Archivi categoria: Attualità

La bellezza che rimane ancora: echi dal diario di Anne Frank

Dopo cinquanta minuti scanditi da alcune pagine del Diario più famoso di tutti i tempi, dal racconto della Storia che fa da sfondo e cuore del Diario, e da alcuni intermezzi musicali di intensità artistica tale da esaltare la Storia di quegli anni e la storia di Anne, scorrono i titoli di coda.

Il pubblico applaude. Si accendono le luci e gli artisti si presentano insieme.

Sean Lanigan, Chiara Pedrazzetti e Sara Giulivi

Poi gli applausi finiscono, ma nessuno si alza in piedi, nessuno si avvia all’uscita vociando. Bisognerà dirglielo: ciao ragazzi, grazie, buon rientro, arrivederci. Solo allora si avvieranno incontro al sole, che picchia fuori dal Palacinema in quel giovedì 20 settembre.

Con qualche impercettibile variazione, questo è stato il finale di ognuna delle tre repliche messe in scena per quasi 400 allievi di 4ª e 5ª elementare, arrivati coi loro insegnanti da alcuni istituti della regione per seguire questa edizione di Piazzaparola, un’occasione speciale di scoprire la storia di Anne Frank attraverso le pagine del suo celebre Diario. Ciò ha quindi significato, per loro e i loro insegnanti, scoprire non solo “una” storia, ma addentrarsi nella Storia, vista con gli occhi di una giovane donna che l’ha vissuta pagando in prima persona. E che l’ha narrata.

Lo spirito dell’evento puntava in effetti proprio a questo: accompagnare il giovane pubblico in un racconto che, grazie alla forza della vera letteratura, permettesse di toccare corde profonde e delicate.

Certo, gli allievi erano stati preparati bene per assistere allo spettacolo. Senza svelare troppo dell’impianto narrativo che avevamo escogitato, avevamo invitato le maestre e i maestri a fare in modo che il pubblico conoscesse alcuni elementi essenziali in cui è calata la vicenda di Anne e della sua famiglia: naturalmente adattando il livello di approfondimento all’età degli allievi. E un altro invito era simile a un’avvertenza: non è uno spettacolo per ridere e divertire, ma neanche monotono e legnoso. Avevamo scritto loro: «Sarà un po’ come ascoltare una sinfonia – allegro, adagio cantabile, lento, finale… – con gli applausi che prorompono solo qualche secondo dopo l’ultima nota dell’ultimo movimento, quando il Maestro abbassa la bacchetta».

Per poi giungere alle ultime parole dello spettacolo.

Sull’esempio di Anne, se ne sentite il bisogno, scrivete. Scrivete prima di tutto per voi, ma non abbiate paura di raccontare ad altri le cose che non vanno bene: le parole e la scrittura sono le armi più potenti, perché viaggiano lontano e resistono nel tempo.

E non siate sordi e ciechi, anche se spesso il mondo vi vorrebbe così.

La storia di Anne non deve solo renderci tristi, ma deve farci vedere la bellezza delle cose di tutti i giorni, deve farci capire il punto di vista degli altri e farci scegliere come vivere. Sì, perché il rischio che qualcuno alzi la voce e dica “tu non puoi stare qui”, “tu sei diverso”, “tu conti meno”, “io vengo prima di te” è sempre in agguato. E non si è mai troppo piccoli per essere giusti. Per essere eroi.


Le foto sono di Simone Fornara


«La nostra è l’età della ciarlataneria e dell’inganno»

Il testo che segue non è mio. L’ho ripreso da un volumetto che mi aveva regalato uno dei miei Maestri.  Qui, di mio, ci sono solo qualche segno di punteggiatura in più e alcuni termini modificati, per rendere la lettura più scorrevole; e i titoletti, inesistenti nell’originale.

Ho poi messo in rilievo qualche passaggio.

L’attualità di questo articolo è impressionante, soprattutto pensando al contesto www dei tempi nostri e alle riforme scolastiche di questi anni, coi suoi cantieri aperti, i progetti che potrebbero diventare operativi sul breve termine, e agli andazzi politici dell’Occidente globalizzato.

In calce, naturalmente, si trovano tutti i dettagli, compreso il nome dell’autore, quello del Maestro che curò il volume e me lo offrì, la fonte bibliografica e l’anno di pubblicazione.

Mi permetto un consiglio: come in un bel giallo, si ammazza la lettura se si va subito all’ultima pagina per vedere chi è il colpevole, che in questo caso è l’anno di pubblicazione.


Matthew Arnold cita, in qualche parte con consenso, l’affermazione di uno scrittore francese, secondo cui il vantaggio principale dell’educazione sta nella sicurezza che essa dà di non essere ingannati. Un’affermazione più positiva è quella che il beneficio dell’educazione consiste nella capacità che essa conferisce di sceverare, di fare delle distinzioni che penetrano al di sotto della superficie. Può anche darsi che uno non riesca ad afferrare la realtà sotto l’apparenza; ma almeno chi è educato non scambia la seconda con la prima, e sa che c’è una differenza fra suono e significato, fra enfasi e distinzione, fra appariscenza e importanza.

