Dopo «La scuola raccontata al mio cane», che nel 2004 aveva suscitato un certo clamore, Paola Mastrocola, scrittrice torinese e insegnante di lettere in un liceo, è tornata in libreria da qualche settimana con un nuovo libro sulla scuola, ancor più corrosivo e amaro del primo, dal sapore vagamente panflettistico. «Togliamo il disturbo», col sottotitolo «Saggio sulla libertà di non studiare», è un atto d’amore, seppur gonfio di tristezza, per la scuola e la cultura; ma è nel contempo un lucido e inflessibile j’accuse contro la scuola di oggi, nella quale «quella esigua, risibile minoranza di giovani che prova piacere a stare ore sui libri e che quindi – cosa inaudita – studia» viene ignorata o, addirittura, volutamente emarginata. Scrive l’autrice nelle note di copertina: «Questo libro è una battaglia, perché la cultura non abbandoni la nostra vita e prima di ogni altro luogo la nostra scuola, rendendo il futuro di tutti noi un deserto. È anche un atto di accusa alla mia generazione, che ha compiuto alcune scelte disastrose e non manifesta oggi il minimo pentimento. Infine, è la mia personale preghiera ai giovani, perché scelgano loro, in prima persona, la vita che vorranno, ignorando ogni pressione, sociale e soprattutto famigliare. E perché, in un mondo che li vezzeggia, li compatisce, e ne alimenta ogni giorno il vittimismo, essi con un gesto coraggioso e rivoluzionario si riprendano la libertà di scegliere se studiare o no, sovvertendo tutti gli insopportabili luoghi comuni che da almeno quarant’anni ci governano e ci opprimono».
Il punto di partenza è l’osservazione delle capacità dei suoi studenti durante i primi giorni del liceo, dopo otto anni di scuola dell’obbligo, tale è la durata in Italia: meno del 10% conosce la grafia corretta dell’italiano, mette la punteggiatura, riconosce un soggetto, un predicato verbale o nominale, un complemento oggetto, distingue un avverbio da una congiunzione; e in matematica «i ragazzi non sanno calcolare il minimo comune multiplo e il massimo comun divisore». Com’era già stato il caso per il primo libro sulla scuola di oggi, restano pur sempre delle differenze tra la scuola italiana, almeno quella che conosciamo attraverso gli echi che ci arrivano regolarmente, e la nostra. Vi sono tuttavia parecchie analogie che non si devono sottovalutare, ciò che fa di «Togliamo il disturbo» un libro di grande interesse per chi ha a che fare con la scuola, siano essi insegnanti o politici, formatori di formatori o genitori: perché «La forza della democrazia è la somma delle forze individuali, non è l’ammasso delle debolezze collettive». Ce n’è per tutti in questo libro e, malgrado l’inno allo studio e al rigore che trasuda da ogni riga, non è un libro passatista, anche se certamente disturberà molto e molti. Se la scuola odierna è quel che osserva Paola Mastrocola, «così facilitata, estroversa, tecnologica e giocante», le colpe sono collettive. «Se la scuola diventa un centro di socializzazione dove stare insieme e trovare amici e mostrare gadget e vestiario, se quindi i figli vanno volentieri a scuola, i genitori si sentiranno sollevati: la loro spinta edonistica e narcisistica non sarà in contrasto con la vita dei figli: tutti insieme allegramente, il benessere psico-fisico-sociale è condiviso, e i figli possono dunque diventare i re del consesso famigliare, ed essere al meglio coccolati e vezzeggiati».
Che fare, dunque, per evitare che a quindici anni ci si confronti con la propria (pressoché irrimediabile) ignoranza? La proposta della Mastrocola è semplice, lineare, concreta: «ragazzi, noi vi diamo una scuola dell’obbligo che per otto anni vi costruisce le basi solide della conoscenza, vi fa matematica, storia, geografia e letteratura, vi mette in grado anche di leggere un canto di Dante e capirlo (…), e poi liberi tutti! Scegliete pure di continuare così, oppure di fare un triennio di falegnameria o di informatica, e di studiare in stile esperienziale con i video, il teatro, la musica, i social network e le lavagne interattive: non ce ne importa più niente, noi le ruote della bici ve le abbiamo messe robuste, adesso pedalate un po’ dove vi pare, anche dall’altra parte del globo!». Eccola, la libertà di non studiare. È dopo la scuola dell’obbligo (che da noi, fra non molto, inizierà a quattro anni).
