Parto dal centro: l’appuntamento è per giovedì 30 marzo alle 17.30, nell’aula magna dell’ex scuola magistrale cantonale, in Piazza San Francesco a Locarno, dov’è in programma un incontro che sarà nel contempo simpatico e di grande interesse.
Protagonisti: due scrittori, due romanzi, una conduttrice e una lettrice. E poi il pubblico, che mi auguro numeroso e appassionato.
Paolo Di Stefano (Avola, 1956) è inviato speciale del Corriere della Sera. È autore di numerosi romanzi tra cui «Baci da non ripetere» (1994), «Azzurro troppo azzurro» (1996, Premio Grinzane Cavour), «Tutti contenti» (2003, Superpremio Vittorini e Superpremio Flaiano), «Aiutami tu» (2005, SuperMondello), «La catastròfa» (2011, Premio Volponi), «Giallo d’Avola» (2013, Premio Viareggio-Rèpaci), «Ogni altra vita» (2015, Premio Bagutta), «I pesci devono nuotare» (2016).
Daniele Dell’Agnola, classe 1976, è docente alla SUPSI, insegnante di italiano alle medie, autore di romanzi, tra i quali «Melinda se ne infischia» (2008), «Baciare non è come aprire una scatoletta di tonno» (2014, con pièce teatrale tradotta in francese e tedesco), «Anche i bruchi volano» (2016). Ha ideato per il Corriere del Ticino la rubrica di narrativa Il bidello Ulisse, che è diventato un format su Teleticino, dove presenta libri per bambini e ragazzi.
Di Stefano narra una storia vera, quella di Selim, un ragazzo egiziano che, con l’incoscienza e la forza dei suoi diciassette anni, attraversa il deserto e la Libia, fino a raggiungere il mare e imbarcarsi per l’Italia. Dopo fatiche, stenti e preghiere sussurrate, il viaggio lo conduce in Sicilia, insieme a centinaia di migranti in cerca di sogni. Il suo è il più grande e ambizioso: vuole un riscatto dall’infanzia che si è lasciato alle spalle, parlare l’italiano meglio degli italiani, costruirsi un futuro. Selim, a Milano, non è solo. Dentro e accanto alla sua vita ne scorrono altre, meno luminose ma altrettanto esemplari: la dolce Marlene, il ruvido Raymon, l’amico Tawfik e alcuni misteriosi angeli protettori, in un mondo che cambia velocemente, dove si innalzano barriere per difendersi da ciò che non conosciamo.
Anche la storia di Dell’Agnola parla di adolescenti, ragazzi e ragazze in bilico tra una fanciullezza più o meno felice e un’età adulta misteriosa e che può intimorire. Felix, dodicenne in affanno, iperattivo e ribelle, vive in un quartiere ai margini della città. Ama la cultura, odia la scuola e Marcello Porcello, figlio del pediatra che gli somministra metilfenidato come fosse cioccolata. Si rifiuta di frequentare la scuola, così è seguito da un’orda di psicologi, pedagogisti, medici e specialisti, che lui definisce i «draghi drugugubri». Un giorno incontra Alice, misteriosa ragazzina piuttosto vivace. Con lei e altri amici vivranno una metamorfosi grazie ad avventure e tragedie, alle prime esperienze sessuali e al desiderio di scontrarsi, misurarsi… e volare.
Christelle Campana, giornalista del TG della Radiotelevisione svizzera, sarà la conduttrice della serata.
Sara Giulivi, docente e ricercatrice al DFA della SUPSI, che ha alle spalle una formazione come attrice presso il Centro Teatro Internazionale di Firenze, leggerà alcune pagine significative dei due romanzi.
Spero davvero di salutare un pubblico numeroso, perché ne varrà la pena.
Ebbene sì, anch’io, una volta, ho fatto il fondatore – senza nessun merito particolare, se non quello d’essere amico di alcuni che, in quell’occasione, Fondatori lo furono davvero. Fatto sta che il 2 giugno del 1993 firmai gli statuti dell’Associazione degli Amici dell’Organo di Locarno (AOL), approvati dall’Assemblea costitutiva del 2 giugno 1993.
