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I pionieri utopisti della scuola che non fu

Il Corriere del Ticino del 31 agosto 2017 ha pubblicato un mio contributo, che rimanda alla ricerca storico-giornalistica sul IV Congresso della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova, che si tenne a Locarno nel 1927 (v. 90 anni fa a Locarno il Congresso della “Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle”, dove è possibile scaricare l’intero rapporto, e Sono passati cent’anni, ma la scuola vecchia resiste, in barba ai suoi acciacchi). Copia dell’articolo del Corriere nella fua forma grafica originale può essere scaricata qui.


Pochi sanno che, due anni dopo la Conferenza della Pace, Locarno accolse un altro importante congresso. Nell’agosto del 1927 ospitò il IV congresso della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova (LIEN), un movimento fondato in Francia nel 1921, in occasione di un congresso che riunì «tutti i pionieri dell’educazione, così come tutti quelli che si interessavano all’infanzia e al miglioramento della loro condizione». La maggior parte dei nomi più importanti dell’Educazione nuova era tra i fondatori: da Ferrière a Piaget, dalla Montessori a Neill e tanti altri.

La rivista della Lega, nel suo numero del novembre 1926, così presentava l’appuntamento locarnese: «Il vero internazionalismo deve poggiare ovunque sulla comprensione reciproca, che è l’unico fondamento sicuro per la pace nel mondo. È dunque una scelta eccellente, per il nostro prossimo congresso, quella di Locarno, poiché è là che è nata recentemente una grande speranza, quella di un’epoca nuova di fratellanza e di pace.  Il congresso registrò la presenza di più di mille partecipanti provenienti dai cinque continenti (al congresso di Heidelberg del 1925 ve ne furono 450).


Dal punto di vista internazionale, questo simposio non offrì spunti molto significativi per la breve storia di LIEN. Nata come progetto per instaurare la pace attraverso l’educazione, negli anni successivi organizzò ancora tre soli congressi: nel ’29 in Danimarca, nel ’32 a Nizza e nel ’36 in Inghilterra.

La Lega difendeva coi denti il suo statuto apolitico e laico. Célestin Freinet ne approfittò per cavalcare una polemica che sarebbe stata profetica: «La menzogna su cui è costruita la Lega viene dalla neutralità politica e religiosa. Se un giorno malauguratamente prossimo scoppierà una guerra prima che l’educazione nuova sia riuscita a realizzare il rinnovamento interiore degli individui, cosa farà, allora, la Lega?»

Questo candore pose qualche problema inatteso anche nel Ticino di quel tempo. Nelle settimane che precedettero l’apertura del congresso la stampa locale scatenò discussioni animose.

Mentre il Corriere del Ticino del 23 luglio elogiava LIEN, parlando di un congresso che «contribuirà ancora ad aumentare la sua fama ed a rafforzare la sua influenza, ciò che non potrà che essere di buon giovamento ad ognuno», il Giornale del Popolo, nato l’anno prima per volere del vescovo Bacciarini, intervenne a più riprese contro il convegno. Il 24 luglio il quotidiano della Curia si chiedeva: congresso mondiale di danza o di educazione? «Il Programma prevede che ogni Conferenza sarà preceduta da un concerto eseguito dall’Orchestra del congresso e quasi ogni giornata terminerà con un grande ballo»: era nota l’opinione del vescovo sulla licenziosità del ballo. A completare il quadro, lo stesso foglio riportò il parere di Padre Gemelli: «Nel mondo degli studiosi è noto quali origini abbia quel movimento pedagogico che ha promosso questo congresso; non esito a dire chiaramente che la ispirazione del movimento stesso e del congresso è così nettamente anticattolica che io ritengo sia bene che i maestri cattolici ticinesi abbiano ad astenersi dall’intervenire» – malgrado il fatto che il Dipartimento dell’Educazione, guidato dal conservatore Giuseppe Cattori, avesse facilitato e spronato la partecipazione dei maestri ticinesi. Ferrière, dopo il congresso, se ne lamentò senza giri di parole: «Il clero ha ostacolato la partecipazione dei Ticinesi al nostro congresso. Abbiamo così scritto al vescovo di Lugano che la nostra neutralità completa in materia confessionale non giustificava questo ostracismo».