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Che ne sarà mai del DECS dopo il 10 aprile?
Si fa un gran parlare, di questi tempi, delle sorti del DECS dopo il 10 aprile. L’Uomo nero è in agguato e spaventa una parte degli elettori ticinesi. Dire DECS significa, per la maggior parte di noi, parlare della scuola pubblica. L’uscente ministro Gendotti passerà ai posteri come il capo dipartimento della storica votazione del 18 febbraio di dieci anni fa, quando l’iniziativa che mirava all’introduzione dell’aiuto finanziario dello Stato alle scuole private era stata bocciata col 74.1% dei voti. Ora in molti temono l’Uomo nero, che a quel tempo cavalcava indomito il cosiddetto nuovo che avanza e che fra poco più di un mese potrebbe diventare capo del dipartimento che dirige la scuola pubblica. Certo, è una circostanza plausibile, al di là delle evidenti contraddizioni, soprattutto se il PLR riuscirà a confermare i due seggi. In caso contrario si aprirebbero altri scenari. Cosa cambierebbe in concreto è difficile dirlo. È sicuramente più facile mutare il nome del dipartimento che trasformare tangibilmente la scuola, che tutto sommato funziona sulla base di alcune strutture organizzative immutate da decenni e decenni: un insegnante, un’aula scolastica, un certo numero di allievi, un calendario soggiogato dalle feste mobili e dai cicli solari, un sistema di promozione dominato da esami e note che tutto sono, fuorché neutri e scientifici.
Non si può ignorare l’importanza delle istanze politiche – Consiglio di Stato, Parlamento, Capo del dipartimento – nel tracciare le linee della politica scolastica. Ma altre istanze concorrono a disegnare la scuola e a caratterizzarla giorno dopo giorno, a sinistra, a destra e, più facilmente di quanto si pensi, come capita capita. La politica, per lo più, coordina, organizza, sancisce, legittima. Ma la vera politica scolastica la fanno i funzionari dipartimentali, gli insegnanti, le famiglie, la scuola magistrale, i sindacati, i partiti, facebook, i media, i centri di ricerca. Innumerevoli contesti influenzano le scelte, a volte senza che nemmeno ce ne accorgiamo: la demografia che tira o che frena, l’economia che cavalca vacche grasse o si fa trainare da quelle magre, le idee che circolano come venticelli e che sembrano sempre politicamente corrette. La scuola, come tutti i sistemi complessi, si riproduce per autopoiesi, vale a dire che ha la capacità di rigenerarsi mantenendosi immutata. Ciononostante negli ultimi quaranta o cinquant’anni la scuola – non solo quella ticinese, ovvio – sembrerebbe aver perso i suoi precipui scopi originari: insegnare a leggere, scrivere e far di conto, trasmettere delle conoscenze, educare così dei cittadini liberi. Senza ben sapere perché, anche la scuola ticinese è diventata quella dell’accordo di Bologna, coi suoi master e i suoi bachelor; anche da noi ha preso piede il primato del saper essere, del saper fare e dell’imparare a imparare, alla faccia del sapere e basta. Senza scordare che è in arrivo HarmoS, il noto accordo intercantonale sull’armonizzazione delle scuole svizzere, che influirà anche sulla politica scolastica del nostro cantone, con la scolarizzazione obbligatoria precoce, il plurilinguismo, gli standard, gli strumenti di pilotaggio. Tutto dev’essere armonizzato, da Ginevra a San Gallo, da Basilea a Lugano. Difficile dire se l’armonizzazione contribuirà a migliorare sul serio il profilo di conoscenze del popolo svizzero oppure se si finirà dalle parti di uno sgradito livellamento culturale (verso il basso). Tutto ciò, beninteso, non è di destra né di sinistra. È e basta. Più che strutture e regolamenti e accordi intercantonali, servono insegnanti preparati, consapevoli del loro ruolo, messi nella condizione di svolgere al meglio la loro professione: che è quella di insegnare. E servirebbe, con tanta urgenza, un po’ di chiarezza su ciò che gli insegnanti debbono insegnare. È in quest’ambito che le istanze politiche hanno un loro preminente dovere da assolvere.