Sono ancora con loro, con gli amici che ci sono ancora, perché questo manipolo di appassionati continua da cinque lustri a proporre il grande repertorio della musica organistica, senza quella puzza sotto il naso che troppo spesso distingue chi si perita di far cultura.
E non poteva andare che così, se solo si pensa che il direttore artistico dell’associazione, Giovanni Galfetti, è un musicista sensibile e un Maestro a tutto tondo. Figlio d’arte, Giovanni insegna oggi al Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, l’ex scuola magistrale. C’era durante tutte le metamorfosi di quella scuola degli ultimi trent’anni o giù di lì, dalla post-liceale all’Alta scuola pedagogica a oggi. Il suo sitotestimonia, persino con troppa modestia, il suo grande impegno di musicista, educatore e uomo di cultura.
In occasione del venticinquesimo anniversario dell’AOL, La Rivista, mensile illustrato del Locarnese e valli, ha pubblicato sul suo numero di dicembre 2016 un mio articolo, con alcuni ricordi e qualche aneddoto. L’intento era quello di scansare a ogni costo toni dotti e saputelli: se, con Giovanni e qualche altro, continuo a dare una mano, è perché non ci siamo mai lasciati ingolosire dell’elitismo, che è l’anticamera della petulanza. Perché siamo amici del Re, mica volgari cortigiani, che, come canta Verdi, sono vil razza dannata.
Mi piace riproporlo di seguito, mentre la copia dell’originale può essere scaricata qui.
Una sera d’autunno del 1990 mi chiamarono Giovanni Galfetti e Marco Balerna. Mi raccontarono che in primavera si doveva organizzare per bene l’inaugurazione dei rinnovati organi della collegiata di Sant’Antonio. A quel tempo la mia cultura organistica era quella dei noti paracarri: conoscevo a malapena l’inizio della Toccata e fuga in re minore di Bach. I due amici sapevano però che ero un musicofilo onnivoro e curioso, che credevo nella diffusione della cultura – non solo quella musicale, ovvio – e che se c’era da dare una mano non mi sarei tirato indietro.
Scoprii presto alcune cose: che nella collegiata c’era un bell’organo romantico, che da tanti anni vivacchiava come un vecchio trascurato dai parenti, strusciando i piedi e spargendo armonie disarmoniche, col fiato corto; che già nel 1986 la Città di Locarno, proprietaria dello strumento, aveva destinato un credito importante per il restauro; e, per finire, che i rinnovati organi erano uno solo, quello lì, e che il plurale era un francesismo del Balerna. In ogni modo, non rifiutai l’invito e nella primavera di 25 anni fa andò in scena un battesimo coi baffi: concerto inaugurale con il principe degli organisti, Daniel Chorzempa, musicista di origine polacca ma cresciuto a Minneapolis, una stella di prima grandezza del panorama organistico.
Nasce l’AOL
Com’era normale che fosse, non eravamo pratici di organizzazioni di quel tipo. Così Chorzempa ci fece un poco ammattire – e lascio perdere dettagli che ci farebbero arrossire. Resta che la fase inaugurale, in quell’intensa primavera, fu emozionante, perché dopo il principe ospitammo Jeanine Lehmann, grande interprete svizzera, e poi alcuni bravi organisti di casa nostra: Livio Vanoni, Diego Fasolis e Giovanni Galfetti. Fu forse grazie alla passione e agli stimoli di quei giorni che avviammo la creazione dell’AOL, l’associazione degli Amici dell’Organo di Locarno, con lo scopo di valorizzare gli organi delle chiese locarnesi, in particolare lo strumento Urbani-Bossi-Marzi della collegiata, e di promuovere e organizzare concerti e altre attività musicali legate all’organo. L’AOL vide la luce il 2 giugno del 1993, alla presenza di una ventina di soci fondatori, tra i quali voglio citare Giovanni Galfetti, l’anima artistica del gruppo, Marco Balerna e l’arciprete Storelli don Ernesto, come autografò quella sera l’approvazione degli statuti. È in quell’anno che è partita un’avventura artistica e culturale straordinaria.