Altro campo, altro litigio. Tra i relatori figurava Giuseppe Lombardo Radice, membro di LIEN sin dalla prima ora. Già in febbraio Libera stampa aveva aperto le danze: «Da una comunicazione del Bureau International d’Éducation apprendiamo che al Congresso dell’Educazione Nuova Gentile e Lombardo Radice interverranno. Si tratta di due laidi spioni che a Locarno sorveglieranno per conto del Governo di Mussolini la condotta politica degli studiosi italiani. È sulle denunce degli spioni che si potranno fare quelle che i fascisti chiamano epurazione. Il Comitato del Congresso, tenga conto di questo nostro avviso. Ben vengano i due mariuoli a Locarno: in questa libera terra troveranno dei liberi uomini che sapranno gittar loro in faccia la rampogna e il disprezzo degli educatori italiani, umiliati e oppressi». Lo stile fa un po’ sorridere, per un certo squadrismo non troppo velato. Ma la cosa interessante è che il filosofo siciliano si era dimesso dagli incarichi ministeriali per protesta contro il fascismo nel ’24. A ciò si aggiunga che già nell’anno del congresso era sottoposto alla sorveglianza della polizia politica.

Rinunciò a venire a Locarno: «Ho accettato di essere uno dei relatori – scrisse – perché l’attività delle persone che lo hanno promosso e la tradizione dei precedenti congressi mi persuadeva che si trattasse di un dibattito di questioni tecniche, assolutamente all’infuori delle questioni politiche dei varii paesi. Vedo ora, invece, che nell’agosto a Locarno la cosa prenderà una piega assai diversa».

Princìpi sempre attuali

Nella scuola ticinese l’interesse fu pacato e prudente. Il tema, in quegli anni, era ben presente nell’agenda politica del Cantone. Erano in atto riforme interessanti, ma lo spirito di LIEN andava oltre. L’educatore della Svizzera italiana archiviò il congresso nel suo numero di settembre, prendendo le distanze da “certi esperimenti”: «Come è facile comprendere, non molte applicazioni pratiche è possibile ricavare per le nostre scuole: le quali scuole sono pervase di sano spirito di modernità, e tengono il “giusto mezzo” tra le riforme più audaci e i sistemi tradizionali. Anche nel nostro Cantone, si va tentando di fare la scuola “libera”, con le composizioni non più obbligate, il diario e il disegno spontanei: ebbene, in alcuni casi, i risultati sono così lacrimevoli, che i maestri si riaggrappano, più tenacemente, ai metodi che magari sdegnavano». Per certi versi verrebbe da dire che, da allora, il dibattito politico non sia granché cambiato: in certi momenti sembra di leggere le stesse tiritere delle discussioni attorno alla Scuola che verrà.

Oggi LIEN è rinato, ne ha ripreso l’acronimo e ne condivide i principi fondatori, con l’obiettivo di mantenere vive le idee di quel grande progetto, al di là delle utopie e delle ingenuità: i due LIEN, quello di oggi e quello di un secolo fa, continuano a sognare un cambiamento del contratto scolastico, per andare verso una scuola che non etichetti più nessuno e che non selezioni la gioventù, ma la istruisca e la educhi.

Adulti razzisti sul web: la TV si guarda il dito e non s’accorge della luna

Il Quotidiano, trasmissione d’informazione regionale della RSI, che da più di trent’anni accompagna la cena di tanti ticinesi, ha mandato in onda il 10 agosto scorso il servizio «Post razzisti, aperta inchiesta». Sottotitolo: Oltre quaranta persone avevano segnalato al Ministero pubblico i commenti di due donne sull’eritrea morta a Bellinzona (Vedi, ad esempio, il CdT del 4 luglio: Donna caduta dal balcone, arrestato il convivente).

Al termine dei due minuti e mezzo del reportage ero talmente incredulo, che ho ribobinato e riascoltato più volte.

Dato che, come recita l’antico proverbio, «verba volant, scripta manent» – e, per motivi che gli antichi non potevano immaginare, anche video manent, ma non sempre per sempre – ho trascritto gran parte del testo di quel servizio.

Avvertenza: le immagini non erano sostanziali, nel senso che non aggiungevano nulla alle parole. Salvo una, che ho inserito al suo posto.

