Tutti gli articoli di Adolfo Tomasini

Giovani, buone maniere e impegno dei genitori

“I giovani di oggi non hanno rispetto di nulla e di nessuno!”: lo si sente spesso ripetere, soprattutto da chi era ragazzo durante l’ultima guerra. Loro lo dicono e molti altri lo pensano. E aggiungono: tutta colpa della scuola, che non insegna più le buone maniere e – quindi – anche il rispetto per le persone e per le cose. Leggendo La Regione di sabato scorso si direbbe che abbiano ragione. Il quotidiano bellinzonese descrive le eroiche gesta di una banda di cialtroni che, a quanto pare, imperversa da un po’ di tempo alla stazione Ffs di Locarno: i teppistelli insultano, ti sputano in faccia, occupano convogli, rubano, insudiciano, graffiano carrozzerie, si ubriacano, minacciano. Scrive il cronista: “Tutti i giorni il gruppo gioca al gatto e al topo con la Polizia e con i ferrovieri, in un continuo rincorrersi per la stazione. Lo scopo degli uni è danneggiare convogli, disturbare il normale lavoro degli impiegati Ffs, salire sui treni in sosta per occuparli e renderne di fatto impossibile l’utilizzazione da parte dei passeggeri; l’obiettivo degli altri è cercare di limitare i danni, di ‘far presenza’ per circoscrivere lo strapotere della banda”.
Beh, a leggere notizie come questa verrebbe voglia di dar ragione a chi se la prende con la scuola e con la gioventù, anche se è grande il pericolo di buttar via il pupo con l’acqua sporca. D’altra parte in chi è adulto, ma non ancora in odore di pensionamento, cresce l’impressione che a fronte di genitori assolutamente incapaci di educare i loro figli, vi sia uno Stato vieppiù rinunciatario. Sul CdT di venerdì scorso Romano Piazzini, comandante della Polizia cantonale, ha scritto che “Non sono rari i casi in cui pattuglie di polizia, accompagnando a casa giovani minorenni sorpresi in giro a notte fonda spesso in preda ad alcol e droghe, vengono aspramente biasimate dai genitori. ‘Non avete di meglio da fare? Correte dietro ai ladri invece di infastidire i nostri figli’, sono frasi ricorrenti (e fra le più gentili).”
È ovvio che se il comandante della polizia si limitasse a prendere atto di una simile tendenza senza nulla aggiungere, dovremmo concludere che è uno sprovveduto e che la nostra sicurezza è in pessime mani. Ma Piazzini, partendo dal rilievo dei suoi agenti, lancia un poderoso macigno nell’acqua cheta dello stagno, riferendo di un ampio dibattito che ha attualmente corso in Francia. Le autorità politiche e giudiziarie transalpine sembrano infatti decise a richiamare i genitori dei minorenni alle loro precise responsabilità, tanto che – riferisce Piazzini – “Nel 1998 il ministro di giustizia rammentava ai procuratori pubblici l’esistenza dell’art. 227-17 del Codice penale francese in virtù del quale è possibile condannare un genitore a due anni di detenzione qualora abbia compromesso la salute, la sicurezza, la moralità o l’educazione di un figlio minorenne”.
Insomma: in Francia il dibattito è aperto e sarebbe utile che s’aprisse anche da noi. Perché un conto è incolpare la scuola di non educare e la polizia di non occuparsi dei ladri (ma i ragazzi della stazione locarnese che fanno? un garbato minuetto?), e un altro tentare seriamente di risolvere un problema che di sicuro si acuirà, se tutti insieme non saremo in grado di analizzare lucidamente la situazione che si è creata: urge un contributo che non sia solo, e ipocritamente, “politically correct”, ma che abbia il pregio di chiamar le cose col loro nome. In buona sostanza, non si tratta di legittimare il manrovescio e il manganello gratuito, ma di costringere i genitori ai loro obblighi parentali: crescere e educare un figlio è troppo importante, per poterlo delegare alla scuola e, più in generale, allo Stato.
Per una volta, dunque, scuola e polizia hanno qualcosa in comune: l’impotenza di fronte a comportamenti che solo la malafede può addossare alla società. Frattanto lo Stato banalizza l’alcol, riducendo l’età in cui lo si può assaporare indisturbati al bar o – più prosaicamente – al pub.

Ma è una scuola o un “asilo”?