I massmedia e la loro diffusione a buon mercato rendono possibile il controllo delle opinioni

Giudicata con questo criterio l’educazione non è soltanto arretrata, ma è in processo di involuzione. La nostra è l’età della ciarlataneria e dell’inganno; di questi c’è oggi maggior quantità, circolazione più rapida e incessante, e assorbimento più rapido e indiscriminato, che mai in passato. Naturalmente le ragioni dell’attuale trionfo della ciarlataneria nelle cose umane sono piuttosto esterne, non dovute a un’intrinseca corruzione dell’intelletto e del carattere. Fino all’ultima generazione circa, la maggior parte delle persone s’interessavano soprattutto degli affari locali, delle cose e della gente con cui erano a contatto immediato. I loro convincimenti e i loro pensieri si riferivano per lo più a questioni di cui avevano qualche esperienza diretta. Il loro raggio poteva essere ristretto, ma nel suo ambito esse erano avvedute e giudiziose. È certo che, riguardo alle cose più lontane da loro, esse erano altrettanto credule quanto le persone di oggi. Ma queste cose più lontane non rientravano nella loro sfera d’azione. Importava poco cosa ne pensassero, poiché esse, per loro, non erano che materiale per storielle.

La ferrovia, il telegrafo, il telefono e la stampa a basso costo hanno trasformato tutto questo. I trasporti rapidi e le rapide comunicazioni hanno costretto gli uomini a vivere come membri di una società estesa e in gran parte invisibile. La località chiusa in sé è stata invasa e in gran parte distrutta. Gli uomini devono agire in vista di condizioni economiche e politiche lontane da loro e devono avere su queste delle conoscenze su cui fondare le proprie azioni. E poiché le loro conoscenze influenzano la loro condotta, le credenze sono ora qualcosa di più che fantasie e passatempi, ed è cosa di grande rilievo che esse siano giuste. Al tempo stesso alcune persone si sono assunte l’obiettivo di influenzare le opinioni delle masse, poiché è su queste, e non su annose consuetudini, che si fonda la possibilità di dominarle. Se si ha il controllo delle opinioni, si ha in mano, almeno per il momento, la direzione dell’attività sociale. La stampa e la sua diffusione a buon mercato rendono possibile di realizzare questo controllo delle opinioni. Con la nuova curiosità e il nuovo bisogno di conoscenza di cose lontane, da un lato, e con l’interesse a controllarne il soddisfacimento, dall’altro, si annuncia l’era del vaniloquio, dell’inganno sistematico, dei sentimenti e delle credenze alla cieca.

Come si crea una fake new

Carlyle non era un amico della democrazia. Ma un giorno, in un momento di lucidità, egli dichiarò che una volta inventata la stampa la democrazia era inevitabile. La stampa a basso costo rese necessario di chiamare il pubblico a collaborare agli affari del governo e aumentò la popolazione e l’area geografica inclusa in una determinata società politica. Essa trasformò in una realtà la teoria del governo come fondato sul consenso dei governanti. Ma tale trasformazione non dette garanzia della validità della realtà a cui veniva dato il consenso; non garantì, come Walter Lippmann mise in rilievo con tanta giustezza, che la politica a cui si dava il consenso fosse nel fatto quello che era nella forma, che cioè corrispondesse alla realtà della situazione.

La rivoluzione industriale rese necessarie le forme della consultazione della “voce del popolo”. Ma la stampa e la sua diffusione resero anche più facile indurre il popolo a esprimersi forte su questioni irreali, e nascondere i fatti e stornare l’attenzione con la grandezza stessa dello strepito. È ozioso perciò sia attaccare che esaltare la democrazia in generale. Come forma attuale di governo essa non scaturisce da desiderio o opinione personali; essa nacque in virtù di forze esterne, che mutarono le condizioni dei contatti e dei rapporti fra gli uomini. Quel che occorre considerare e sottoporre a critica è la qualità del governo popolare, non il fatto della sua esistenza. La sua qualità è legata inseparabilmente alla qualità delle idee e delle notizie, che sono messe in circolazione e alle quali si presta fede.

Senza dubbio il sistema di propaganda promosso dalla guerra ha avuto molta responsabilità nell’imporci il riconoscimento della funzione dominante, che ha nella direzione sociale il materiale messo in circolazione dalla stampa. La massa e l’organizzazione accurata della propaganda attestano due fatti preminenti: la necessità nuova, da parte dei governi, di catturare l’interesse e i sentimenti del popolo, e la possibilità di suscitare e dirigere un tale interesse mediante una somministrazione di “notizie” sottoposta a vaglio accurato. Ma la voga della propaganda ha più importanza nel richiamare l’attenzione sul fatto fondamentale, che nel determinarlo. Di fronte a una notizia messa in circolazione, che rappresenta un fatto deliberatamente inventato o coscientemente colorito, ve ne sono una dozzina che rappresentano il pregiudizio e l’ignoranza dovuti a pigrizia, a inerzia di abitudini e a preesistenti abiti mentali causati da cattiva educazione.