Giornalista. «Vanno bene le segnalazioni alla procura, vanno bene anche le multe, ma se vogliamo davvero arginare i casi di razzismo sul webdice Bertil Cottier – dobbiamo colmare una grande lacuna: la mancanza di educazione alla rete e all’utilizzo dei social media». Così l’esperto di diritto, da noi raggiunto telefonicamente, a margine dell’apertura di un’inchiesta per i post razzisti che hanno infestato il web dopo la morte di una giovane eritrea, precipitata dal balcone di casa il 3 luglio a Bellinzona. Un caso che ha portato all’arresto del compagno con l’accusa di omicidio.

Due donne hanno commentato il dramma pubblicando post razzisti.

Una quarantina di ticinesi ha segnalato il caso al ministero pubblico che, come anticipato da laRegione, ha aperto un’inchiesta per xenofobia e discriminazione razziale.

Qui entra in campo Cottier, che non ha dubbi: l’aspetto punitivo non può essere il solo con cui la nostra società affronta il problema.

Bertil Cottier, professore di diritto dei media, [al telefono]. Secondo me non è sufficiente. Abbiamo visto a livello ticinese e anche a livello svizzero un gran sforzo per educare i bambini alla problematica della pedofilia. Ma i problemi non sono solo la pedofilia, bisogna fare un po’ di più.

Giornalista. I vertici della scuola si dicono aperti ad un miglioramento della situazione attuale.

Manuele Bertoli, direttore del DECS, [in video]. Dovremo intervenire. Lo si fa già in parte, ma si dovrà farlo anche di più in futuro. Si tratta di un insegnamento che può e deve essere trasversale, e quindi trattato in diverse discipline o materie: per esempio nelle materie più umanistiche in generale, da un lato insegnando ai ragazzi a utilizzare questi nuovi mezzi, che ormai fanno parte della nostra vita quotidiana, ma d’altra parte anche facendo loro capire quali sono i limiti e quali sono gli abusi da non commettere.

Giornalista. Insomma, anche la scuola si adegua alle nuove esigenze e gli episodi di razzismo, di cui ancora una volta il Ticino è teatro, anche se virtualmente, avranno almeno merito di migliorare la sensibilizzazione nelle scuole.

Non so voi, ma a me è venuto in mente quel detto secondo il quale quando il saggio indica la luna, lo sciocco guarda il dito. Così mi sono chiesto: cosa c’entra l’educazione dei minori all’uso dei social con due adulte che, magari volendo imitare certi politici, si sono lasciate andare a idiozie di stampo razzista?

Non c’entra una cicca. Se, come sembra, le due donne hanno commesso un reato si devono punire, e basta. Anche perché non è vero, come ha concluso il giornalista, che l’episodio di razzismo è virtuale: non c’è proprio nulla di virtuale in ciò che si legge nella rete, perché i pensieri degli autori sono sciaguratamente reali.

Quel che racconta il servizio della televisione di Stato è tutt’altra faccenda. E, vorrei aggiungere, se i post razzisti fossero stati scritti da minorenni, la preoccupazione sull’uso dei social sarebbe stato il mio ultimo pensiero. Avrei invece pensato che c’è qualcosa che non funziona nel sistema educativo: qualcosa di terrificante per il diritto e di drammatico per la democrazia.

Conosco fin troppo bene le imboscate in cui può cadere chi è intervistato dei media. Ti chiama il giornalista, ti fa una domanda e tu rispondi, di solito cercando di essere chiaro e conciso. Poi ti leggi, ti ascolti o ti vedi: non hai contato fandonie, ma il contesto è diventato un altro. Fosse solo per la stima di cui godono i due intervistati, spero che sia andata così.

Il testo che ho riportato – un po’ dialogo senza conoscere le domande poste agli intervistati, né le loro risposte complete – appare insensato, incongruente, assurdo. Persino un po’ kafkiano. Dopo il primo ascolto mi sono detto: toh, le nuove regole della pedagogia e del buon senso non mirano più a educare persone democratiche, capaci di accogliere le diversità e di stare alla larga da razzismo, xenofobia e intolleranza sui generis, vale a dire persone che hanno capito cos’è il diritto.

