A leggere i principali quotidiani del Cantone dell’ultima settimana di marzo si poteva pensare a un esodo improvviso di tutta l’intelligencija ticinese, con le solite colonne ai valichi alpini e doganali. «Cervelli in fuga!» titolavano un po’ tutti. Invece niente colonne. La stampa si limitava a dar notizia dell’interrogazione al Governo inoltrata da Matteo Quadranti e cofirmatari, che hanno scritto: «A volte il mercato del lavoro in Ticino non offre le opportunità di lavoro o condizioni salariali concorrenziali per queste menti le quali quindi scelgono di iniziare la propria attività professionale nei luoghi dove hanno studiato o comunque altrove. In questo modo il Ticino perde in capitale umano, in spirito imprenditoriale e, di riflesso, in futuri possibili maggiori entrate fiscali che queste persone qualificate potrebbero apportare. Ma il Ticino (…) perde anche a livello di “redditività” del proprio sistema formativo nel senso che il Cantone investe in infrastrutture scolastiche, in formazione primaria, secondaria e specializzata, borse di studio, ecc… ma poi – almeno per le menti che se ne vanno e non tornano – non ne raccoglie i frutti». Indubbiamente la preoccupazione non è tanto per le menti in fuga, ma per questioni più prosaiche. Così chiedono al Governo di intervenire con qualche misura, tra le quali spicca la possibilità di «prevedere che coloro che hanno beneficiato di prestiti di studio e rientrano in Ticino impegnandosi a lavoraci (…), possano vedersi annullato l’obbligo di rimborso».
Un caro amico mi ha detto, con una buona dose di sarcasmo, che i fatti dànno ragione agli onorevoli: basta leggere con regolarità le cronache quotidiane di questo cantone per rendersi conto che una fuga di cervelli ci dev’essere stata per forza, di soppiatto. A me, comunque, sembra una proposta inutile e anche un po’ iniqua. Intanto i prestiti di studio rappresentano solo una parte modesta dell’investimento annuo per le università. Poi vi sono studi accademici che non troverebbero impieghi in Ticino. Se uno va a studiare biologia marina o etnologia kanak ci vorrebbe qualche forzatura per offrirgli un lavoro nell’Elvezia meridionale. E se tutti gli economisti ticinesi volessero operare in Ticino ci troveremmo sommersi: un bel disastro, visto che, come i pedagogisti, non ne azzeccano mai una. Senza scordare che non è così evidente trovare impieghi interessanti, neanche nelle tante discipline contemplate dai politecnici federali. Credo che l’esperienza universitaria fuori casa, spesso in una lingua che non è quella madre, sia utile e da incoraggiare. In antropologia c’è un concetto, detto esogamia, secondo il quale è importante che il matrimonio avvenga tra individui che si scelgono al di fuori del gruppo di appartenenza, per favorire l’arricchimento genetico e limitare il rafforzamento di tare e malattie ereditarie. In tal senso anche una sorta di esogamia intellettuale non può che far bene, mentre che l’autarchia puzzerebbe spiacevolmente di chiusura. Insomma, vediamo di non parlarci addosso più di quel che già facciamo.
A conti fatti i ticinesi che vanno per il mondo, e magari hanno cattedre prestigiose o lavorano in centri di ricerca di punta, sono un motivo di orgoglio per tutti noi. Significa che il nostro sistema scolastico funziona. In fondo se uno torna a casa in fretta e furia solo per farsi azzerare il debito del prestito di studio non è poi ’sta gran mente. E allora lasciamolo dov’è, ché di ottusi ne contiamo a sufficienza.
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Le lezioni di educazione civica del Gran Consiglio
Nelle ultime settimane il nostro parlamento si è chinato su alcune proposte che riguardano il mondo della scuola. Per cominciare si è entrati nel vivo – finalmente! – dell’iniziativa popolare «Aiutiamo le scuole comunali», quella che, tra le tante proposte, sostiene la diminuzione del numero di allievi per classe. Una proposta intermedia del ministro Bertoli – fissare a 22 allievi il massimo, invece dei 20 sostenuti dall’iniziativa – è stata silurata, coi partiti del centro storico che, ben al di là dei tempi regolamentari, hanno presentato soluzioni aggiustate all’ultimo minuto, tanto per dare un qualche senso al voto contrario. Così, per finire, sarà il popolo a doversi esprimere. Personalmente si sa come voterò. Non ho mai nascosto che credo poco in questa misura lineare per risolvere un problema che non ha ovunque la stessa valenza. Addirittura il medesimo problema lo si sarebbe potuto evitare da tanti anni, senza troppe discussioni. Il Regolamento stabilisce un criterio generale per la formazione delle sezioni: 13 allievi al minimo e 25 al massimo. Lo stesso regolamento dice pure che «Il Dipartimento può autorizzare o imporre deroghe» per diverse ragioni, ma, in particolare, «quando le caratteristiche socioculturali degli allievi richiedono un’assistenza particolare». Dato che l’aritmetica, come si sa, non è un’opinione, se la mia scuola ha 48 allievi che frequentano la 1ª elementare, potrei formare tre sezioni di 16 allievi ed essere a norma di legge. Invece il Dipartimento, con modi da ragioniere un po’ ottuso, avrebbe concesso due sezioni da 24. È in ogni caso indecente che un’iniziativa popolare che risale al 2009 sia affrontata solo oggi.
