretenda, da un nativo di Gurtnellen che sta imparando l’italiano, chissà quale livello letterario; ma la trascrizione, visibilmente non corretta dall’insegnante, la dice lunga sulla serietà dell’operazione, tanto più che il ragazzo proseguiva in tedesco, dopo aver raschiato il fondo del suo italiano: “Es war Scheise das man mit dem Zug 2 Stunden fahren mussten“. Mi scuso, con chi capisce l’idioma di Goethe, per la scatologica leggiadria del testo – certo non accessibile a chiunque – ma mi piace sottolineare come anche il tedesco sia alquanto sciancato.
Naturalmente non si può dire che noi stiamo meglio. Sono un assiduo lettore delle lettere ai giornali, che annoverano opinionisti occasionali accanto a firme ormai cicliche. Così l’estate scorsa mi sono imbattuto nel pistolotto morale di un ragazzo di 22 anni, che va all’università e si reputa carino, incappato in un’ordinaria storia di corna che si è sentito in dovere di raccontare all’intero Paese. Insomma: il nostro universitario – che prima di arrivare lì sarà pur passato da qualche scuola media superiore – stava con la sua ragazza “che non vorrei fare il nome, che ha preso una cotta per un altro ‘uomo’ più grande”. Fortunatamente tutt’è bene ciò che ben finisce, permettendo all’autoctono studente di “rendere partecipe altri ragazzi/e che forse stanno passando questa fase”: naturalmente a mezzo stampa e badando alla sostanza più che alla forma. Mal comune mezzo gaudio! verrebbe da strillare. Invece bisogna pur convenire che l’italiano, nella scuola del nostro Cantone, è stato relegato da tempo al rango di un qualunque gregario, tanto che a nessuno importa se si finisce all’Università (o all’Alta Scuola Pedagogica) con una competenza linguistica approssimativa.
In fondo dell’italiano ce ne siamo sbarazzati noi, prima di Uri.

Che stress insegnare!

In un corsivo apparso di recente sul settimanale della Coop, Franco Zambelloni, docente di filosofia al liceo, sostiene che “l’educazione attuale è avviata a formare legioni di incapaci di sopportare lo stress, anche a livelli ridotti”, tanto che “una verifica scolastica provoca stress e perciò va evitata o per lo meno addolcita”. È indubbio, come scrive lo stesso Zambelloni, che il mondo odierno è costellato di “lavori nei quali lo stress è una componente d’obbligo”. Il tema non è nuovo e la scuola, come spesso accade, si trova tra l’incudine e il martello: di qua è essa stessa accusata di cagionare nervosismo e inutile affaticamento intellettuale (?), attraverso le troppe ore di scuola, i troppi test, i troppi compiti, le troppe nozioni da conoscere più o meno a menadito. Di là dovrebbe farsi carico dell’educazione allo stress, cioè dovrebbe insegnare a gestire le molteplici pressioni che il mondo del lavoro potrà causare all’allievo di oggi quando, domani, sarà adulto e cittadino attivo.
Invece capita, se non proprio il contrario, una gran confusione. Prendiamo gli allievi, siano essi bimbetti dell’elementare o ragazzotti della media. Stressati? Certo: ve ne sono di quelli con la settimana programmata al nanosecondo, neanche fossero il Presidente degli Stati Uniti. C’è una gara, tra certi genitori, e investire immensi capitali di energie in attività dopo o para scolastiche, così che i pargoli trascorrono le giornate tra la scuola e la palestra, il campo di calcio e la lezione di chitarra, in un turbinio di affrettati spostamenti e cambi di borsa e cartella. Poi va a finire che la scuola diventa l’ultima delle preoccupazioni – e già oggi le direzioni scolastiche sono qua e là sollecitate per accordare deroghe all’orario settimanale, così da consentire alla Rebecca di turno di seguire la lezione di violino, che l’insegnante può svolgere solo durante quell’ora – cosa cambia se salta l’ora di canto? Senza parlare della miriade di futuri “pibe de oro”, votati nella stragrande maggioranza a finire (se va bene) nei campionati minori, ma intanto sottoposti a ritmi e pressioni da talenti che in nessun modo possono essere sprecati – mentre, nel frattempo, a scuola se ne stanno sprecando di ben altra consistenza.
La scuola, poi, ci mette del suo. Già a partire dalla scuola media ogni allievo incontra, durante un solo anno scolastico, almeno tre o quattro periodi durante i quali i cosiddetti test si succedono a ritmi convulsi. Io non so se questi siparietti dell’anno scolastico generino davvero degli stati d’ansia incontrollabile. Posso immaginare che qualche classe tenti in qualche modo di farsi addolcire la pillola – e so di istituti che si sono dotati di una precisa regolamentazione per lo svolgimento di questi percorsi di guerra. Ma mi chiedo: a che serve tutta ’sta fregola valutativa? A costruire le note medie finali, che poi saranno stravolte dai diversi collegi dei docenti? Oppure ad avere in mano gli elementi probanti nel caso in cui un genitore osasse brontolare o, peggio, impugnare la valutazione finale?
Quando frequentavo la Magistrale avevo un docente che si limitava a due esperimenti all’anno, immediatamente precedenti la consegna del libretto scolastico. Se poi ti capitava di fallire la prova scritta, ti interrogava, offrendoti la possibilità di mostrare se avevi o meno capito ciò ch’era stato richiesto. Nel tempo residuo il professore insegnava, che è ciò che ogni allievo e ogni genitore dovrebbero aspettarsi e pretendere. Invece, a tutt’oggi, è invalsa la moda dei test stagionali, che servono più che altro a creare medie di cui servirsi per mercanteggiare, più in là, un 4 o un 5. Insomma, Zambelloni ha ragione quando osserva che “o si riesce a inventare una società priva di stress, oppure bisognerà ripensare il processo educativo perché insegni gradualmente ad accettarlo”. Però, che stress insegnare!