L’informazione atterra sempre sull’educazione anteriore e più profonda

La psicologia umana è tale che noi attribuiamo a un disegno consapevole e a un proposito deliberato la maggior parte delle cattive conseguenze sulle quali improvvisamente viene richiamata l’attenzione. Questa è una delle ragioni principali del frequente insuccesso dei riformatori. Le cause reali dei mali contro i quali essi combattono sono per solito molto più profonde delle intenzioni consapevoli e dei piani volontari degli individui contro i quali essi rivolgono i loro sforzi. Perciò essi trattano coi sintomi piuttosto che con le forze. Quelli che Lippmann ha chiamato così bene “stereotipi” sono più responsabili della confusione e dell’errore della mentalità del pubblico, che delle notizie deliberatamente inventate e deformate. Coloro i quali sono più intenti a introdurre nel movimento e nella circolazione sociale il materiale che acceca e induce in errore il pubblico, credono essi stessi nella maggior parte della sostanza di ciò che viene propagato; essi condividono la confusione intellettuale e l’ignoranza che propagano. Agendo nella persuasione che il fine giustifica i mezzi, è facile per essi aggiungere il sapore, l’enfasi, l’esagerazione e i suggerimenti che essi stessi ritengono fondamentalmente veri.

In breve, al di qua dell’educazione fornita dalla stampa e dalle notizie c’è quell’educazione anteriore e più profonda che influenza del pari coloro che propalano le notizie e quelli che le accolgono. Siamo così riportati alla nostra affermazione prima. La nostra istruzione scolastica non educa, se per educazione si intende un abito vigile di indagine e di convinzione, penetrato di discernimento, la capacità di guardare al di sotto della fluttuante superficie per scoprire le condizioni che determinano il contorno della superficie stessa e le forze che danno origine alle sue onde e alle sue correnti. Noi inganniamo noi stessi e gli altri, perché non abbiamo quell’interna difesa contro sensazioni, eccitamenti, credulità e opinioni convenzionalmente stereotipate che si trova soltanto in una mente addestrata.

La scuola fa poco per creare un’intelligenza che sa distinguere…

Questo fatto determina la critica fondamentale che va rivolta alla scuola attuale, a quel che passa per un sistema educativo. Essa non soltanto fa poco per creare in una intelligenza che sa distinguere una garanzia contro l’abbandono all’invasione della ciarlataneria, specialmente nella sua forma più pericolosa, quella sociale e politica; ma anzi fa molto per creare lo stato d’animo favorevole al suo accoglimento favorevole. Due sembrano essere le cause principali di tale incapacità. L’una è data dal persistere, nel contenuto dell’insegnamento, di un materiale tradizionale, che non ha rapporto con la situazione attuale, di una materia d’insegnamento che, benché pregevole in un periodo trascorso, è così lontana dalle perplessità e dai problemi della vita presente, che il suo padroneggiamento, anche se abbastanza adeguato, non fornisce possibilità di penetrazione intelligente, né protezione contro gli inganni a cui si espone chi fronteggia le eccezionali circostanze presenti. Dal punto di vista di questo criterio d’istruzione, una gran parte dell’attuale materiale educativo è semplicemente sfocato. Lo specialista di qualsiasi ramo tradizionale corre il rischio di cadere preda della ciarlataneria sociale, anche nelle sue forme estreme della propaganda economica e nazionalistica, allo stesso modo della persona non istruita. E invero la sua credulità è tanto più pericolosa quanto più egli è eloquente e dogmatico nell’affermazione delle sue credenze. Le nostre scuole producono persone che vanno incontro alle esigenze della vita contemporanea serrate nell’armatura dell’antichità e che si vantano della goffaggine dei loro movimenti come di prove di convinzioni frutto di lungo travaglio e vagliate dal tempo.

L’altro modo in cui la scuola favorisce un abito mentale di ingestione indiscriminata, che si presta bene all’inganno, ha un carattere positivo. Esso consiste nell’evitare sistematicamente e quasi deliberatamente lo spirito critico in rapporto alla storia, alla politica e all’economia. Si crede implicitamente che tale esclusione rappresenti la sola maniera di produrre dei buoni cittadini. Quanto più la storia e le istituzioni della propria nazione vengono idealizzate senza discriminazione, tanto più si ritiene probabile che il prodotto della scuola sia un patriota fedele e un buon cittadino, fornito di una solida preparazione. Se il giovane medio potesse essere premunito contro tutte le idee e le notizie sulle questioni sociali, eccettuate quelle ottenute a scuola, esso si affaccerebbe alla responsabilità della partecipazione sociale ignorando completamente che esistano dei problemi sociali, dei mali politici e delle deficienze industriali. Esso andrebbe avanti con l’assoluta fiducia che le strade sono aperte a tutti e che la sola causa degli insuccessi negli affari, nella vita familiare e in quella civile risiede in qualche personale deficienza di carattere. La scuola, anche più del pulpito, è immunizzata contro un franco riconoscimento delle malattie sociali, ciò che è un bel dire. E come il pulpito, essa trova un compenso alla sua ostilità a discutere le difficoltà sociali indugiando sentimentalmente sui vizi individuali.