Ma chi gliel’ha detto, a certa gente, di fare il professore?
Fortebraccio, corsivista dell’Unità di un tempo, scrisse che Mario Tanassi, il socialdemocratico italiano più volte ministro della vicina repubblica a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, aveva la fronte inutilmente spaziosa e che a causa della mancanza dell’oggetto non aveva mai avuto un mal di testa. La battutaccia mi è venuta in mente guardando su YouTube alcuni video un po’ citrulli che imperversano da qualche mese a questa parte, con la regia di qualcuno che, col motto «Goliardia imperat!», sigla delle sparate qualunquiste contro il Dipartimento della Formazione e dell’Apprendimento (DFA) della SUPSI. Questi candidati all’insegnamento, mi son detto, non possono certo soffrire di emicrania. Già lo pseudonimo che hanno scelto per curare la regia delle loro scemenze è tutto un programma: «Mongol & Battona», che la dice lunga sull’entità dei loro collegamenti cerebrali. Naturalmente si preoccupano di mettere le mani avanti, specificando che «Questo prodotto videoludico non vuole offendere nessuno, lungi da noi». Però, scemenza dopo scemenza, sparano a zero contro il DFA, contro la scelta del Cantone di pretendere due anni di abilitazione dopo il bachelor o dopo il master per insegnare nelle scuole cantonali, contro la direttrice del DFA e, in definitiva, contro la necessità di una formazione pedagogica per diventare insegnanti. Si intuisce che per loro le scienze dell’educazione sono materia facile facile per chi vuol fare il maestro dell’asilo o della scuola elementare, non certo per gente che ha frequentato nientepopodimeno che l’università. Loro “sanno le cose” e ciò è quanto basta.
L’insofferenza di taluni accademici nei confronti della formazione pedagogica è ormai una storia vecchia, anche se non può essere ricondotta al DFA. Nel 1974 il nostro Parlamento, dopo una battaglia lunga e, in parte, estenuante, votò le Legge sulla scuola media, che cancellava le scuole precedenti, vale a dire la scuola maggiore e il ginnasio. La prima era una buona scuola, nella quale i maestri insegnavano; la seconda era una scuola selettiva, il cui obiettivo dichiarato era quello di selezionare i migliori (o i figli dei notabili) per mandarli alla scuola superiore e, poi, all’università. Nella prima c’erano i Maestri, preoccupati di insegnare; nella seconda i professori, che venivano dritti dritti dall’università – fatta eccezione per gli ultimi anni del boom demografico, dove si reclutava il personale come viene viene. In quell’ormai lontano 1974 il parlamento fu costretto ad accettare un pesante compromesso affinché la rivoluzionaria legge passasse: la scuola media unificata, che sarebbe diventata una realtà qualche anno dopo, prevedeva, dopo un primo biennio identico per tutti, i famigerati livelli A e B, poi confluiti in forme di selezione meno appariscenti, quali i corsi di base o quelli attitudinali in alcune discipline. Il guaio fu che, dopo aver ingoiato il compromesso, la nuova scuola fu presidiata da una moltitudine insegnanti e direttori provenienti dal vecchio ginnasio: così che si finì per riconvertire i maestri della scuola maggiore in professori, invece che fare il contrario – e poco poté fare Franco Lepori, all’epoca capo dell’ufficio cantonale della neonata scuola, per fronteggiare i guasti dei politici, perpetrati con le loro nomine disinvolte. Sul nuovo DFA, che subentra in linea temporale alla magistrale seminariale, a quella post-liceale e all’ASP, ho le mie riserve e le mie preoccupazioni; credo che la tendenza tecnocratica sempre più dilagante non sta portando nulla di buono, anche se conviene, per il momento, attendere come saranno i nuovi diplomati. Per il bene dei futuri allievi e del paese, però, c’è da augurarsi che «Mongol & Battona» siano sonoramente bocciati, come si addice agli asini, prima che entrino nella scuola e comincino a fare danni. In caso contrario ne soffrirebbe anche la credibilità della nuova scuola magistrale: il DFA, appunto.