Si è pure cominciato, almeno nell’ambito della Commissione scolastica, a parlare di un’altra iniziativa, stavolta parlamentare. Nella primavera del 2012 i Verdi avevano proposto, in maniera generica, di «Ridiscutere il sistema dei livelli della scuola media». Anche in questo caso i tempi di reazione della politica non sono stati molto cristallini. Ancora una volta sembra di assistere al solito teatrino di chi è contrario ma non sa bene perché. L’inedita accoppiata PPD-PLR ha organizzato a metà febbraio una conferenza stampa e ha dettato diverse proposte per «migliorare la scuola media». Una, ad esempio, è quella di aumentare il numero di docenti con abilitazione in più materie, così che la stessa persona possa insegnare più di una disciplina a una medesima classe. Concordo. È indubbiamente un’opzione molto interessante, sennonché s’infrange contro le super-specializzazioni cavalcate sino a oggi: per insegnare, poniamo, matematica alla scuola media ci vogliono il bachelor in matematica e la relativa abilitazione nella didattica disciplinare. Le regole del gioco le ha stabilite lo Stato. Si possono cambiare, ma non in quattro e quattr’otto. A sinistra, invece, è già stato detto che i livelli non solo devono essere mantenuti, ma addirittura ampliati. Avanti tutta, insomma, con le soluzioni magiche, rapide e poco costose. Tanto poi tra un anno ci sarà il rinnovo dei poteri e il tempo per fare ancora un po’ di melina non mancherà.
Per terminare in bellezza bisognerà poi affrontare un’altra iniziativa popolare – «Educhiamo i giovani alla cittadinanza» – che è solo dell’anno scorso. Difficile, per ora, immaginare come saranno gli schieramenti e quali intrugli miracolosi saprà inventare la politica. Fin qui, comunque, di civicamente educativo non c’è proprio nulla.
Scarsità di maestri e difesa della qualità
Per oltre trent’anni la Magistrale ha continuato a sfornare disoccupati, malgrado la considerevole diminuzione degli iscritti, la chiusura per un paio di anni e un modello formativo pensato per un numero relativamente basso di studenti. A metà degli anni ’70 la scuola ticinese aveva dovuto confrontarsi con una doccia fredda del tutto inaspettata: se fino al 1974/75 si erano costruite nuove scuole per accogliere i figli del baby boom – e l’istituto locarnese diplomava oltre duecento nuovi maestri di scuola elementare all’anno – a partire dall’anno successivo era iniziato il calo inesorabile degli allievi, passati dagli oltre 20 mila di quegli anni ai 13 mila dell’88/89. Nei primi anni di questo millennio, con l’istituzione dell’ASP, si è pure introdotto il «numero controllato», un modo perbene per dire «numero chiuso», con un occhio di riguardo al modello formativo più che ai disoccupati.
Da qualche mese – toh!? – si è però scoperto che c’è scarsità di maestri di scuola elementare, tanto che un gruppo di parlamentari ha presentato l’immancabile iniziativa generica che segnala «una presunta scarsità di docenti» e chiede di «innalzare sensibilmente o abolire il numero chiuso delle ammissioni presso il DFA», con la precisazione di escludere gli studenti residenti fuori Cantone, ovvio. Ma com’è potuto succedere che nessuno s’accorgesse che la demografia era stagnante, mentre il corpo insegnante invecchiava in modo implacabile? A parte che già da almeno due o tre anni le scuole comunali faticano a trovare supplenti, nei primi anni ’90 la Conferenza dei direttori delle scuole comunali si era chinata sul problema dell’invecchiamento del corpo insegnante. In un rapporto del 1995, redatto insieme all’Ufficio studi e ricerche (USR) del Dipartimento, i direttori scrivevano: «Se prendiamo in considerazione i dati forniti dalla Cassa Pensioni, che situano a 62 anni l’età media di pensionamento, ci accorgiamo che un vero e proprio ricambio del corpo insegnante avverrà fra 15-20 anni». Appunto. La problematica era poi stata assunta direttamente dal medesimo USR, che tuttavia non si era occupato del problema, con l’obiettivo di giungere preparati a questa scadenza, sebbene la Magistrale appartenesse ancora allo Stato – il passaggio alla SUPSI risale a quattro anni fa – e benché la demografia proseguisse il suo placido scorrere.