L’anno scolastico colpisce ancora…

E così anche quest’anno è arrivato San Silvestro, nel senso scolastico del termine. A differenza di tutti i nostri colleghi d’Oltralpe, che hanno già festeggiato il Capodanno da diverso tempo, noi ce la prendiamo comoda come sempre, un po’ perché siamo levantini, un po’ perché in estate da noi l’afa è insopportabile e un po’ perché i nostri ritmi agricoli d’inizio ’900 erano quelli che erano – e più o meno son rimasti quelli che sono, alpeggi a parte.  In ogni modo da domani migliaia di bimbi, ragazzi e adolescenti sciameranno attorno a insegnanti d’ogni età, sesso ed umore, in attesa che, al più tardi entro lunedì, l’anno scolastico (ri)prenda il suo corso normale.
Per i prof cantonali sarà un Capodanno dal gusto amarognolo: nelle ultime settimane si è parlato di sciopero (dello zelo), come risposta un tantino biliosa al verdetto popolare dello scorso 16 maggio, quando la proposta governativa di aumentare di un’ora il fardello settimanale dei docenti era stata accettata, malgrado l’ampia campagna predisposta dai promotori dei referendum. Dal canto suo il Ministro del nostro «Dipartimento Mente Sana in Corpo Sano» ha dichiarato che secondo lui il 90% degli insegnanti ticinesi è assolutamente in gamba, mentre il 10% non è (più) al suo posto. Non credo che si tratti di un dato fornito dall’Ufficio Cantonale di Statistica – che ha già i suoi bei problemi con lo staff della direttrice – né del dipartimentale Ufficio Studi e Ricerche. Ma il livello del dibattito è da quelle parti: di qua i docenti che si autoproclamano impegnati e martiri, di là il mondo politico che fa i suoi distinguo un po’ infidi.
Il bello è che hanno ragione tutti – e in tal caso le percentuali possono mutare nell’uno come nell’altro campo della singolar tenzone – perché ognuno si rapporta ad obiettivi della scuola pubblica che sono soggettivi e, conseguentemente, molto personali. Se solo si arrivasse ad accordarsi sul senso da dare alle finalità della scuola, così come sono state fissate dal Parlamento quasi quindici anni fa, allora sarebbe forse possibile stabilire chi assolve il suo mandato e chi no – agendo poi con la necessaria consequenzialità. Invece no: si perseguono traguardi del tutto personali e adattati ai propri ghiribizzi, pretendendo pure di fare le statistiche. Lo stesso discorso soggiace alla definizione del profilo dell’insegnante. Più o meno ciclicamente si torna a parlare della vocazione dell’insegnante, per suggerire che chi non è unto dello spirito di Rousseau (o di Pestalozzi o della più nostrana Boschetti-Alberti, vedete un po’ voi…) non è al suo posto. Gran balla, questa della chiamata divina, che nessuno si sogna di evocare per i medici – certamente non tutti sedotti dalle sirene ippocratiche – o per gli avvocati, per non parlare dei politici. Come c’è il libero professionista ispirato dai soldi o dal potere, ci sarà pure l’insegnante ammaliato dalle vacanze o dal posto sicuro. Nell’uno come nell’altro caso, l’ispirazione primigenia non si configura, di per sé, come corpo di reato.
Ma ancora una volta, per stabilire chi è al suo posto e chi non lo è, sarebbe opportuno specificare quali sono i precisi compiti di chi in quel posto è stato messo a dimora. Durante la campagna in vista della votazione del 18 febbraio 2001 (quella sul finanziamento pubblico della scuola privata) si erano pressoché sprecate le tirate sulle finalità laiche e democratiche della scuola pubblica e obbligatoria, anche se qualche eccesso aveva portato il filosofo Franco Zambelloni a chiedersi se si votava per le mense o per la difesa di un programma repubblicano. A poco più di tre anni da quello storico voto spiace che di Scuola si parli solo per questioni tutto sommato marginali e che il dibattito tragga linfa unicamente da questioni sindacali: andiamo pure avanti così – tutti insieme irresponsabilmente – per favorire l’apertura dei nuovi Supermarket dell’Istruzione – al di là di ogni contratto collettivo di lavoro e alla faccia d’ogni parvenza di un progetto serio di Scuola per il Paese. I nuovi epigoni del liberismo a tutti i costi, intanto, gongolano.