L’AOL, finché lo strumento non ricominciò e dar segni di sfinimento, ha proposto per diversi anni tre concerti tradizionali – per Santo Stefano, per la domenica delle Palme e per Pentecoste, oltre, in alcuni anni, il concerto di Ognissanti – decine e decine di matinée, con l’indispensabile sostegno dell’Ente per le Iniziative del Locarnese, e qualche concerto speciale, ospitando alcune punte di diamante della scena organistica internazionale. Mi piace rammentare e sottolineare che, con l’unica eccezione dei concerti inaugurali, l’AOL non ha mai chiesto un biglietto d’entrata, accontentandosi di un’eventuale offerta libera all’uscita, a seconda della disponibilità e del piacere provato. Forse è questo dettaglio, forse è il genere musicale in sé e i luoghi in cui stanno gli organi, forse sono altre caratteristiche misteriose: ma il pubblico, il nostro pubblico, è particolare e simpatico. Non ha il cilindro per cappello, due diamanti per gemelli, il bastone di cristallo, né la gardenia nell’occhiello. Sotto le navate della collegiata ho visto i pubblici più diversi e compositi: dal musicista attento al critico pedante, dal melomane che annuisce rapito a quello che riflette e vola in chissà quali mondi fantastici; ma anche intere famiglie con figli grandi e piccoli al seguito. Per ciò che mi concerne, da quella telefonata autunnale di cinque lustri fa ho scoperto un mondo artistico meraviglioso, un crogiuolo di compositori e di culture incantate, un repertorio inatteso ed emozionante, come sa fare l’arte, magari esaltata da luoghi che stuzzicano anche gli spiriti più laici.
Quindici anni di grande musica
Il cammino con gli amici dell’AOL ha riservato anche qualche aneddoto. Mi viene in mente quell’organista svizzero, protagonista di un concerto di Santo Stefano d’una ventina di anni fa, che dette qualche gatta da pelare al nostro direttore artistico: perché la panca dell’organo era troppo alta rispetto alle sue gambette – fu necessario tagliarne un pezzo, in quel dì di festa – e perché quel giorno non si era sbarbato e bisognava trovargli un rasoio. Capricci da stelline della TV.
Nel 1996 ospitammo una delle più grandi organiste del ’900, Marie-Claire Alain, figlia di Albert e sorella di Jehan, organisti importanti, una famiglia da enciclopedia, allieva di alcuni grandi della musica francese, da Maurice Duruflé a Marcel Dupré, compagna di corso di alcuni dei più importanti organisti della scuola francese del Novecento, come Pierre Cochereau: insomma, un monumento. Al termine di un concerto entusiasmante e indimenticabile, e dopo il ricevimento a casa Rusca con discorsi e rinfresco, questa donnina che certo non se la tirava, benché fosse Lei, chiese se era possibile mangiare un boccone. Non ci avevamo pensato, e fu abbastanza difficile trovare un ristorante ancora aperto a quell’ora, dove fosse possibile andare oltre un panino imbottito col pane del giorno prima. Quel martedì sera finimmo in un ristorante della città vecchia, con un piatto di spaghetti e un bicchiere di vino sfuso, a chiacchierare del più e del meno come un gruppo di vecchi amici.
Due anni dopo, il 5 maggio, data di per sé poetica, ecco un’altra serata speciale, con un altro grande vecchio della musica organistica francese, definito da alcuni l’Arthur Rimbaud dell’organo. Jean Guillou, classe 1930, dal 2014 organista titolare emerito del grande organo della chiesa di Saint-Eustache di Parigi, restò a Locarno alcuni giorni. Propose un programma che spaziava da Bach a Mendelssohn, da sé stesso a una delle sue celeberrime trascrizioni, in questo caso il «Prometeo» di Franz Liszt. E finì con un’improvvisazione su due temi proposti da Giovanni Galfetti. Non dimenticherò mai quel concerto, in parte per il programma così scoppiettante, in altra parte perché durante l’esecuzione del brano d’apertura, a chiesa strapiena, l’organo andò in tilt: una canna un po’ anarcoide improvvisò uno sciopero dello zelo, continuando a cantare la sua nota. Concerto interrotto. Galfetti uscì sul sagrato a strapparsi i capelli. Guillou non perse l’aplomb: lasciò la consolle, entro fisicamente nell’organo, trovò il difetto, rimediò e continuò il programma, terminato in un tripudio.