Il «messaggio» che ne scaturisce – una volta si sarebbe detto «la morale della storia» – è però un altro, piuttosto untuoso: pensa quel che vuoi, ma non scriverlo sui social.


Immagine d’apertura: RENÉ MAGRITTE (1898-1967). La Condition humaine I, 1933, Olio su tela, 100 x 88 cm, National Gallery of Art, Washington D. C.

Sono passati cent’anni, ma la scuola vecchia resiste, in barba ai suoi acciacchi

Quando, il 1° agosto scorso, ho pubblicato qui la mia inchiesta sul IV congresso della Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle (LIEN), che si era tenuto a Locarno dal 3 al 15 agosto 1927, non mi aspettavo certo immediate reazioni, soprattutto locali.Dal Ticino, che di questi tempi è al contempo elettrizzato – ehi raga!, c’è Locarno Festival – e sonnacchioso, non mi attendevo chissà quali sussulti. Se nessuno se n’è accorto per novant’anni, non sarà certo uno starnuto nel mio sito a far sussultare gli animi dei più (che sono in vacanza, mica al Festival del film).

Tuttavia ho ricevuto alcuni messaggi autorevoli, che mi hanno fatto piacere.

Per cominciare Marco Balerna, ex sindaco di Locarno, ha commentato così: Grazie Adolfo per averci ricordato che Locarno non è stata solo la «Città della Pace», ma anche «Città della Scuola». Se solo si fosse continuato e perseverato su certi principi e certe realtà… Ma così va il mondo: bisogna sempre ricominciare e ricominciare. Che fatica. Ma questo è il nostro destino di uomini.

Nei giorni seguenti, da Ginevra, dove ho studiato, mi sono arrivati altri messaggi che mi hanno fatto un poco arrossire: non cito gli autori, perché non ne ho chiesto il permesso, e non riporto cosa mi hanno scritto, perché va bene un po’ di vanità, ma vediamo di non esagerare.

Detto questo voglio segnalare due cose.

1. Il 14 e 15 settembre gli Archives Institut Jean-Jacques Rousseau organizzano un colloquio internazionale sul tema Genève, une plateforme de l’internationalisme éducatif au 20è siècle. Va da sé che l’utopia della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova ha molto a che fare con l’esprit éducatif genevois. Chi è interessato (io lo sono, ma in quei giorni dovrò essere a Locarno, perché c’è «Piazzaparola», di cui scriverò da qui a là) trova all’indirizzo indicato tutto quel che serve.

2. Inoltre: il mio fascicolo 1927: Locarno accoglie l’Educazione Nuova è ora disponibile anche nel sito di Lien International d’Éducation Nouvelle. Ne sono contento, perché anche così si offre una maggiore diffusione alle idee di cui sono portatori i due LIEN, quello di oggi e quello di un secolo fa, che continuano a sognare un cambiamento del contratto scolastico, per andare verso una scuola che non etichetti più nessuno e che non selezioni più la gioventù, ma la istruisca e la educhi, seriamente e con gioia.

Il Manifesto di LIEN, nato durante il simposio di un anno fa a Villeurbanne, nei pressi di Lione (lo si può scaricare qui) è di grande interesse, meglio ancora se si riesce a leggerlo tenendo in filigrana le (H)armo(S)nizzazioni odierne – in bilico tra editti dai toni suadenti e piani di studio di non esemplare chiarezza – la Scuola che verrà e i tanti dibattiti un po’ scontati, che si susseguono negli ambienti politici e si riflettono specularmente sui media.

Mi limito a citare due o tre argomenti, tratti dal Manifesto, che fanno spesso capolino nei discorsi dei politici e che, naturalmente, rispecchiano e rinvigoriscono i pareri dell’opinione pubblica.

  • La fratellanza confusa con la compassione, che valorizza l’aiuto e il sostegno ai più sfavoriti, rafforzando e legittimando in tal modo le disuguaglianze.
  • «Le pari opportunità», falsamente garantite dalla Scuola, che sono una frottola sociale, perché consolidano un sistema ingiusto, insinuando in ognuno il convincimento di «meritare» la propria sorte. Attraverso le cosiddette pari opportunità si impedisce che si protesti o che si esiga chissà che, dal momento che si è fatto di tutto per offrire a ognuno la possibilità di riuscire. Si tratta di una mistificazione che scaturisce dal presupposto che il successo degli uni e l’insuccesso degli altri si spiegano attraverso i “doni” ricevuti alla nascita o i meriti personali.
  • La certezza che la competizione accresce la motivazione, incoraggia l’apprendimento e giustifica sforzi e sacrifici, dissociando il piacere e il lavoro.
  • Transeat, invece, sul tema della differenziazione, un’araba fenice dalle millanta interpretazioni (di comodo).