Le famigerate vacanze dei docenti

“Siamo quasi in vacanza, eh?!”.
Strano a dirsi, ma se lavori nel mondo della scuola, di questi tempi non trovi più nessuno che si interessi alla tua esistenza e, incrociandoti, ti mostri il suo affetto con il più classico dei “Come va?”. Anche a livello meteorologico gli insegnanti, con l’arrivo di giugno, diventano interlocutori inaffidabili, tanto che a nessuno viene in mente di attaccar bottone con una disquisizione sul tempo che fa – l’afa, la bella stagione che stenta ad affermarsi, e chissà che estate avremo. No: se sei insegnante, o comunque qualcuno che ruota nei suoi paraggi, sei condannato a tre mesi di vacanza. Te la buttano lì con nonchalance la domandina insidiosa: non “quando finisce la scuola?”, ma un più prosaico “quando cominciano le vacanze?”. E tu hai un bel dire che c’è differenza tra le vacanze degli allievi e le tue, che a metà giugno vi sono ancora scrutini e riunioni e corsi d’aggiornamento, e che già dopo Ferragosto riprenderà il tran tran preparatorio.
Forse una volta non era così: non me lo posso ricordare, ma mi è difficile immaginare il mio vecchio e burbero maestro di scuola elementare preso per i fondelli da un qualsiasi amico occasionale solo perché a metà giugno iniziavano i famosi tre mesi di vacanza. E poi – diciamocelo! – a quei tempi i maestri erano ancora missionari, e in taluni contesti strapaesani o contadini sedevano addirittura alla sinistra del sindaco (mentre a destra c’era il curato). Da dove sbuchi questa mancanza di pubblica considerazione è difficile dirlo. Di sicuro fare l’insegnante oggi è più difficile che in passato; eppure nell’immaginario collettivo si è ormai sedimentato il paradigma secondo cui due insegnanti insieme fanno un anno di vacanza. Direi che lo scorso 16 maggio, votando sull’ora in più per i docenti cantonali, abbia prevalso nella popolazione questa visione della casta privilegiata – forse acuita da certe prese di posizione corporativistiche che, francamente, erano fin troppo sopra le righe.
Anche tra i molti che a metà maggio hanno votato “Sì” – per dire che un’ora in più di lavoro non avrebbe lasciato nessun cadavere nelle aule scolastiche – ve ne sono sicuramente in abbondanza di quelli che hanno rispetto e un’alta considerazione di una categoria professionale importante e per lo più seria e impegnata. Anche se sbertucciare il professore è un gioco da bambini, è noto ai più che il “mestiere di insegnare” è oggi diventato difficile, faticoso, esposto alla critiche e in tanti casi mal remunerato. Ma l’omologazione contrattuale di cui gode la categoria non le giova di certo. Dalla scuola dell’infanzia in su, tutti gli insegnanti sono ugualmente bravi, competenti e dinamici, tanto che gli scatti di salario seguono cicli cosmici: ad ogni giro della terra attorno al sole te ne attaccano un pezzetto e dopo un tot numero di orbite – quando se va bene non sei neanche a metà della tua carriera (si fa ovviamente per dire) – sei giunto al capolinea e da lì non ti schiodi più.
Non so se quest’omologazione delle capacità e della generosità sia utile alla scuola prima ancora che a ogni singolo insegnante. Chiunque abbia avuto a che fare con la scuola ha conosciuto indimenticabili Maestri e, nel contempo, degli infiniti infingardi, fors’anche un po’ bischeri: purtroppo sembrerebbe che quest’ultimi, anche se sono presumibilmente una copiosa minoranza, contribuiscano molto più dei primi a contraddistinguere la scuola e i suoi onesti insegnanti – magari perché fanno ridacchiare anche a distanza di decenni. O forse perché il problema dell’ora in più non li tocca, né li toccherà mai. Ad ogni buon conto occorrerà pur fare qualcosa, perché di mezzo ne vanno il Paese e la scuola tutta. Per intanto godiamoci le incombenti vacanze.