Qualche anno fa il vecchio e indimenticabile Asilo ha cambiato nome, diventando Scuola dell’infanzia. In verità non era la prima volta: da Casa dei bambini era passato a Scuola materna, ma tutti noi persistiamo a chiamarlo Asilo. Se me ne occupo in questa rubrica è perché anche questa gloriosa istituzione – che dà lustro al Ticino scolastico, forte di una tradizione che affonda le sue radici lontano nel tempo – comincia a dar segni di qualche ineluttabile confusione. L’asilo, molto più che i gradi scolastici successivi, è un cocktail di educazione, insegnamento e sorveglianza. Anche se sui codici non lo si scrive mai, la scuola dell’infanzia e la scuola elementare ricoprono anche un fondamentale ruolo di custodia dei frugoletti, per far sì che i loro genitori possano occuparsi d’altro e mandare avanti la famiglia.
Si tratta di un compito assolutamente gradito, oltre che utile all’intero Paese, poiché in caso contrario molte famiglie si troverebbero in difficoltà, non potendo conciliare turni di lavoro e esigenza di accudire i pargoli. D’altra parte la stessa Legge specifica che “…la scuola dell’infanzia e la scuola elementare favoriscono il processo di socializzazione del bambino, sviluppando le sue facoltà motorie, affettive e cognitive”: scuola in tutti i sensi, quindi, anche se forse sarebbe il caso di cominciare a pensare a qualche correttivo, soprattutto dopo che il successo massiccio della votazione del 18 febbraio 2001 ha fatto prosperare le richieste sul fronte del sociale. Ad esempio: come si sa, la scuola dell’infanzia può accogliere bambini dai 3 ai 6 anni di età. È pure vero che, di regola, poco più della metà dei bambini di tre anni la frequenta: in parte per scelta delle famiglie, in parte per mancanza di spazi.
È così che già nell’aprile del 2001 la parlamentare Monica Duca Widmer aveva chiesto una modifica della Legge per sostenere l’ammissione del maggior numero possibile di bambini di tre anni, modifica che il Parlamento non ha accettato, invitando però i Comuni a darsi da fare per accogliere nei propri asili il maggior numero possibile di treenni. Al di là delle indubbie ricadute sul piano della socializzazione e delle acquisizioni – la vita di gruppo porta sempre a imparare – è comunque utile chiedersi fino a che punto questa (nuova) esigenza faccia parte dei compiti del Dipartimento dell’Educazione. Personalmente non ne sono tanto convinto, anche perché la convivenza in uno stesso gruppo di allievi di età così diverse pone da sempre irrisolti problemi. Oltre a ciò, noi sappiamo che i bimbi di tre anni iscritti all’asilo hanno una frequenza molto parziale, spesso limitata a qualche ora e a qualche mattina, e che non necessariamente usufruiscono dell’insegnamento riservato ai loro compagni più grandicelli.
Che vi sia poi una certa promiscuità nel definire ruoli di sorveglianza e ruoli educativi è dato dalla grande differenza che intercorre tra asili dotati di mensa e asili che ne sono sprovvisti. A parte le disparità salariali tra maestre che mangiano coi loro allievi e colleghe che se ne vanno a casa loro (per intenderci: chi lavora oltre un’ora in più al giorno percepisce tre e una cicca), non è chiaro il senso stesso della refezione: perché la legge afferma che “…la refezione è parte integrante dell’attività educativa e, quindi, il docente titolare ne è responsabile”. Ciò potrebbe significare che gli istituti senza refezione sono meno educativi degli altri. D’altra parte pochi anni fa anche l’asilo si è dotato del mercoledì pomeriggio di vacanza, come le altre scuole, e addirittura di programmi scolastici che stabiliscono i principi generali dell’impostazione pedagogica, i criteri organizzativi generali, le aree educative e i relativi obiettivi. Ma allora: è una Scuola o è un Asilo?
Come detto, la scelta toponomastica è stata precisa e cosciente. Ora è giunto il momento di rimettere al Dipartimento della Socialità tutto ciò che con la scuola non ha niente a che fare, erodendo però energie e soldi.