Mi sia concesso un ricordo molto personale. Il giorno precedente andai a trovarlo sull’organo, portando i miei figli di nove anni. Stava provando il «Prometeo», un’esultanza tardo-romantica che ben riflette la forza del poema sinfonico di Liszt. Ci accolse come un nonno felice e, mentre dava fiato poderoso all’organo, invitò i due jeuns anges a varcare la porticina accanto alle tastiere, quella che porta nel cuore dell’organo, in quel bosco di canne. L’uno varcò la soglia, ma ne uscì difilato, un po’ spaurito. L’altro venne fuori solo dopo la nota finale, e per un po’ di settimane continuò a disegnare canne d’organo che mandavano note lassù, chissà fino a dove.
L’incertezza e la rinascita
Al di là di questi nomi importanti, l’AOL ha invitato alle tastiere dell’organo di Sant’Antonio decine e decine di organisti, noti e meno noti, musicisti di lungo corso e giovani esordienti. Il pubblico ha sempre accolto molto positivamente, a volte con entusiasmo, le tante proposte musicali, a volte mescolate a voci soliste o ad altri strumenti. Così anche quando, una decina di anni fa, fummo costretti a ridurre l’attività a causa delle precarie condizioni dell’organo, abbiamo sempre fatto il possibile per mantenere viva la pur giovane tradizione, proponendo anche in quel periodo difficile il grande concerto di Santo Stefano e le matinée dei mercoledì primaverili e autunnali.
Già da quest’anno, tuttavia, il programma tornerà ai fasti di un tempo (anzi, di più). Grazie alla tangibile sensibilità culturale della Città e del Cantone, il nostro strumento, che è stato definito il più grande e importante organo romantico del Ticino, ha ripreso a suonare, a suonare bene, disponibile con tutte le sue caratteristiche, che sono tante e seducenti, al servizio degli organisti che vorranno proporre le loro scelte artistiche al nostro pubblico affezionato. In settembre c’è stata una sorta di prova generale, con quattro matinée molto seguite e apprezzate, offerte da Marina John, da Marco Balerna col trombettista Ivano Drey, da Roberto Olzer e da Giovanni Galfetti. Poi, il 23 ottobre, c’è stato il concerto inaugurale, per dare il benvenuto all’organo rinato: alle tastiere Francesco Finotti, organista onorario del Duomo di San Lorenzo in Abano Terme (PD); e sul pulpito, a presentarlo, Bepi De Marzi, l’autore del celebre «Signore delle cime», clavicembalista e organista nei prestigiosi Solisti Veneti di Claudio Scimone. Con un pubblico decisamente inusuale – l’arciprete Don Carmelo Andreatta, commosso, non ha saputo trattenersi: «Dovreste venire al mio posto e guardare giù: uno spettacolo!» – il tempo è trascorso svelto e delizioso, sulle onde della musica, dell’interpretazione accattivante di Finotti e delle affascinanti introduzioni di De Marzi.
P. S.: Nel brano Jean Guillou esegue il finale di «Prometeo», poema sinfonico di Franz Liszt, nella trascrizione per organo dello stesso Guillou (Registrato nella Collegiata di Sant’Antonio a Locarno il 5 maggio 1998).
Capita, ogni tanto, che qualche amico o conoscente mi segnali articoli, libri, situazioni o documenti tratti dal web. Nel grande magma dell’informazione oggi si trova proprio di tutto.
Oggi pomeriggio mi è arrivata la segnalazione del video di una conferenza. Il titolo mi ha incuriosito, visto che il tema – o, almeno, la parola chiave, «competenze» – è famosa un po’ in tutta la Svizzera e genera non poche inquietudini: «Per una scuola delle competenze, non dei voti».
Si tratta di una conferenza di una decina di minuti, tenuta in un teatro da tale Salman Khan: mai sentito nominare. Come tutti ho dato un’occhiata alla rete e, con quel nome, ho trovato un attore indiano, una stella di Bollywood. Mica possibile.