L’indifferenza al cinismo sempre più diffuso

La conseguenza di tutto questo è che gli studenti vengono immessi nella vita effettiva in una condizione di innocenza acquisita e artificiale. La percezione che essi possono avere della realtà delle lotte e dei problemi sociali l’hanno conseguita per caso, per via facendo, e senza la salvaguardia che deriva da una conoscenza intelligente dei fatti e della discussione condotta imparzialmente. Non fa perciò meraviglia se essi sono maturi per essere ingannati e se il loro atteggiamento è tale che perpetua semplicemente la confusione, l’ignoranza, il pregiudizio, e la credulità esistenti. La reazione contro questa impossibile idealizzazione ingenua delle istituzioni, nel loro aspetto presente, produce indifferenza e cinismo. È stupefacente come coloro che per professione foggiano in senso conservatore l’opinione pubblica si curano così poco del cinismo che attualmente è tanto diffuso tra i più. Essi sono più creduli di quelli che all’apparenza sembra che essi ingannino. Questo atteggiamento di indifferenza e di opposizione è ora passivo e disorganizzato. Ma esso esiste come una conseguenza diretta della delusione causata dal contrasto fra le cose come stanno di fatto e le cose come sono state insegnate loro a scuola. Un avvenimento più o meno accidentale cristallizzerà un giorno, in una forma attiva, l’indifferenza e il malcontento sparsi qua e là; e tutti i baluardi della reazione sociale accuratamente eretti verranno spazzati via. Ma, sfortunatamente, c’è poca probabilità che la reazione contro la reazione sarà più intelligente dello stato precedente delle cose. Anch’essa sarà cieca, credula, fatalista e confusa.

Il compito più nobile della politica: la direzione intelligente delle faccende sociali

Sembra pressoché disperato nominare il rimedio, perché esso consiste solo in una maggiore fiducia dell’intelligenza e nel metodo scientifico. Ma questa parola – “Solo” – indica qualcosa che è infinitamente difficile realizzare. Cosa avverrà se gli insegnanti diverranno abbastanza coraggiosi da insistere che educare significa creare menti che sanno distinguere, che preferiscono non essere ingannate da sé stesse o da altri? È chiaro che essi dovranno coltivare l’abito della sospensione del giudizio, dello scetticismo, del desiderio delle prove; del ricorso all’osservazione piuttosto che al sentimento; della discussione piuttosto che del preconcetto; dell’indagine piuttosto che delle idealizzazioni convenzionali. Quando questo accadrà, le scuole saranno gli avamposti pericolosi di una civiltà umana, ma cominceranno anche a essere luoghi interessanti al massimo. Poiché sarà allora accaduto che l’educazione e la politica si saranno identificate, giacché la politica dovrà essere di fatto quel che ora pretende di essere, la direzione intelligente delle faccende sociali.


Rimando bibliografico

Questo articolo di John Dewey (1859-1952) è tratto dal volume John Dewey e la pedagogia dell’interesse, a cura di Antonio Spadafora, 1979, Bellinzona: Edizioni Casagrande, Collana Paideia – Pubblicazioni della Scuola magistrale di Locarno, p. 128 e sgg.

La copia del testo originale può essere scaricata qui.

Il testo fa parte di una selezione di scritti deweyani che completa il volume. In entrata il curatore aggiunge una precisazione relativa a questi scritti. «In particolare – annota Spadafora – la traduzione (…) di “L’educazione come politica” (“The New Republic”, 4 ottobre 1922) è, per gentile concessione dell’Editore, quella […] di JOHN DEWEY, L’educazione di oggi, trad. it. di L. Borghi, La Nuova Italia, 1950, p. 197 e sgg.»

Quando la diagnosi è impeccabile, mentre la terapia proposta aggrava la malattia

L’editoriale della Revue des deux mondes del 10 luglio 2018, a firma Valérie Toranian, riprende alcuni dati particolarmente sorprendenti di un’inchiesta nazionale denominata Fractures françaises.

«Il 46% dei giovani tra 18 e 35 anni – scrive la Toranian – è del parere che altri sistemi politici siano altrettanto validi della democrazia.»

«I risultati si possono riassumere così: più alti sono il livello di formazione e l’età, meno si mette in dubbio il valore della democrazia. Minore è il livello di formazione, più si appartiene agli svantaggiati e alle categorie popolari, più si relativizza il valore della democrazia».

«L’attaccamento alla democrazia si nutre di conoscenza, riferimenti trasmessi dagli anziani. Senza questo ancoraggio fondamentale si passa dal disinteresse alla politica in generale alla relativizzazione della democrazia stessa», osserva ancora la giornalista. Che fare, dunque? L’articolo propone un sunto delle soluzioni della politica, in particolare quelle del presidente Emmanuel Macron, che il 9 luglio si era rivolto al Parlamento francese riunito a congresso a Versailles (si veda, ad esempio, Congrès de Versailles : Macron théorise un social très libéral, su Libération. Si può trovare qui una copia dell’articolo).

Niente di nuovo sotto il sole, si direbbe scorrendo diversi passaggi del suo discorso: «In Francia si sono insediate le disuguaglianze del destino: a seconda di dove si è nati, della famiglia in cui si è cresciuti, della scuola frequentata, la sorte è assai spesso blindata. Queste disuguaglianze del destino, durante gli ultimi 30 anni, nel nostro paese sono progredite , che lo si voglia vedere o no». (Nel sito dell’Élysée si può leggere il discorso integrale di Macron: Discours du Président de la République devant le Parlement réuni en Congrès à Versailles).