Una missione sempre più donchisciottesca

Sul Corriere del 1° febbraio, il garbato lettore Franco Cavallero di Lugano ha fatto le pulci al mio ultimo intervento su questo giornale, quando me l’ero presa con un gruppo di parlamentari che, attraverso una mozione, sollecita la creazione di strutture adeguate per occuparsi degli allievi superdotati. “Secondo me – scrive il signor Cavallero, che ringrazio per l’opportunità che mi offre di aggiungere qualche spunto al ragionamento – la scuola fa male a snobbare i migliori”. E sottolinea che “…esistono tanti altri allievi (quanti?), di oro meno fino, che a scuola si annoiano di noia mortale”.
Per quanto mi concerne, ho da tempo il dubbio che a scuola siano in molti a tediarsi – allievi, sì, ma anche insegnanti e dirigenti. A differenza però del mio civile interlocutore, non me la sento di addossare la colpa ai pedagogisti, rei di aver imposto un modello basato sull’appiattimento dei comportamenti e dei saperi, che tenderebbe a farsene un baffo di tutte le punte per creare una siepe bassa e ben livellata. D’altra parte è pur vero che per molti anni la scuola è andata avanti a occuparsi solo dei diseredati – socialmente e per dotazione naturale – scordandosi dei migliori e dei normalmente dotati, col bel risultato che l’appiattimento su una specie di pensiero misero e uniforme si sta sedimentando, se già non è una realtà.
Ma versare lacrime su sbagli commessi in tempi nemmeno troppo lontani non serve a migliorare una scuola che, a tutt’oggi, è comunque confrontata con problemi d’identità e di ruolo che fino a vent’anni fa neppure si potevano immaginare. Per la prima volta nella storia, la scuola non è più specchio della società, ma la insegue ansimando, con incedere sgangherato. Di certo non è con la restaurazione di metodologie d’antan che si possono risolvere i tormenti di un’istituzione che per davvero dovrebbe essere in grado di offrire il massimo a tutti i suoi allievi, siano essi debolucci o superdorati, figli di medici o di lavapiatti, indigeni o stranieri. La scuola di un tempo, quella dove i migliori (i più fortunati?) erano additati come esempio per gli altri – che in qualche caso riuscivano pure a imitarli e a trarne qualche vantaggio – si fondava su alcuni punti fissi condivisi da tutti, ma proprio tutti. I programmi scolastici e l’immagine di “buona educazione” si tramandavano di generazione in generazione, con variazioni minute, e la scuola – soprattutto quella dell’obbligo – fungeva da cinghia di trasmissione e da catalizzatore dell’immutabilità dell’appartenenza socio-culturale.
Oggi, per cause che vanno certo al di là delle responsabilità o dei meriti del sistema scolastico, il divario culturale tra due generazioni consecutive è sempre più alto, tanto che i dirigenti scolastici di tutto l’occidente non sanno più con precisione che pesci pigliare, particolarmente dopo l’ubriacatura di sapere scientifico e tecnologico che ha seriamente inquinato le nostre culture. Quale valore hanno ancora la letteratura e la filosofia, l’arte e l’etica della convivenza civile, lo studio della storia e il piacere della poesia? Avessi la bacchetta magica, saprei come (ri)fondare una scuola dell’obbligo che sappia educare cittadini critici, consapevoli e istruiti. Ma occorrono scelte precise, non cerotti per tamponare oggi una lacerazione e domani quell’altra, lasciando tutto il resto alla mercé del mondo economico e dei mass media.
Così sarebbe conveniente avere finalmente il coraggio di metter mano a quelle importanti riforme strutturali evocate da almeno un decennio e continuamente insabbiate sotto una montagna di pretesti: di certo una scuola che funziona a compartimenti stagni, ancorata alla certificazione annuale, a griglie orarie assurde e desuete, alla pedagogia del test, non può in nessun modo rispondere a esigenze sempre più differenziate: malgrado tutta la buona volontà di chi, dentro l’aula, cerca davvero di dare il massimo ad ogni suo allievo, nel rispetto della classe e del Paese. Ma sta diventando una missione sempre più donchisciottesca.

Al tavolo della scuola “à la carte”