In un articolo del 1996 Graziano Martignoni aveva scritto che l’augurio più bello che si poteva rivolgere a un bambino che affrontava il primo giorno di scuola fosse quello di «incontrare un buon maestro»: credo che possiamo essere tutti d’accordo. Ora, in attesa che il DFA trovi le soluzioni migliori per formare un numero sufficiente di maestri entusiasti e competenti e che lo Stato conceda i crediti necessari per farvi fronte, da più parti si è data la stura alle soluzioni più fantasiose, ognuna delle quali pretende di essere l’uovo di Colombo. Negli anni ’70 il Canton Vallese, confrontato con un’analoga penuria di maestri, aveva diminuito all’istante la durata degli studi magistrali. Cose d’altri tempi, certo. Ma sarebbe il colmo se, per risolvere in fretta un problema conosciuto da anni, si sacrificasse la qualità dei nuovi insegnanti, ammesso che quel che passa oggi l’ex convento locarnese sia all’altezza di un far scuola sempre più complicato e sfibrante. Perché l’importante è che i maestri siano in gamba, a prescindere da ogni soluzione autarchica.
Serve un progetto politico per la scuola dell’obbligo
Gesù bambino ha portato ai maestri delle scuole comunali un regalo che aspettavano da tanto, troppo tempo: un aggiornamento dello stipendio. Era ora, quasi per tutti. «Quello dello stipendio – ha detto il direttore del DECS – è uno degli aspetti che concorrono a rendere attrattiva la professione di insegnante», il che significa che per diversi anni molti maestri hanno lavorato con una busta-paga poco attrattiva. Chissà perché. Si deve pur ammettere che nel lungo periodo caratterizzato da una forte disoccupazione magistrale non ci si è preoccupati molto delle condizioni di lavoro dei nostri docenti, se non a parole, col famoso slogan dell’«investire nell’educazione». È già tanto se hanno un posto di lavoro, avrà pensato qualcuno. Da qualche anno, però, cominciano a scarseggiare i maestri di scuola elementare, e c’è da credere che per un po’ saranno necessari tanta fantasia e un bel po’ di pragmatismo per sostituire i tanti che andranno in pensione, oltre a chi finirà in congedo per ragioni diverse.
Cautamente il ministro Bertoli ha sottolineato che quello del salario è solo uno dei tanti aspetti che rendono attraente l’insegnamento. Spero – ma ho paura di illudermi – che gli altri aspetti non siano solo la diminuzione del numero di allievi per classe, il potenziamento dei servizi di sostegno, l’estensione dei direttori a tutti gli istituti, la realizzazione di HarmoS e nuovi servizi para-scolastici. Perché, diciamocelo con franchezza, insegnare oggi è diventato un mestiere difficile per ben altre ragioni. Negli ultimi cinquant’anni, con una robusta accelerazione negli ultimi tre lustri, la scuola dell’obbligo è passata da istituzione dello Stato, con finalità di alfabetizzazione, educazione e cultura, a servizio orientato in maniera unilaterale verso l’economia. Siamo, insomma, alla paventata scuola supermercato, che cerca di dare risposte (sconnesse) ai bisogni più disparati. Non è certo con i corsi di educazione civica o i giochini didattici sull’interculturalismo, né con un’interpretazione sempre più tecnocratica dei programmi, ridotti a un’ammucchiata di discipline, che è possibile fondare un legame sociale tra cittadini in grado di adattarsi al mutare rapido e incessante del mondo e a preparare le giovani generazioni all’inevitabile confronto con le culture asiatiche, mediorientali e africane. Per educare e istruire cittadini consapevoli, critici e liberi, occorre riaffermare con forza il progetto educativo dello Stato: è innegabile che l’economia ha un’influenza rilevante, a tutti i livelli. Ma altri interessi superiori devono prevalere nel dibattito politico.