Allora ho affinato la ricerca e ho trovato quel che cercavo: Salman Amin Khan è un educatore e imprenditore bengalese, naturalizzato statunitense. Diciamo che la voce Wikipedia in inglese è un po’ meno fuorviante rispetto alla versione italiana. Per tagliar corto, Salman Khan ha alle spalle tre titoli conseguiti al prestigioso MIT, Massachusetts Institute of Technology: due bachelor in scienze e in matematica, poi un master in ingegneria elettronica e informatica, a cui ha aggiunto un altro master a Harvard.
Ecco la presentazione del video: «Costruireste mai una casa su fondamenta lasciate a metà? Naturalmente no! Perché, allora, avanziamo a marce forzate lungo i programmi scolastici quando gli studenti non hanno ancora assimilato i concetti di base?»
Cosa racconta durante la breve conferenza quest’uomo di scienza e imprenditore dell’educazione, fondatore della Khan Academy? Prendetevi dieci minuti e guardatela, perché ne vale la pena: è chiara e accessibile, a tratti divertente.
Per un pedagogista «classico» come potrei essere io, la vera notizia non è quel che racconta, che si rifà sostanzialmente a tanti anni di storia della pedagogia: da Rousseau e Pestalozzi, per giungere a Célestin Freinet e Don Lorenzo Milani, senza scordare quel grande movimento utopistico e pacifista che è stata la Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle, l’unica lega che mi sento di applaudire, quella fondata a Calais, nel 1921, da personaggi quali John Dewey, Jean Piaget, Maria Montessori, Beatrice Ensor, Adolphe Ferrière e Elisabeth Rotten.
Per contro la notizia da prima pagina è che sul pulpito c’è uno che normalmente, nelle nostre scuole medie, medio-superiori e terziarie, non muoverebbe un dito per proibire le monoclassi e le certificazioni annuali, per sopprimere i dannosi, costosi e dispendiosi livelli della scuola media e i tassi spropositati di bocciatura al liceo; perché invece costoro stanno vigili e sornioni all’ombra delle barricate, a difendere e rafforzare tutti i bracci armati della scuola pubblica.
E invece cosa dice il nostro professore bengalese?
Per esempio che non si può continuare un percorso di apprendimento se vi sono anche delle seppur minime lacune.
«In un’arte marziale – dice – ci si esercita sulle abilità di cintura bianca fino ad assimilarle bene, e solo a quel punto si avanza e si diventa una cintura gialle. Anche gli strumenti musicali si imparano così: continuate a esercitarvi sul brano più semplice, e solo quando l’avete imparato bene passate a uno più avanzato».
Di transenna: è un principio già applicato da Freinet sessanta e più anni fa col suo sistema dei brevetti.
Aggiunge: «Tradizionalmente a scuola raggruppiamo tutti gli studenti di solito per età. Poi, durante la scuola media, li dividiamo per età e voti, e li spingiamo come pecore tutti allo stesso ritmo. Così di solito succede che, diciamo in una lezione di pre-algebra alle medie, dove si insegnano gli esponenti, l’insegnante fa una lezione sugli esponenti. Poi andiamo a casa e facciamo un po’ di compiti. Il mattino dopo correggiamo i compiti. Poi un’altra lezione, compiti, lezione, compiti. Questo continua per circa due o tre settimane, e infine c’è un test. In quella verifica, magari io prendo un 75%, tu forse il 90% e lui il 95%. E anche se il test ha rivelato alcune nostre lacune – io non avevo un quarto del programma, e c’era un 5% che anche lo studente migliore non sapeva – l’intera classe passerà all’argomento successivo, probabilmente più avanzato, che prevede cioè la conoscenza delle lacune. Potrebbero essere i logaritmi o gli esponenti negativi. Il processo continua e subito emerge l’assurdità della situazione».
Chi mi ha segnalato questo filmato ha chiosato: «Sant’Iddio, quanto vero è ciò che afferma e propugna questo docente indiano: tutti possono farcela a capire e ad appropriarsi della conoscenza e, quindi, della cultura». Ma, sostiene lui, dobbiamo cambiare a fondo il nostro modo di insegnare!
Ma toh!?