Insegnare la conoscenza a scuola non è un optional
Giusto dieci anni fa il Ticino era in piena campagna in vista della votazione sul sussidio alle scuole private, proposta poi respinta a furor di popolo. Anche adesso siamo in campagna, in vista di un’altra votazione. La chiamata alle urne di dieci anni fa era stata l’occasione per tornare a parlare di scuola, come non era più successo dai tempi del ’68, dopo oltre vent’anni di dibattiti attorno ad altri temi. Per tanto tempo il mondo in rapida trasformazione non aveva preoccupato più di tanto la scuola pubblica, almeno all’apparenza. Poi, di fronte all’attacco portato per una sorta di liberalizzazione del mercato dell’educazione e dell’istruzione, il paese ha ripreso a dibattere e a infervorarsi, per compattarsi e rimandare al mittente certe velleità di quel che all’epoca si chiamava «il nuovo che avanza». Oddio, la discussione era ruotata in gran parte attorno a temi parascolastici – mense, doposcuola, asili a orario prolungato – ma non era andata al nucleo di ciò che deve contraddistinguere il progetto dello Stato per l’educazione dei futuri cittadini, nel solco degli insegnamenti di Stefano Franscini. Tant’è che, dal 2001, il tema ha continuato a scadenze piuttosto regolari a far capolino tra le discussioni politiche; in vista, poi, del rinnovo del Consiglio di Stato del prossimo aprile, con la partenza del ministro della scuola Gabriele Gendotti, il richiamo ai valori espressi dieci anni fa in votazione popolare sembra rappresentare una giusta preoccupazione per diversi candidati.
Un interessante contributo è giunto ad esempio da Giacomo Garzoli, aspirante del PLRT al Consiglio di Stato, che ha scritto di recente (La Regione del 21.12.10): «L’educazione, da sempre, è il primo pilastro di una società sana, formata da cittadini-individui da cui, in ultima analisi, emana lo Stato. Lo Stato siamo noi, e noi siamo l’educazione che abbiamo ricevuto. Ecco perché la scuola pubblica è importante, perché deve trasmettere ad ognuno il valore della libertà e del rispetto verso uno Stato, il nostro, che grazie ai valori che riassume e rappresenta, ancora ci permette una qualità di vita invidiata in tutto il mondo». Tre giorni dopo, elogiando, gli ha fatto eco il parlamentare Franco Celio, peraltro uomo di scuola, precisando: «È in fondo il compito che le è stato affidato fin dai tempi del Franscini. L’istituzione della scuola pubblica non fu decisa solo per insegnare a tutti a leggere, scrivere e far di conto»: quell’avverbio – solo – preoccupa e fa riflettere, perché in realtà il rischio è che, di questi tempi, a quell’avverbio se ne sia sostituito un altro: neanche. Come dire: è giusto riaffermare con costanza l’importanza di una scuola pubblica forte e sana. Ma non tutto può essere ridotto in continuazione a nebulose dichiarazioni sulla democrazia e la libertà. Per essere cittadini educati, democratici e consapevoli l’istruzione è irrinunciabile. La perfetta conoscenza dell’italiano e della sua cultura – e poi, ma solo poi!, delle altre lingue – le necessarie competenze matematiche, alcune indispensabili conoscenze della storia, della geografia, delle arti, delle scienze naturali e sperimentali sono il piedistallo sul quale costruire l’educazione di cittadini responsabili, che siano davvero in grado di dimostrare coi fatti la solidarietà, la tolleranza, il rispetto, la partecipazione: insomma, per realizzare l’esercizio della democrazia. Invece si parla molto poco di questi aspetti fondamentali della scuola. Anche quando qualche analisi segnala problemi in quest’ambito – si vedano i diversi rapporti PISA – perdura la tendenza a gettare acqua sul fuoco, a minimizzare, a moltiplicare i distinguo.
C’è chi dice che Berlusconi, prima di darsi alla politica attiva, abbia istupidito il popolo italiano coi suoi canali televisivi insipienti, frivoli e volgari. Per fortuna noi non abbiamo nessun Berlusconi all’orizzonte, almeno per ora: ma i suoi canali TV hanno un grande indice d’ascolto anche da noi.