Ci mancava anche questa. Qualche settimana fa una ventina di parlamentari di diversi partiti, capeggiata dal deputato Massimo Ferrari (PPD), ha presentato una mozione per stimolare la scuola ad occuparsi seriamente degli allievi superdotati – di quegli allievi, cioè, che Madre natura ha voluto equipaggiati di un potenziale di genialità assolutamente al di sopra dei normali standard intellettuali. Secondo gli autori dell’irrinunciabile atto parlamentare, è giunto il momento che anche il nostro Dipartimento dell’Educazione (e della Cultura e dello Sport e di chissà cos’altro ancora, se andiamo avanti di questo passo) si occupi seriamente di tutta quella schiera di presumibili piccoli premi Nobel che circolano per le nostre contrade. Come? Imparando a riconoscerli, formando docenti specializzati che possano fungere da consulenti dei titolari, inventando opportune strategie per promuovere i talenti e, per terminare, autorizzando l’inizio prematuro della scuola o il salto di classe. Aggiungerei: e prevedendo schiere di funzionari dipartimentali che sottopongono a esami specifici tutti i pargoletti pretesi genî da trepidanti genitori. Tutto sommato avrei preferito la strada più diretta, che è quella imboccata da qualche cantone svizzero-tedesco e da alcune agenzie scolastiche private in giro per l’Europa: le famose classi per i superdotati, dove insegnanti dall’altissimo potenziale pedagogico ti lasciano di stucco con acrobazie dell’ingegno che neanche il Circo di Montecarlo…
Intendiamoci: non oso affermare che la scuola pubblica non debba occuparsi come si conviene di quei pochi fortunati individui che hanno un potenziale cognitivo elevatissimo. Ma la realtà è purtroppo un’altra e da alcuni chiari segnali sembrerebbe che la scuola si addentri sempre più in una logica bottegara, dove una serie di derrate scolastiche sono esposte in bella mostra a disposizione di chi può. In fondo abbiamo già le scuole speciali per i meno fortunati, e se il governo seguirà le suggestioni della mozione in esame avremo anche una seconda scuola speciale, ovviamente agli antipodi. Avremo così risolto i problemi delle due fasce estreme della curva di Gauss. Nel frattempo abbiamo già creato le strutture scolastiche per gli sportivi d’élite, ma in futuro si potrebbero escogitare altri reparti specializzati per andare incontro alle legittime esigenze di chi il proprio figlio lo sogna medico o principe del foro, astrofisico o romanziere di successo, presidente del Governo o vincitore della Vuitton Cup: perché perder tempo con la lingua madre se voglio che mio figlio diventi un emulo di Totti?
Intanto una notizia d’agenzia riferisce di una campagna lanciata in Francia dalle scuole cattoliche: “A sorpresa, si riapre in Francia il dibattito sulle classi miste a scuola: maschi e femmine insieme, una conquista acquisita nei primi anni Sessanta, non ha dato grandi frutti. Quarant’anni dopo, sessismo, aggressività e crisi d’identità dei maschi ripropongono problemi che il tempo ha lasciato irrisolti”. Per dividere i bravi dai cattivi, i belli dai brutti, i ricchi dai poveri c’è comunque tempo: basta un po’ di pazienza.
Mi pare innegabile che questa sorta di assalto alla diligenza è per lo meno una spia della crisi d’identità in cui si dibatte l’istituzione e, conseguentemente, la sua scuola. Per tornare al tema dei “superdotati”, non si può negarne l’esistenza, così come ci si deve rendere conto che anch’essi – come d’altronde tutti gli altri – hanno esigenze particolari. Ma se la scuola (pubblica) è (ancora) “un’istituzione educativa al servizio della persona e della società” il cui scopo primario è quello di “promuovere lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà” attraverso l’interazione “con la realtà sociale e culturale”, allora l’applicazione di norme liberiste alla scuola non farà che accentuare competitività e selezione socio-economica e culturale: ciò di cui – francamente – non si sente proprio il bisogno, tanto che – ricordate? – i ticinesi avevano chiaramente declinato l’invito a sedersi al tavolo (sussidiato) della scuola à la carte. Era il 18 febbraio di due anni fa. Altri tempi.

Invece, e più correttamente, occorrerebbe avere finalmente il coraggio di metter mano a quelle importanti riforme strutturali evocate da almeno un decennio e continuamente insabbiate sotto una montagna di pretesti: di certo una scuola ancorata alla certificazione annuale, a griglie orarie assurde e desuete, alla pedagogia dell’espe, non può in nessun modo rispondere a esigenze sempre più differenziate: malgrado tutta la buona volontà di chi, dentro l’aula, cerca davvero di dare il massimo ad ogni suo allievo, nel rispetto del gruppo e del Paese. Ma sta diventando un ruolo sempre più donchisciottesco.