Diffido sempre più delle teorie che vogliono essere sociali e, nel contempo, liberali. Addirittura molto liberali, aggettivo che,  da un po’ di anni in qua, nasconde e si mescola con liberista. Di solito si tratta di un’ammucchiata di contraddizioni: qualche intervento strutturale, tanta meritocrazia per docenti e allievi/studenti; è noto che il merito, come il mercato, sistema quasi naturalmente tante faccende. Per restare a Macron, ma non è il solo: tutti hanno «sa jambe gauche», da esibire sui pulpiti della politica. Una volta, almeno, c’erano i Radicali, ma non si sa dove sono finiti. Forse il compito era troppo complicato.

La morale della favola macronienne sembra persino scontata: la diagnosi è ineccepibile. Selon l’endroit où vous êtes né, la famille dans laquelle vous avez grandi, l’école que vous avez fréquentée, votre sort est le plus souvent scellé. La cura proposta predica l’esatto contrario. In effetti il paragrafo successivo recita:

Et pour moi, c’est cela qui m’obsède, le modèle français de notre siècle. Le réel modèle social de notre pays doit choisir de s’attaquer aux racines profondes des inégalités de destin, celles qui sont décidées avant même notre naissance, qui favorisent insidieusement les uns et défavorisent inexorablement les autres sans que cela se voie, sans que cela s’avoue. Le modèle français que je veux défendre exige que ce ne soient plus la naissance, la chance ou les réseaux qui commandent la situation sociale, mais les talents, l’effort, le mérite.

Splendida ossessione, ma se ne può fare a meno.

Facendo il verso a Flaiano (Ho poche idee, ma confuse), siamo davanti a un mucchio di idee, una più confusa dell’altra. Eppure c’è poco da sfottere Monsieur le Président de la République, perché senza le valutazioni reiterate e imprescindibili – tempo sottratto all’insegnamento, diceva Don Milani – la scuola repubblicana, quindi anche la nostra, non è in grado di assolvere i suoi compiti costituzionali.

Lo diceva già uno dei nostri maestri più importanti, John Dewey, che in Democrazia e educazione, un libro del 1916, scriveva:

Sul piano educativo notiamo […] che la realizzazione di una forma di vita sociale nella quale gli interessi si compenetrano a vicenda, e in cui vivo è il senso del progresso o riadattamento, rende una comunità democratica più interessata di quanto non abbiano ragione di esserlo le altre comunità in un’educazione deliberata e sistematica. La devozione della democrazia all’educazione è un fatto ben noto. La spiegazione superficiale è che un governo che dipende dal suffragio popolare non può prosperare se coloro che eleggono e seguono i loro governanti non sono educati. Poiché una società democratica ripudia il principio dell’autorità esterna, deve trovarle un surrogato nelle disposizioni e nell’interesse volontari; e questi possono essere creati solamente dall’educazione. Ma vi è una spiegazione più profonda. La democrazia è qualcosa di più di una forma di governo. È prima di tutto un tipo di vita associata, di esperienza continuamente comunicata. L’estensione nello spazio del numero di individui che partecipano a un interesse in tal guisa che ognuno deve riferire la sua azione a quella degli altri e considerare l’azione degli altri per dare un motivo e una direzione alla sua equivale all’abbattimento di quelle barriere di classe, di razza e di territorio nazionale che impedivano agli uomini di cogliere il pieno significato della loro attività.

E se la scuola moderna cominciasse finalmente a insegnare?


La citazione di John Dewey (1859-1952) è tratta dalla 4ª ristampa (1972) di Democrazia e educazione, nella traduzione di Enzo Enriques Agnoletti e Paolo Paduano (Prima edizione italiana, 1949, Firenze: La nuova Italia editrice).


L’inchiesta Fractures françaises 2018 può essere scaricata qui.

Al di là dell’aspetto scolastico, educativo e formativo di cui ho parlato, il rapporto contiene un’infinità di altri indicatori sulla percezione della situazione della Francia, sui valori dei francesi, sul loro rapporto col sistema politico e sulla loro percezione dell’Unione europea.

Va da sé che ogni riferimento a fatti, percezioni o circostanze che riguardano paesi europei che non siano la Francia non sono per nulla casuali.

Una storia narrata fra quasi 500 anni (o forse oggi, o una trentina di anni fa)…

A mo’ di mia personale chiusura dell’anno scolastico 2017-18, propongo un testo assai ironico che il sociologo Philippe Perrenoud aveva messo come prologo al suo libro La pédagogie à l’école des différences – Fragments d’une sociologie de l’échec, (1995, Paris: ESF). La prima edizione dell’articolo è del 1982.

La traduzione italiana, del 1995, è del mo. Plinio Luconi, insegnante di scuola elementare a Locarno.

Una copia dell’edizione originale dell’articolo è visibile cliccando qui.

Buona estate a tutti.


Il trattamento intensivo delle malattie infantili sul pianeta Kafka | Memorandum all’attenzione dell’Accademia di etnografia extragalattica

di I. Van Hill Hitch, socio-esploratore indipendente

Questo documento eccezionale ci è giunto attraverso una deformazione accidentale del continuum spazio-temporale. Si presume che la proiezione della scuola nel futuro, con una compensazione imprevedibile, abbia inviato frammenti del futuro nel nostro presente (testo apparso in Textes libres Rapsodie, 1982, N° 12, p. 65-72).