Io aggiungerei: la scuola dello Stato – dai politici agli insegnanti, dai funzionari ai direttori, dagli studenti ai genitori – deve smetterla di essere indifferente alle differenze, deve rispettare la storia e il profilo culturale e cognitivo di ognuno, deve continuare a garantire le pari opportunità in entrata, ma poi deve battersi affinché vi sia concretamente l’opportunità di raggiungere risultati elevati per ognuno all’uscita dalla scuola dell’obbligo.
Per finire, ecco il sogno e l’auspicio del professor Khan, l’attualizzazione di aspirazioni pedagogiche centenarie e mai realizzate, quelle di una pedagogia che dovrebbe far rima con democrazia e benessere e, stavolta sì!, con delle pari opportunità che non restino fermi ai blocchi di partenza.
Non sarebbe solo ‘una gran bella cosa’. Penso che sia un imperativo sociale. Stiamo uscendo da quella che chiamereste l’era industriale e stiamo entrando nella rivoluzione dell’informazione. È chiaro che sta succedendo qualcosa.
La società industriale era piramidale. Alla base della piramide serviva lavoro umano. In mezzo alla piramide c’era l’elaborazione dell’informazione, ossia una classe di burocrati, e in cima alla piramide c’erano i proprietari del capitale, vale a dire gli imprenditori e la classe intellettuale, creativa.
Ma sappiamo cosa sta già succedendo, entrando nella rivoluzione informatica. Il fondo di questa piramide, l’automazione, sta decollando. È l’elaborazione dell’informazione, è la specialità del computer. Come società dobbiamo chiederci: tutta questa produttività sta avvenendo grazie alla tecnologia, ma chi vi partecipa? Sarà solo la cima della piramide? In tal caso, cosa faranno gli altri? Che ruolo avranno?
Oppure facciamo qualcosa di più ambizioso? Cerchiamo cioè di invertire la piramide, con una grande classe creativa, dove quasi tutti possono partecipare come imprenditori, artisti, ricercatori.
Non penso che sia utopistico. Credo che in realtà sia tutto basato sull’idea che se lasciamo attingere al loro potenziale padroneggiando i concetti, riuscendo a gestire in autonomia la propria formazione, le persone possono farcela. Pensateci: da cittadini del mondo è veramente esaltante. Pensate al genere di equità che potremmo avere, e a che passo la civiltà potrebbe progredire.
Quindi sono molto ottimista. Penso che sarà un periodo molto esaltante in cui vivere.
Anch’io, a dirla tutta. Con dei lunghi momenti di grande sconforto.
Sul numero di novembre 2016, il mensile Illustrazione Ticinese, rivista familiare illustrata fondata nel 1931, ha dedicato il suo servizio di copertina al direttore del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, oggi noto con la sigla DFA, che sarebbe poi la vecchia scuola magistrale cantonale: Michele Mainardi. Tra scienza, formazione e apprendimento.
Ne parlo in questa sede – al di là della segnalazione del servizio, interessante di per sé – per un dettaglio che non sarà sfuggito agli addetti ai lavori o presunti tali (benché sia necessario lasciare aperto qualche spiraglio al sospetto…). La scheda biografica che correda il reportage si conclude con una dichiarazione che sicuramente non è fortuita: «Pedagogo di riferimento: Janusz Korczak, un dottore ebreo riuscito nell’impresa che sembrava folle, di far funzionare una comunità di orfani nel ghetto di Varsavia».
[Su Janusz Korczak si veda la voce in Wikipedia; meglio ancora – purtroppo è solo in tedesco – si può consultare il sito del Janusz Korczack Institut].
Korczak è un autore che è entrato nella storia della pedagogia e delle idee pedagogiche solo in tempi recenti. All’epoca della mia formazione pedagogica, dapprima alla Magistrale negli anni ’70, poi all’università di Ginevra dieci anni dopo, non ricordo di averlo incontrato. Eppure il suo contributo all’educazione di bambini e adolescenti ha ancora una forza insolita e autorevole. Korczak non è «soltanto», mi si passi l’avverbio, uno degli ispiratori e dei padri fondatori della Carta internazionale dei Diritti del bambino. Ha scritto Philippe Meirieu: Profondément convaincu que l’enfant a le droit d’exister et d’être respecté en tant que tel, il énoncera, pour la première fois, l’idée de «droits de l’enfant». Il n’est pas, pour autant, partisan du laisser-faire, bien au contraire. Toujours exigeant, il met en place des dispositifs permettant à l’enfant de surseoir à ses impulsions (comme la «boîte aux lettres» où l’on écrit demandes et griefs, le «parlement» qui statue sur les règles nécessaires au fonctionnement de la collectivité, le tribunal, la gazette, etc.).