Insomma: secondo un modo di dire comune la scuola, parlo di quella dell’obbligo, è un cantiere sempre in movimento, per dire che si è pronti ad affrontare, giorno dopo giorno, ogni novità.

Eppure, ogni tanto, viene il dubbio che anche la scuola, a immagine del capolavoro di Tomasi di Lampedusa, auspichi che sotto sotto «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

90 anni fa a Locarno il Congresso della “Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle”

Il 3 agosto del 1927 – giusto novant’anni fa – Locarno ospitò il IV congresso della Lega Internazionale per l’Educazione Nuova (LIEN), un movimento che era stato fondato in Francia, a Calais, il 6 agosto 1921, in occasione di un congresso che riunì «tous les pionniers de l’éducation – pédagogues, instituteurs, éducateurs, directeurs d’écoles, psychologues – ainsi que tous ceux qui, parents, philosophes, médecins, s’intéressent à l’enfance et à l’amélioration de sa condition». L’iniziativa era partita da un gruppo di teosofi inglesi, tra i quali Beatrice Ensor, presente anche a Locarno. Tra i co-fondatori di LIEN alcune fonti indicano, tra gli altri, John Dewey, Jean Piaget, Maria Montessori, Beatrice Ensor et Adolphe Ferrière, oltre ad Alexander S. Neill «qui fondera l’école de Summerhill quelques mois plus tard».

Il congresso riunì oltre 1200 partecipanti, provenienti dai quattro angoli del globo, che «Il Dovere» del 4 agosto così elencava, sulla scorta della lista dei delegati ufficiali dei diversi paesi: Germania 240, Stati Uniti d’America 131, Inghilterra 126, Svizzera 94, Polonia 50, Scozia 46, Austria 26, Latvia 20, Francia 22, Danimarca 16, Svezia 15, Olanda 14, Ungheria 14, Rumania 8, Turchia 8, Cecoslovacchia 7, India 7, Yugoslavia 7, Belgio 6, Irlanda 6, Finlandia 4, Italia 4, Spagna 4, Africa 3, Paese di Galles 3, Indie Occidentali 3, Australia 2, Canadà 2, Lituania 2, Russia 2, Brasile 1, Bulgària 1, Cina 1, Giappone 1, Liberia 1, Nuova Zelanda 1, Perù 1, Portogallo 1, Messico 1, Estonia 2, Ungheria altri 19.

Foto scattata nei giorni del Congresso in via Varenna a Locarno. Da sinistra Ovide Decroly, Pierre Bovet, Beatrice Ensor, Édouard Claparède, Paul Geheeb, Adolphe Ferrière.

Benché viva da sempre a Locarno, avevo scoperto del tutto casualmente lo svolgimento di questo congresso nella mia città. Nei primi mesi del 2014, mentre leggevo un libro di Philippe Meirieu, mi ero imbattuto in questo paragrafo: «Certes, en coulisses, les débats existent bel et bien et ils vont se développer, de congrès en congrès, jusqu’à, parfois, menacer l’existence même du mouvement: en 1927, à Locarno, on ne parvient pas vraiment à s’entendre sur comment il faut comprendre la liberté en éducation»: eccetera.

A quasi novant’anni di distanza dal congresso locarnese, ci si può chiedere com’è possibile che, almeno in Ticino e a Locarno, nessuno se ne ricordi. Personalmente non ne avevo mai sentito parlare e anche una rapida ricerca sul web non ha restituito risultati legati direttamente al nostro Cantone. Eppure l’evento non doveva essere passato inosservato, non fosse che per la folla di pedagogisti che si erano riversati a Locarno: c’è chi parla di 1’500 convenuti, mentre le fonti più vicine alla Ligue indicano 1’200 congressisti. Quello di Locarno fu il primo con una presenza così numerosa, tanto che alcuni momenti furono dedicati a problemi amministrativi (riorganizzazione del movimento). Erano infatti solo 150 a Calais nel ’21, poi 300 a Montreux nel ’23 e 450 a Heidelberg nel ’25, per salire a 1’200 a Locarno (e poi 2’000 nel ’29 a Elseneur, in Danimarca, punta massima).