Perché non si insegna più a cantare?
«Riunire bambini a cantare senza cura alcuna dell’emissione della voce e dell’intonazione non è un’operazione lecita alla Scuola, che ha il compito istituzionale di insegnare la musica, in particolare il canto corale». È quanto ha scritto un lettore a La Regione lo scorso dicembre. Si riferiva a un concerto del coro «Voci Colorate» delle Scuole elementari di Bellinzona, che si era esibito domenica 19 dicembre nella Collegiata della sua città: una trentina di bambini, accompagnati da un’orchestra da camera e da un organo. Non ho assistito a quel concerto, ma non ho difficoltà a immaginare lo sconcerto del lettore. Per passione e per mestiere mi capita spesso di dover ascoltare qualche coro scolastico e pressoché ogni volta c’è di che irritarsi. Non parliamo poi della scuola media: lì non si canta del tutto, a parte le eventuali solite eccezioni, se esistono. Nella scuola elementare la disciplina si chiama «Canto e musica» ed è insegnata da un docente specializzato per 45 minuti alla settimana. I programmi stabiliscono chiaramente – in grassetto – che «Il canto rimane l’elemento centrale del programma e pertanto svolge una funzione insostituibile». Poi, però, in quei 45 minuti ci deve stare di tutto un po’: pratica strumentale, ascolto, ritmo e movimento, – e risparmio altri dettagli, senza però scordare che, in quei pochi minuti, spesso ci stanno altre attività salienti quali incollare la canzoncina sul quaderno, leggerla e decorarla con l’immancabile disegno. Nella scuola media ci si alza di grado: si fa «Educazione musicale», due ore settimanali in prima e seconda e un’ora in terza. Il programma è condensato in otto pagine fitte. Giunti al traguardo della terza media gli allievi saranno in grado di suonare, cantare, leggere semplici partiture, sonorizzare brevi racconti o filmati, e altro ancora. Teoricamente, quindi, di tutto e di più. Sapere è una parola di peso: in realtà si tratta di programmi velleitari, che si riducono nella realtà a qualche spilucco, a seconda delle inclinazioni e dell’interesse di ogni singolo insegnante.
Il Maestro Riccardo Muti, intervistato lo scorso mese di novembre da Fabio Fazio, ha affermato che a scuola, invece che insegnare il piffero che allontana i ragazzi dalla musica, sarebbe più opportuno insegnare la storia e l’ascolto della musica. I nostri figli, purtroppo, crescono nel frastuono massmediatico, fatto in gran parte di banalità. Non si tratta di demonizzare la musica leggera, ma è pur vero che è sempre più difficile rifuggire la musica commerciale, che inonda bar, ristoranti e negozi, studi medici, segreterie telefoniche, radio e TV, telefonini e aggeggi di comunicazione informatica. La conoscenza, almeno per sommi capi, della storia della musica rappresenta un tassello importante per la costruzione di una cultura indispensabile all’educazione dei cittadini, così come dovrebbero esserlo la conoscenza della storia, della letteratura, della filosofia e delle scienze, senza naturalmente scordare il pianeta delle emozioni: perché una sinfonia di Mozart è altra cosa rispetto a un rap di Eminem, a un pezzo dei Led Zeppelin e anche a un brano di Duke Ellington. A ciò aggiungerei, tra i fondamentali insopprimibili, il canto, che non significa semplicemente canterellare una melodia alla bell’e meglio e tentare di ripetere le parole di qualche strofa. Cantare vuole dire imparare a usare l’unico strumento musicale di cui tutti sono in possesso, altro che pifferi e strumentini simili. Cantare è dapprima la capacità di intonarsi (ascoltarsi) e produrre suoni «puri» attraverso precisi meccanismi di respirazione; poi è l’abilità di fare musica insieme ad altri, arricchendo ritmo e melodia con l’armonia: insomma, un gioco di squadra – ne hanno tanto bisogno, i nostri ragazzi, al di là dell’educazione musicale in sé. Insomma: poche cose, ma difficili e da affrontare col necessario rigore, invece di un’ammucchiata di intenti che, in uscita, non può che provocare una sorriso canzonatorio.