Ho parlato più volte di Janusz Korczak in queste pagine. Mi piace rammentare A settant’anni dalla morte di Korczak a Treblinka(Corriere del Ticino, 8.9.2012) e il più recente Per capire e (ri)conoscere la barbarie(29.10.2016). In quest’ultimo scritto suggerivo la lettura di un bell’album illustrato, coi testi di Philippe Meirieu e le illustrazioni di PEF: Korczak. Perché vivano i bambini (2014, Editore Junior). Nei giorni scorsi l’amico Pino Boero, professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, mi ha segnalato un altro bellissimo libro destinato a ragazzi dai 10/11 anni: «L’ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini» (di Irène Cohen-Janca, con le illustrazioni di Maurizio A. C. Quarello): come sempre, i libri per bambini e ragazzi dovrebbero interessare tutti gli educatori, dai genitori in là.
Si può leggere nell’ultima pagina del volume, dopo la fine del racconto, così intenso e commovente:
Poveri e senza famiglia, di migliaia di bambini – ebrei, ma non solo – Janusz Korczak si prese cura per oltre trent’anni. Pediatra, subito capì che per prendersene davvero cura alla medicina avrebbe dovuto affiancare la pedagogia. Nacque così una delle più straordinarie esperienze che la storia ricordi, con i bambini protagonisti attivi della loro crescita, della loro formazione.
Un’esperienza che continuò anche tra le mura del ghetto di Varsavia, con Janusz Korczak sempre al fianco dei suoi bambini.
Né, pur potendo, volle abbandonarli quando i nazisti decisero di trasferirli, per l’ultimo viaggio, nel campo di Treblinka.
La sua impronta, insieme a quelle dei suoi bambini, resta, indelebile, nella Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Onu a New York il 20 novembre del 1989.
È giusto, o almeno lo sarebbe, far conoscere agli adolescenti questa figura di Uomo, un medico, che ha creduto profondamente e intensamente nel potere dell’educazione. Sarebbe bello se anche gli insegnanti, i Maestri del mondo intero, riuscissero a mettere l’educazione in vetta agli obiettivi della loro quotidianità, ben prima di pensare alle competenze più o meno disciplinari e alle immancabili valutazioni: che quasi sempre sono il certificato del riconoscimento sociale, dell’esclusione o degli esami di riparazione.
L’insegnamento di Janusz Korczak – e di tanti altri – dovrebbe interrogare e intrigare ogni insegnante, soprattutto quelli della scuola pubblica e obbligatoria: che non è stata pensata e istituita per selezionare le élite – che sarebbe come dire per dare una spintarella a chi comanderà in un futuro più o meno prossimo – ma per ragioni ben più alte e fondatrici.
Oltre tante invenzioni della moderna tecnocrazia didattica, sarebbe utile andare sempre al cuore delle preoccupazioni e delle riflessioni che hanno ispirato le donne e gli uomini che hanno fatto la storia delle idee pedagogiche. Il contributo di Korczak ci dice che il rispetto si impara vivendolo, attraverso la mediazione di un adulto consapevole. Per logica deduzione ci dice anche che non ci sono altre scorciatoie didattiche per arrivarci: perché il Rispetto è figlio della Cultura.
Nel frattempo abbiamo letto che Michele Mainardi lascerà la direzione della scuola magistrale a fine agosto 2017, ma continuerà, al DFA, a guidare il Centro di competenza denominato Bisogni educativi, scuola e società: l’augurio è che gli insegnamenti di Janusz Korczak e di chi gli è pedagogicamente vicino possano diventare quanto prima uno gli elementi centrali della formazione dei docenti di ogni ordine e grado. Perché l’approccio epistemologico alla professione di educatore prima e di insegnante poi sta diventando un imperativo etico.