Ho svolto questa inchiesta, certo più giornalistica che storica, facendo capo soprattutto alla stampa locale – magari non troppo interessata al congresso in sé: ma l’occasione era propizia per darsele di santa ragione, almeno a parole, tra socialisti, liberali e conservatori, e poi tra cattolici e laici –, al mensile del movimento (Pour l’ère nouvelle) e ad altre pubblicazioni, senza naturalmente scordare l’ormai irrinunciabile www.

Si è trattato di un lavoro appassionante, interessante, a tratti pure divertente. Mi sarebbe piaciuto poter contare su competenze che non ho (non sono uno storico, né uno storiografo); ma sono certo che ci sarà chi avrà svolto un lavoro più scientifico e approfondito del mio attorno a questo evento internazionale che per una decina di giorni aveva vivacizzato l’estate locarnese.

Si può scaricare in formato PDF il risultato dell’inchiesta che ho portato avanti in questi mesi: 1927 – Locarno accoglie l’Educazione Nuova.

 

Un atto di fede, tra scienza, religione e stregoneria

Si sa che sulla statistica circolano tante battute. Mark Twain affermava che Ci sono tre tipi di bugie: le piccole, le grandi e le statistiche. Poi c’è quella di Winston Churchill: Le sole statistiche di cui ci possiamo fidare sono quelle che noi abbiamo falsificato. E ancora: Le statistiche – secondo una definizione attribuita almeno a tre autori – sono come i bikini: si crede che mostrino tutto, ma nei fatti nascondono l’essenziale.

Queste sfuggenti e beffarde “definizioni” mi sono venute in mente mentre scorrevo avanti e indietro due quaderni di ricerca pubblicati qualche mese fa dal CIRSE, che si occupa di innovazione e ricerca sui sistemi educativi, un importante centro di competenze del Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI.

Il quotidiano laRegione ha pubblicato il 14 giugno un articolo che ha attirato la mia attenzione, non fosse che si stagliava al centro della prima pagina: Prove cantonali, gli allievi più bravi sono socioeconomicamente avvantaggiati – L’origine conta.

To’, mi sono detto, questa scoperta proprio non me l’aspettavo. E a pagina 4 ecco l’articolo.

Bisogna convenire che l’articolo, in sé, non aggiunge nulla a ciò che sanno più o meno anche i paracarri protagonisti di un popolare modo di dire. Volendo si può leggere l’articolo scaricandone qui il testo completo: senza aspettarsi chissà quale rivelazione.

Dato che si tratta di uno studio basato sui risultati di un numero molto significativo di allievi – 3’000 di III per la prova di italiano, altrettanti di V per la prova di matematica – mi sono procurato i due rapporti:

Più che le variabili che influenzano il successo o l’insuccesso, mi ponevo qualche domanda più prosaica, cose semplici del tipo Qual è il grado di competenza in italiano in 3ª e in matematica in 5ª? Quali sono gli obiettivi specifici che risultano più ardui di altri? Insomma, cose così, domande semplici, da non addetto ai lavori, che possono semmai tramutarsi in ipotesi da addetto ai lavori.

Invece mi si chiede un atto di fede.

Dovrei dar credito a qualche dichiarazione riportata dal quotidiano bellinzonese. Ad esempio che per aver successo nelle nostre scuole conviene essere «Di nazionalità svizzera, madrelingua italiana e famiglia benestante». Oppure che «I risultati delle prove cantonali ci dicono che non siamo ancora al top». Poco più.

Così uno si dice, un po’ sommessamente: è tutto lì il famoso investimento nella scuola, un mantra che sentiamo come alibi per ogni contenzioso, solitamente più sindacale che di merito?

[Detto pr inciso: queste due ricerchine dicono che il numero di allievi per classe non influenza i risultati e che le pluriclassi, per male che vada, sono migliori delle tanto agognate monoclassi].