Kafka è l’unico pianeta abitato di questo piccolo sistema solare. Innumerevoli specie viventi vi coesistono. La specie dominante conta alcuni miliardi di individui, che formano delle società distinte, spesso in conflitto tra loro.

Nelle società più ricche, tutti i bambini sembrano nascere affetti da una grave malattia. Non è mortale, ma, se non viene trattata per tempo, impedisce all’individuo di diventare un adulto completo.

Il trattamento è piuttosto lungo e complicato, al punto che le famiglie non sono assolutamente in grado di applicarlo per conto loro. Mi è stato riferito che se ogni bambino fosse curato nella sua famiglia da un medico, occorrerebbe un tale numero di medici che la produzione alimentare ne risentirebbe. Per questo motivo i bambini vengono ospedalizzati massicciamente. Allo scopo di non toglierli totalmente alle loro famiglie, vengono ricoverati in piccoli ospedali di giorno, ubicati in prossimità delle loro abitazioni. In queste strutture i bambini passano qualche ora il mattino e qualche altra ora il pomeriggio. A metà giornata interrompono il trattamento per un pasto in famiglia, rito molto importante in queste società.

Un tempo, solo le famiglie che lo desideravano facevano curare i figli. Molte altre non ci pensavano o ritenevano inutile la guarigione. Circa cento anni fa, a causa dell’insistenza dei medici, il trattamento fu reso obbligatorio. Da allora i genitori che rifiutano di far trattare i loro figli incorrono in gravi sanzioni.

Per ragioni che non sono riuscito a chiarire, il trattamento diventa obbligatorio a partire dall’età di sei anni, forse per lasciare i bambini il più possibile con la famiglia, nel momento in cui i genitori sono maggiormente affezionati ai loro figli. Potrebbe anche darsi che l’ospedalizzazione di bambini troppo piccoli possa essere troppo complicata. Non lo so. Le autorità consigliano alle famiglie di cominciare per conto loro il trattamento il più presto possibile. Alle famiglie vengono forniti i consigli che servono ad aiutarle a operare in questo senso. Se hanno a cuore la guarigione del figlio possono consultare un medico o decidere un’ospedalizzazione precoce, già tra i due e i quattro anni. A quest’età il ricovero non è comunque obbligatorio, ma le famiglie che non intraprendono nessun passo in questa direzione entro i sei anni sono sempre più rare, e passano come irresponsabili agli occhi del vicinato.

Il trattamento richiede diversi anni, almeno nove. I primi sei anni sono identici per tutti i bambini, a eccezione di quella piccola parte di casi ritenuti più gravi e trattati in cliniche specializzate. Questa prima parte, che i medici chiamano trattamento di base, è suddivisa in sei fasi annuali. Da quando hanno sei anni, i bambini vengono ospedalizzati e viene somministrata loro la prima fase. Al termine del primo anno passano normalmente alla seconda fase, un anno più tardi alla terza, e così di seguito. Se al termine di una delle fasi annuali la malattia non è sufficientemente regredita, il medico, d’accordo con il suo capo clinica, può decidere di ripetere l’applicazione della stessa fase del trattamento. Parrebbe, insomma, che il passaggio diretto alla fase seguente non sarebbe proficuo. Ogni fase è concepita in modo da essere efficace in un preciso stadio della guarigione. Certi aspetti del trattamento sono comuni a tutte le fasi, mentre altri non riguardano che i primi anni – o, al contrario, saranno sviluppati più tardi.

Per ognuna delle fasi del trattamento di base – che dura quindi dai sei agli otto anni, in base all’evoluzione della malattia –, i bambini sono affidati a medici generalisti, formati per applicare tutte le sfaccettature del trattamento. Mi è stato riferito che prima che i trattamenti diventassero obbligatori, succedeva che un solo medico si prendesse a carico più di cento malati, a volte centocinquanta. In questo caso era assistito da una o più infermiere. Grazie al progresso tecnico nella produzione alimentare, è stato possibile destinare alcune persone attive alla medicina. Nella maggior parte degli ospedali di giorno che ho visitato, vengono affidati circa 25 malati a un solo medico, che se ne occupa tutti i giorni per tutto l’anno – insomma, quasi tutti i giorni. Dal momento che il trattamento risulta abbastanza faticoso, lo si interrompe due giorni alla settimana, e a volte anche per una o più settimane consecutive. Ho sentito molti medici lamentarsi di importanti ricadute durante questi periodi. Altri non si lamentano di avere più tempo per mangiare e dormire, o anche per formarsi a nuove terapie.

Parlando con i medici, ho potuto constatare che molti avevano l’impressione di non essere efficaci come avrebbero desiderato. Tutti sono convinti della necessità di un trattamento di lunga durata. Ma certi mettono in causa l’organizzazione ospedaliera. Si rendono conto che i bambini affidati alle loro unità di cura si situano a differenti livelli dal punto di vista della regressione della malattia. In alcuni si nota una specie di guarigione spontanea, per cui ci si potrebbe accontentare di un trattamento leggero. In altri il trattamento è stato iniziato già nella prima infanzia e i progressi sono soddisfacenti. Con altri non è ancora stato intrapreso niente e il loro stato risulta preoccupante. Malgrado ciò questi bambini diversi sono ugualmente assoggettati alla prima fase del trattamento di base non appena compiono i sei anni. Questa prima fase non giova a tutti nello stesso modo; anzi, le differenze aumentano di anno in anno. Esiste la possibilità, per una minoranza, di raddoppiare l’applicazione della stessa fase, ma tutti i medici coi quali ho parlato non hanno nascosto il loro scetticismo a questo proposito:

«Se almeno, dicono, si potesse modulare il trattamento, individualizzarlo! Ma è impossibile. Ogni caso merita una terapia adattata al suo stato, dei medicamenti particolari. Ma l’amministrazione ci assegna gli stessi medicamenti per tutti. All’inizio dell’anno, riceviamo una dotazione proporzionale all’effettivo dei nostri malati. Non esiste possibilità d’ottenere altro. Ci viene imposto un piano di trattamento molto stretto, che occorre rispettare entro la fine dell’anno. Ciò restringe la scelta dei metodi terapeutici. D’altra parte la nostra libertà su questo punto risulta parecchio teorica. I primari e i capi clinica sono ancorati a certi metodi. È a questi metodi che si limita la nostra formazione.

Se ce ne allontaniamo, lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Ma ciò che ci manca è soprattutto il tempo. Dedicando due ore al giorno a ogni malato, il trattamento progredirebbe in modo ottimale. Per alcuni un’ora sarebbe largamente sufficiente, per altri occorrerebbero almeno tre ore. La guarigione sarebbe garantita in nove anni o in molto meno. Meglio non pensarci. Immaginate: i bambini più giovani vengono all’ospedale sei ore al giorno, noi dobbiamo trattare collettivamente tutto il gruppo, o per lo meno alcuni sotto gruppi. Alcuni malati sono abbastanza autonomi per curarsi quasi da soli. Altri s’aiutano. Ma succede raramente. Sapete, sono bambini. La maggior parte non si rende conto della gravità del loro stato. Durante l’infanzia e l’adolescenza non soffrono, la malattia non ha delle conseguenze. Non immaginano quanto succederà se non si fa nulla. Alcuni provano con tutti i mezzi a sottrarsi al trattamento! Bisogna riconoscere che non tutti i giorni è divertente…»

Di medici scoraggiati ne ho incontrati parecchi. Alcuni pensano che non si può far nulla con un numero così alto di malati. Altri pretendono che si organizzi il trattamento differentemente, così da poter curare tutti in meno tempo. Ma, dicono, l’amministrazione ospedaliera è soprattutto desiderosa di mettere ordine e gestire questo immenso insieme di malati e medici. Parlando in privato, certi amministratori ammettono che la separazione delle fasi di trattamento è discutibile,  e che, in ogni caso, non è vantaggiosa per ogni bambino. Riconoscono pure che certi aspetti del trattamento sono inutili per una parte degli ammalati. Ma preferiscono amministrarli comunque. Ciò evita noie con i genitori, ai quali preme che i loro figli guariscano. Non appena alcuni genitori sentono dire che in un ospedale non si dispensa lo stesso trattamento che negli altri, ne fanno uno scandalo. Alcuni medici, amaramente, pensano che molti loro colleghi approfittino della situazione, applicando i trattamenti standard senza troppo riflettere, redigono periodicamente i loro rapporti e si dicono che, dopotutto, quando una malattia è così generalizzata, non si può pretendere di guarire tutti.

Altri, per contro, pensano che li si tratti da utopisti e sognatori, pretendono che adattando veramente i trattamenti ai malati, sarebbe possibile guarire tutti, e in ogni caso evitare, dopo i sei anni di trattamento di base, di indirizzare i malati verso le varie trafile di cure differenti.

Bisogna sapere, in effetti, che alla fine del trattamento di base si procede all’esame dello stato di ogni giovane malato, stabilendo un pronostico. Per alcuni, si è già persa ogni speranza di guarirli completamente. Li si orienta quindi verso qualche anno di trattamento finale, che permetterà loro di sopravvivere nella società, con uno statuto inferiore e un minimo accesso ai beni alimentari o quant’altro. Per gli altri la guarigione sembra possibile o addirittura certa, e la società, in questi casi, fa uno sforzo speciale per loro. Sei anni di trattamento post «obbligatorio» – quindi al di là del trattamento base – garantiranno a coloro che ne sono degni lo status più invidiabile e il più ampio accesso al consumo.

Non tutti si rassegnano a questa gerarchia sociale ed economica, basata sul grado di guarigione; così il sistema ospedaliero è al centro di continui dibattiti. Questa società interamente medicalizzata, dove tutta l’organizzazione è retta dalla necessità di curare una malattia generalizzata, non è che una delle strane strutture che il viaggiatore interstellare incontra quando si interessa alle civiltà primitive identificate in galassie lontane. Sulla malattia stessa non posso dire molto. Non ha nulla in comune con le poche malattie rare che rimangono sul nostro pianeta.