La porta, a questo punto, sembrerebbe aperta: con un sorriso ottimista.
A volte ho la sensazione che fare gli auguri nei momenti più tradizionali – per il compleanno, a Natale o per il nuovo anno – sia uno di quegli automatismi un po’ ipocriti, come chiedere «Come va?» a uno che incontri per caso (e glielo chiedi sapendo che, dopo pochi minuti, ti sarai scordato dell’eventuale risposta, a meno che l’Incontrato Per Caso non ti abbia rivelato, spesso per ragioni freudianamente misteriose, d’essere preda di sfighe mediche o socio-affettive poco o punto felici e invidiabili).
Ho un amico che fino a poco tempo fa, se gli mandavo qualche augurio di rito, tipo «Buon Natale» o un più laico «Buon anno», mi cazziava neanche l’avessi insultato pesantemente. Eppure l’altro giorno ho ricevuto un suo messaggio, che mi ha sbalordito: Tanti auguri, mi ha scritto a poche ore da Capodanno.
D’accordo, non ha sprecato la sua fantasia, abitualmente traboccante.
Ma ha fatto bene, al di là degli editti di quando i sessant’anni gli sembravano lontani: Tanti auguri, tutto lì. Detto da lui per me ha significato molto. Perché ha scritto a me, non ai soliti undisclosed-recipients della posta elettronica.
Allora, in questi primi scorci del 2017, voglio rivolgere un augurio pedagogico ai miei lettori, quelli fedeli e quelli occasionali, partendo da Snoopy, l’eroico e imperturbabile peanut di Charles Schulz: «Educare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco».
Ha scritto Paola Mastrocola: «Noi, quando uscivamo dalla lezione di un maestro, camminavamo per un bel po’ a un metro da terra. Diciamo che quel metro da terra fa la differenza. […] Diciamo che forse questo contraddistingue un maestro: ti contagia. […] Un insegnante che non insegna procura un danno davvero incalcolabile al singolo allievo, e quindi anche all’intera società: condanna all’ignoranza, […] quindi al vagolamento professionale infinito».[La scuola raccontata al mio cane, 2004, Guanda editore. Vedi anche la mia recensione sul Corriere del Ticino:Quella scuola che sfrittella il pensiero].
In un suo romanzo successivo [Non so niente di te, Torino, Einaudi, 2013], c’è un passaggio esemplare. Fil, il protagonista, uno studente modello iscritto a economia, a un certo punto comincia ad andare sempre meno a lezione, anche se «Lo sa che suo padre soffrirebbe, che se ne farebbe una colpa». Ma «andando sempre meno a lezione, trova il tempo. Il tempo di leggere moltissimo, per esempio. La biblioteca diventa la sua nuova tana. Si mette lì e tutto il resto della vita gli sparisce. Via gli esami, i compagni, la crisi dei mercati, i genitori… Restano solo i pensieri, le idee. Cose aeree, leggere. Astrazioni. Altri mondi. Dov’è escluso che ti trovino.
Fil ci va quasi tutti i giorni, e ci resta fino a tardi. Fa una cosa sola: si prende un libro e se lo divora, piano, un pezzetto al giorno. Ci va anche la domenica, così gli riesce di azzerare un po’ quella malinconia, quella morsa di vuoto che ti prende ogni domenica, cascasse il mondo, qualunque cosa fai, tutte le domeniche della tua vita. È lì che scopre i classici. Il secondo anno a Londra, in biblioteca. Affonda. Affonda nella lettura. Adam Smith, Schumpeter, Von Hayek, Ricardo, Milton Friedman, Keynes… E Robert Solow, soprattutto lui, un classico vivente…
Preso da quelle letture intense, assolute, comincia a non studiare più. A non studiare più per gli esami, cioè secondo quella particolare forma di studio non libero, finalizzato al superamento di una prova: un’attività competitiva, più che altro, ben poco rilassante, solo utile (ma utile a che cosa, poi?)».
Auguri, appunto.
Il blog di Adolfo Tomasini, dove si parla di educazione e di scuola