Secondo un famoso adagio attribuito al filosofo medievale Bernardo di Chartres, «Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane». L’immagine è affascinante. Paolo Di Stefano, da quest’anno direttore artistico degli Eventi Letterari Monte Verità, ha voluto partire proprio da qui per contraddistinguere la sua prima edizione, inaugurata in aprile.
«Ognuno ha i suoi Giganti, maestri del passato e del presente a cui si ispira e che lo ispirano», ha detto Di Stefano. «Stando seduti sulle loro spalle abbiamo la possibilità di vedere più lontano. Perché intitolare così gli Eventi letterari Monte Verità? Perché è un problema chiave il nostro rapporto con la tradizione, con i maestri e con i classici in un mondo che sembra volerne fare a meno per puntare tutto su un’innovazione senza cultura, senza criterio e senza spessore». L’importanza dei classici non è una questione che tocca solo la letteratura. Pensando alla scuola, che dovrebbe essere l’epicentro del nostro sistema educativo, non possiamo trascurare i maestri di oggi e di ieri, che hanno lasciato testimonianze ed esperienze irrinunciabili.
Prendiamo Aristotele. Nell’Etica a Nicomaco scrive che «le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole: per esempio, si diventa costruttori costruendo, e suonatori di cetra suonando la cetra». È il principio della scuola attiva. Poi aggiunge: «Così anche compiendo azioni giuste diventiamo giusti, azioni temperate temperanti, azioni coraggiose coraggiosi. Ne è conferma ciò che accade nelle città: i legislatori, infatti, rendono buoni i cittadini creando in loro determinate abitudini, e questo è il disegno di ogni legislatore, e coloro che non lo effettuano adeguatamente sono dei falliti; in questo differisce una costituzione buona da una cattiva».
Siamo alla cosiddetta educazione alla cittadinanza, che non può essere ridotta a materia scolastica a sé stante: perché a questa stregua potremmo aggiungere altre discipline complesse, già in tenera età, come Imparare a camminare o a parlare, naturalmente con tanto di test, medie finali e promozione o bocciatura del prossimo compleanno.
Con un salto di duemila anni arriveremmo al padre della pedagogia moderna, Jean-Jacques Rousseau, che rafforzava l’idea di un ragazzo che, nel contempo, impara delle nozioni e viene educato a pensare con la propria testa: «Rendete il vostro allievo attento ai fenomeni della natura, e lo renderete ben presto curioso; ma, per alimentare la sua curiosità, non vi affrettate mai a soddisfarla. Ch’egli non sappia nulla perché glielo avete detto voi, ma perché l’ha compreso da sé. Se mai sostituirete nel suo spirito l’autorità alla ragione, egli non ragionerà più; non sarà più che il giocattolo dell’opinione degli altri».
Naturalmente dovremo ricordarci di altri giganti, come Johann Heinrich Pestalozzi, che a Stans accoglieva e educava gli orfani di guerra; o Janusz Korczak, che nel 1929 aveva dato alle stampe Il diritto del bambino al rispetto, e nel ’42 finì a Treblinka, coi suoi ragazzi del ghetto di Varsavia.
La storia della scuola e delle idee pedagogiche – cioè delle utopie di taluni e delle pratiche di altri – è un patrimonio di esperienze e di ideali che dovrebbe conoscere chiunque vuol impegnarsi per migliorare ogni giorno la scuola di tutti, così da scongiurare riforme «senza cultura, senza criterio e senza spessore».