Le poche osservazioni che ho fatto mi hanno piuttosto ricordato alcune caratteristiche dell’organizzazione della nostra società quattro o cinquecento anni fa. Mi sembra che nel XIX e XX secolo non si disponesse ancora dei mezzi d’apprendimento istantanei. L’istruzione dei bambini preoccupava gli adulti, e l’avevano organizzata un po’ alla maniera della medicina sul pianeta Kafka. Un amico storico me lo ha confermato. Quando gli ho fatto notare che guarire una malattia e educare i bambini erano delle attività decisamente poco comparabili, mi ha ricordato che i filantropi della fine del XIX secolo solevano dire: «La malattia più grave, che tocca ognuno e che bisogna curare prioritariamente, è l’ignoranza!» Beninteso, non è che un modo di dire. Nondimeno mi rifiuto di credere che, anche diversi secoli fa, sulla Terra potesse esistere un sistema così assurdo per l’educazione dei bambini! Eppure, negli ultimi cento anni in cui ho viaggiato nell’universo, ne ho viste di società bizzarre!

1° aprile 2482


Philippe Perrenoud, sociologo, dal 2009 professore onorario dell’Università di Ginevra.

Philippe Perrenoud, sociologo, è nato nel 1944 e ha conseguito il dottorato in sociologia e in antropologia. Dal 1984 al 2009 è stato chargé de cours all’Università di Ginevra; in seguito, dal 1994, è stato professore ordinario, occupandosi di curricolo, di pratiche pedagogiche e di istituti di formazione. Con Monica Gather Thurler ha fondato e animato il Laboratoire de recherche sur L’innovation en Formation et en Éducation (LIFE).

I suoi lavori sulla fabbricazione delle disuguaglianze e dell’insuccesso scolastico l’hanno portato a interessarsi del «mestiere» di allievo, delle pratiche pedagogiche, della formazione degli insegnanti, del curricolo, del funzionamento degli istituti scolastici, delle trasformazioni del sistema educativo e delle politiche dell’educazione.

[Tratto dal sito della Facoltà di Psicologia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Ginevra. La traduzione italiana è mia].

Un mese di festicciole, esami, cerimonie, emozioni e ricorsi

Giugno, per la scuola, non è solo il mese degli esami, delle passeggiate, delle festicciole e delle cerimonie per la consegna del sudato diploma. È anche il mese dei ricorsi, contro una bocciatura o solo perché una nota è andata di traverso. Fioccano ricorsi formali e lamentele orali, che in qualche caso finiscono in minacce terribili. Se poi l’arbitro di turno è mediamente abile, l’aspro contenzioso si conclude, senza troppo sforzo, a tarallucci e vino. Naturalmente ci sono reclami legittimi, bislacchi o così peregrini da rasentare la faccia di tòlla. C’è chi contesta la bocciatura del pargolo, perché rimanderà di un anno l’entrata nel mondo del lavoro, e il simultaneo persistere dello stato di mammone. C’è pure chi impugna una qualsiasi nota – poniamo un 4½ in educazione fisica – perché «sporca» un libretto scolastico che, come minimo, prelude a qualche Nobel.

Capita che l’allievo sappia fin troppo bene i motivi di una bocciatura o di un basso voto che deturpa la pagella. Succede, per lo più, dall’adolescenza in là, un’età durante la quale, fino a mezzo secolo fa, ragazze e ragazzi con più di quindici anni sarebbero sprofondati nel cortile della scuola, se solo un genitore furioso si fosse presentato dall’insegnante o dal direttore a perorare la causa del figliolo, un pargolo come ne esistono pochi. Tuttavia – e mi sembra comprensibile – l’allievo onesto con sé stesso se ne guarda bene dal rivelare in casa le malefatte all’origine del guaio che dà vita alla solitamente fantasiosa ostilità genitoriale; così, tutt’al più, inventa qualche manovra di depistaggio.

Oddio, i ricorsi contro le decisioni ci sono sempre stati, così come le lagnanze, magari molto accese, i mugugni e le minacce di terribili vendette in un futuro che, fortunatamente, non arrivano mai. Ma l’impressione è che, da parte di allievi, studenti e famiglie al seguito, la smania di ricorso contro le valutazioni della scuola sia in crescita: tendenza quasi logica, mi pare, in una società che tende a pesare e misurare tutto in maniera tecno-maniacale.

Lasciamo perdere tutta la formazione che arriva dopo la scuola media (media superiore compresa). Presumo che se l’apprendista muratore deve imparare a innalzare un muretto, la prima valutazione scaturisca dalla stabilità stessa del muretto e dal rispetto di chiare regole dell’arte. Analogamente mi verrebbe da pensare le stesse cose per uno studente di fisica, che deve conoscere i principi della termodinamica: principi attorno ai quali oso credere che vi siano, mi si scusi il bisticcio lessicale, dei chiari principi per stabilirne la conoscenza o l’ignoranza, e a quale livello di studi.

Ma, di grazia!, qualcuno mi sa dire qual è la differenza, in un’ordinaria classe della scuola dell’obbligo, tra un 4½ e un 5 in una qualsivoglia materia prevista dai programmi, senza scordare la famigerata nota di condotta, che di solito si spalma su tutte le altre valutazioni, neanche fosse un assioma matematico o un articolo di fede per credenti?

Sappiamo fin troppo bene, però, che sul tema delle valutazioni scolastiche siamo a un preoccupante livello di schizofrenia: gran parte degli insegnanti non vuole farne a meno, ma pretende l’incontestabilità delle sue sentenze; dal canto loro tante famiglie sono convinte che non sia possibile insegnare senza assegnare i voti – almeno fino a che le insufficienze non toccano i loro figli: insomma, un abbraccio scellerato, a volte esiziale.