Volendo alzarmi un po’ di livello, devo prendere per buona qualche tabella un poco enigmatica. Per dire: a pagina 11 del quaderno sulle prove di italiano leggo che, in generale, l’italiano è misurato con un valore medio di 55.42, su una scala da 0 a 100. Nelle diverse “dimensioni” – la scala è sempre quella lì – abbiamo 58.48 per il lessico, 57.29 per l’ortografia fonologica, 57.36 per l’ortografia morfologica e 45.09 per la punteggiatura ortografica. Allora mi dico: se la scala mi dà l’imbeccata verso una lettura per percentuali, c’è poco da stare allegri, se neanche una “dimensione” arriva almeno al 60%, anche se le cifre dopo la virgola fanno molto “scienza”.

Ma i ricercatori del CIRSE mi bacchettano subito: Tutti i punteggi sono stati normalizzati in modo da assumere valori compresi tra 0 e 100. I punteggi non equivalgono però a percentuali corrispondenti al numero di esercizi svolti correttamente: ottenere 50 in un certo settore non significa infatti aver svolto correttamente il 50% degli item di quel settore.

Chiaro? No, questo è certo. Qualcuno è in grado di spiegarmi l’arcano? Cioè: che significa, anche solo all’incirca, che gli allievi di 3ª hanno raggiunto gli obiettivi dei programmi per un valore di 55.42?

55.42 cosa? È tanto, è poco o prendiamola così e accontentiamoci, senza far domande cretine?

Se poi mi do la pena di leggere, interpretare (a modo mio, ovvio) e capire le correlazioni con alcune variabili indipendenti del campione di popolazione – quali il sesso di allievi e insegnanti (loro lo chiamano gender, per chiarezza e politically correctness), la nota di condotta, il colletto blu o bianco dei genitori (tutt’e due?), tanto per citare qualche “novità” originale – allora me ne vengono in mente altre, che secondo me potrebbero rivelare qualche esclusione in più, da considerare nei dovuti modi.

Per dare qualche idea, non troppo a caso:

  • quanti genitori vivono là dove vive e cresce l’allievo, provenienti da dove, che fanno cosa e con quale ruolo gerarchico;
  • quanti fratelli e fratellastri, sorelle e sorellastre, vivono in quel nucleo;
  • quanti parenti e amici intimi vivono nel raggio di dieci chilometri;
  • quali allievi frequentano la mensa, il doposcuola e le colonie durante le chiusure scolastiche (e perché);
  • quali sono gli orari di lavoro di chi, a casa, si occupa dei figli;
  • chi prepara la colazione, il pranzo, la cena, e decide l’ora di andare a letto e di spegnere gli schermi;
  • quanti televisori, computer, tablet, cellulari sono a disposizione, e sotto il controllo di chi;
  • caratteristiche socio-economiche e socio-culturali non solo dei singoli allievi, ma anche delle comunità in cui gli istituti scolastici sono inseriti;
  • età, anzianità di servizio e itinerario formativo degli insegnanti (magistrale seminariale, post-liceale, ASP, DFA, ASP grigionese), e quanti anni di insegnamento hanno alle spalle;
  • numero di settimane di presenza del docente titolare durante l’anno scolastico;

Il mio agnosticismo, per fortuna, non è confinato negli angusti e consueti territori delle religioni.

In questo caso avrei salutato con grande piacere un qualche allegato, magari solo online, per capire, obiettivo dopo obiettivo e dimensione dopo dimensione, come erano costruite e presentate, anche graficamente, le prove somministrate agli allievi, cosa volevano concretamente analizzare, chi e quando le ha somministrate, e quanto era il tempo a disposizione di ogni allievo – compresi stranieri, alloglotti e indigenti.

Mi sarebbe anche piaciuto sapere con precisione come è stata valutata/misurata ogni risposta: cioè cos’era considerato corretto, sbagliato, sfumato…

E, volendo pretendere la luna, quali conoscenze/competenze non erano state misurate e perché.

Insomma: parrebbe obbligatorio attenersi alle sacre scritture e fidarsi delle interpretazioni che ne dànno i sommi sacerdoti.

Non so voi, ma io dissento: perché “ricerche” siffatte non servono a niente, non sono un buon investimento per il futuro dei nostri figli e della nostra società.