La “Marche blanche” e il minestrone mediatico

È noto: mai come negli ultimi vent’anni la scuola si è ritrovata in un contesto di concorrenza educativa così spietato. Soprattutto sul piano del sistema dei valori, gli insegnanti hanno perso l’indubitabile influenza che avevano avuto e che ne avevano fatto un punto di riferimento irrinunciabile. Intendiamoci: il mutamento non è (solo) il frutto di errori e inadempienze da parte del sistema scolastico, ma – semplificando – scaturisce soprattutto dall’esplosione quantitativa dell’informazione e dalla sua democratizzazione. In altre parole: circolano molte più informazioni di un tempo e molte più persone vi hanno accesso. Purtroppo sempre più spesso – soprattutto in televisione – la forma diventa più importante del contenuto, con esiti paradossali.
Un esempio significativo l’ho potuto cogliere ancora sabato scorso seguendo in serata il TG Notte della TSI. Nel pomeriggio a Bellinzona – così come in numerosi altri capoluoghi svizzeri – si è svolta la “Marche blanche”, manifestazione pacifica contro la pedocriminalità, alla sua seconda edizione. Come già l’anno scorso, oltre un migliaio di persone ha percorso un itinerario che da Piazza del Sole l’ha portato dapprima davanti al Palazzo del Governo e poi al Castelgrande, dove il raduno si è concluso, dopo un doveroso minuto di silenzio in ricordo delle piccole vittime dei pedocriminali, con l’ormai tradizionale lancio di palloncini bianchi. La “Marche blanche” è una dimostrazione sacrosanta, che tende a sensibilizzare l’intero Paese sullo scabroso tema della criminalità contro i bambini e che, nel contempo, cerca di far pressione sull’autorità politica affinché siano prese tutte le dovute misure per far fronte a questa piaga sociale dalle dimensioni spropositate, ancorché assai spesso offuscate dal perbenismo e da un malinteso senso del garantismo.
Ma la “Marche blanche” è anche una riunione popolare di grande impatto emotivo, forse perché si discosta dai linguaggi tradizionali delle kermesse politiche e dei relativi cortei: non si scandiscono slogan, non vi sono estremismi. Invece si riflette e ci si emoziona.
Ma che fa la nostra TSI? Quasi in coda al suo TG di sabato sera, butta lì un servizietto inconsistente, dove si vedono un po’ di persone che avanzano tra le vie di Bellinzona, si inerpicano su fino al Castello e lasciano volare i palloncini bianchi che riempiono il teleschermo. La colonna sonora descrive in pochi istanti l’avvenimento. L’impressione è che il servizio televisivo era inevitabile, perché si trattava di una manifestazione nazionale, sostenuta da diversi governi cantonali – tra cui quello Ticinese – e da numerose personalità dell’arte, della scienza, della politica e dello sport. Un servizio di questo tipo diventa perfino controproducente, poiché annoia invece di sbatacchiare il telespettatore, e dà l’impressione della velina, dell’ipocrita genuflessione ai piedi del Palazzo. Tanto che l’edizione di sabato del TG Notte è terminata – pochi istanti dopo lo scipito reportage sulla “Marche blanche” – con l’esibizione di un gruppo musicale alternativo, che si è esibito pestando i porri (o erano sedani?) su una zucca e confricando una carota dentro un cetriolo; per terminare spensieratamente con un gustoso minestrone per tutti.
Appunto: lo sanno tutti che la valenza di una notizia o di un resoconto giornalistico dipende dalla sua impaginazione, dalla sinergia tra testo, immagini e suoni, dall’ampiezza del titolo e dall’accostamento con gli altri servizi. Nel caso in esame l’impressione è che da un lato vi è stata una notevole insensibilità sul piano dell’impaginazione, dall’altro che al giornalista la “Marche blanche” interessava poco (eufemismo). Ne consegue che un comune cittadino che ha seguito il TG Notte di sabato scorso non si è probabilmente nemmeno accorto che anche nel nostro Cantone aveva avuto luogo una manifestazione popolare per invitare l’autorità politica a dotarsi con urgenza delle indispensabili misure per annullare la pedocriminalità: che nel Ticino fa annualmente dalle 1’000 alle 1’200 vittime.
Tutto ciò è molto diseducativo e, per una volta, sotto i riflettori non ci sono il sensazionalismo di certi reportage di guerra, né l’esibizione stentorea della smutandata di turno: almeno il TG – dicono – dovrebbe rappresentare il fiore all’occhiello di ogni canale televisivo. Per una volta, anche se penso peste e corna delle note, credo che un bel 3 alla nostra TSI sia strameritato.