Il fascino della professione risiede proprio lì, nel legare l’istruzione e l’educazione all’interno di un gruppo – la classe – che è una piccola società basata sul diritto, sul lavoro tenace ed esigente, sulla fiducia nella capacità di ogni allievo di raggiungere il massimo delle sue potenzialità. Perché il difficile compito dell’insegnante della scuola dell’obbligo, sia esso un maestro delle scuole comunali o un professore delle medie, deve mirare a dar vita a futuri adulti che sappiano comunicare e pensare, che conoscano la matematica, la storia, la geografia, le scienze e le arti. In una società che chiede sempre più versatilità, la scuola pubblica e obbligatoria deve rispondere in termini politici, con un progetto serio e lungimirante. È invece insensato, ed economicamente irrazionale, che la scuola dello Stato scialacqui gran parte delle sue energie a selezionare chi potrà frequentare il liceo.
Primo: imparare bene. Per le pagelle c’è tempo una vita
«Allenare i bambini non significa puntare alla vittoria. Prima devono imparare a giocare bene». Così parlò Claudio Mezzadri, grande sportivo che, a suo tempo, ha scalato le classifiche del tennis che conta. Lo ha detto durante una serata pubblica organizzata dalla Federazione Ticinese Calcio a fine novembre, sul tema «Genitori e sport», di cui ha ampiamente riferito La Regione. E ha aggiunto: «Mio papà mi ha insegnato cosa significa fare sport. Parlandomi di rispetto dell’avversario, spirito di sacrificio, imparare dalle sconfitte». Gli ha fatto eco Pierluigi Tami, allenatore della nazionale U21: «Giocare bene è importante: solamente così si raggiungono buoni risultati». È bello che simili precetti pedagogici vengano proprio dal mondo dello sport, che per sua natura è basato sulla competizione. E sarebbe ancor più bello se anche la scuola dell’obbligo basasse il suo intervento quotidiano su questa massima. Imparare bene: solamente così si raggiungono buoni risultati.
Invece a scuola è la valutazione a farla da padrona, quasi sempre insensibile alle tante diversità cognitive e culturali che si ritrovano in ogni classe. Prendiamo la prima elementare. Da noi inizia a sei anni, ma la differenza di età tra i diversi allievi può essere di quasi un anno: tanta, quando si è così piccoli. Le ricerche dicono che è verso i sei anni che un bambino è pronto per imparare a leggere e a scrivere. Se lo dicono le statistiche, significa che sarà pronto circa il 70%. E l’altro 30%? Diciamo che, teoricamente, metà avrà forse già iniziato a muovere agevolmente i primi passi tra lettere, sillabe, parole e frasi, mentre l’altra metà proprio non ne ha ancora i mezzi, che arriveranno, soprattutto se convenientemente stimolati. Così in ogni prima elementare di venti allievi potrebbero essercene due o tre che non possono ancora imparare a leggere e scrivere, e non è neanche detto che siano proprio i più piccolini. L’insegnante accorto terrà conto di questa immaturità, cercherà di sviluppare al massimo le capacità del momento e, soprattutto, incoraggerà l’allievo e rassicurerà i genitori, facendosene un baffo di studi e statistiche. Ma più spesso non è così. Capita invero che dopo neanche un mese di scuola il genitore si senta dire che il proprio figliolo è in difficoltà, che non ce la fa a tenere il passo: si può immaginare la situazione. Per non parlare della scuola media, dove il trascorrere degli anni scolastici è scandito dai test.
Fosse per me abolirei ogni forma di valutazione che serva a mettere in fila i bravi e i meno bravi, quelli favoriti dalla sorte e i soliti scalognati. Se la scuola dell’obbligo dura nove anni – saranno undici con HarmoS – si faccia in modo che ogni allievo giunga al traguardo munito delle competenze ritenute fondamentali, perché per la selezione e le specializzazioni c’è tutto il tempo dopo. Le pari opportunità impongono alla scuola pubblica la diversità degli sforzi disponibili, come si fa nel campo della sanità, della giustizia e del lavoro sociale.
Hanno scritto i ragazzi della scuola di Barbiana, quelli di don Milani: «Al tornitore non si permette di consegnare solo i pezzi che son riusciti. Altrimenti non farebbe nulla per farli riuscire tutti. Voi [maestri] invece sapete di poter scartare i pezzi a vostro piacimento. Perciò vi contentate di controllare quello che riesce da sé per cause estranee alla scuola.» Primo imparare bene, insomma. E vediamo di non aggiungere sofferenze a sofferenze.