Archivi categoria: Fuori dall’aula – Rubrica del Corriere del Ticino

Ragazzini e cultura: il concerto dell’OSI per le scuole

Il concerto che l’Orchestra della Svizzera Italiana offre agli allievi delle scuole elementari ticinesi è una bella realtà ormai da diversi anni, un appuntamento primaverile sempre molto atteso. Quest’anno, inoltre, l’OSI ha voluto fare di più. Fino al 2009, in effetti, esso si svolgeva nella suggestiva cornice dell’auditorio «Stelio Molo» a Lugano-Besso: un posto importante con un’acustica sorprendente, ma naturalmente un po’ discosto per tante scuole grandi e piccole del nostro cantone. Nel 2010 si è voluto fare di più, malgrado i disagi organizzativi e i costi supplementari: come nella storia di Maometto e della montagna, a fine aprile l’OSI è andata in tournée nei quattro angoli del Cantone, permettendo a oltre 5’200 allievi di seguire il concerto di quest’orchestra che, per un bambino, può rivelarsi uno spettacolo ancor prima che svolazzi il primo accordo. Tra il 19 e il 22 aprile l’OSI ha replicato per quindici volte l’accattivante programma a Chiasso, a Bellinzona, a Locarno e, naturalmente, a Lugano. Sul podio il maestro Andrea Dindo, quarantacinquenne veronese con un’attività musicale intensa e internazionale, che ha proposto, in un’esibizione accattivante, un «Giro del mondo in otto danze» partito da Gioachino Rossini per atterrare ad Aaron Copland, con fermate intermedie a Wolfgang Amadeus Mozart, Johann Strauss, George Frideric Händel, Gabriel Fauré, Béla Bartók e Sergej Prokof’ev – per dire di un programma lontano le proverbiali mille miglia dai soliti stereotipi che, con molta puzza sotto il naso, limitano la musica classica per bambini a «Pierino e il lupo» e alla «Sinfonia dei giocattoli». Dal podio, però, bisogna saperci fare, e in questo senso il direttore d’orchestra ha mostrato eccezionali doti di divulgatore, instaurando un dialogo essenziale e nel contempo di grande chiarezza espositiva con il pubblico; ma anche coinvolgendo gli orchestrali in questo fantastico gioco: per chi è abituato a seguirli in occasione dei normali concerti per un pubblico di adulti, è risultato emozionante vedere dei solitamente compassati musicisti scatenarsi sulle note di «Hoe-Down» di Copland, con tanto di oboista prestato al lazo… Mi ha scritto il mo. Dindo: «per me è stato un impegno di grande importanza, mi sono presentato per la prima volta all’orchestra (e che orchestra!) con la responsabilità di ideare e realizzare un programma di alto valore pedagogico». Queste parole racchiudono tutto il valore del concerto dell’OSI per le scuole elementari, un consuetudine inaugurata anni fa dall’allora direttore artistico Pietro Antonini, che da due anni la nuova direttrice Denise Fedeli sta ampliando, dapprima con programmi suggestivi e avvincenti, ora con l’Orchestra che esce dalla sua sede istituzionale, affinché il costo dei trasporti per raggiungere Lugano non escluda a priori le scuole più discoste. Si tratta dunque di una proposta culturale di grande spessore, condotta con un impegno, una serietà e un rispetto verso questo pubblico di ragazzini che definire fuori del comune è quasi un eufemismo: poche blasonate orchestre e in poche grandi città offrono occasioni così. D’altra parte sarebbe bellissimo se Giovanni Galfetti e Franco Baroni, gli esperti di educazione musicale del DECS che collaborano con l’OSI, riuscissero a proporre degli itinerari didattici ad uso degli insegnanti titolari, così da ampliare l’evento. In effetti già il poter assistere al concerto è un’occasione straordinaria per seminare cultura; un grande valore aggiunto potrebbe scaturire da un’attività preparatoria, affinché gli allievi giungano in platea con qualche conoscenza in più. Non scordo mai che ho conosciuto Nikolaj Rimskij-Korsakov quando avevo quattro o cinque anni. La nostra maestra ci aveva raccontato la storia del «Volo del calabrone», l’avevamo disegnata e avevamo messo in scena una piccola danza sulle note del brano. Insomma: per un po’ di tempo il nome del compositore russo e la sua musica avevano ritmato le nostre giornate. Se il concerto dell’OSI riuscisse a fissarsi nei ricordi indelebili dei nostri allievi, avremmo compiuto fino in fondo un insegnamento di valore inestimabile.

È possibile valutare il lavoro degli insegnanti?

«Le contrôle du travail des enseignants: contribue-t-il à la professionnalisation de leur métier?» è il tema che sarà al centro del 1° colloquio internazionale sull’innovazione nei mestieri della formazione e dell’educazione, in programma a Ginevra a inizio giugno. Il tema è delicato, anche perché il mondo della scuola non è molto avvezzo al controllo. Vige per lo più un’attitudine auto-referenziale che, almeno sino a oggi, si è sempre rintanata dietro i discorsi un po’ sfuggenti sulle particolarità dello stare in classe con bambini e adolescenti, ognuno con la sua personalità, il suo potenziale cognitivo, le sue capacità di apprendere, il suo contesto familiare. Resta il fatto che, nella scuola, di solito ci si valuta addosso. Nel nostro cantone, dove si parla di vigilanza piuttosto che di valutazione vera e propria, sono essenzialmente due le figure tenute a occuparsi di tali compiti: l’ispettore nelle scuole comunali e l’esperto di materia in quelle cantonali. Nondimeno ormai da qualche decennio non è più ben chiaro, in questo miscuglio di vigilanza e valutazione, chi fa cosa, come, quando e perché. E con quali effetti pratici. Non è un caso se gli insegnanti, che valutano i loro allievi dalla mattina alla sera, sono sempre stati refrattari a valutazioni, qualifiche e classi di merito, anche perché – ma non solo – giudicare la qualità del lavoro di un insegnante non è una bazzecola. Jean Piaget ha affermato che «l’insegnamento è arte altrettanto quanto scienza»: si capisce come sia facile misurare la parte “scientifica” della professione, mentre è ben più arduo coglierne gli aspetti “artistici”. Anche quando parliamo di quel maestro che si è impresso indelebilmente nella nostra mente di allievi del bel tempo andato, fatichiamo a staccarci da concetti come carisma, passione, dono naturale, vocazione: e come si fa a esprimere un apprezzamento oggettivo su attitudini di questo tipo?
In margine al congresso di Ginevra, la rivista «Éducateur», edita dal sindacato degli insegnanti romandi, ha pubblicato un interessante dossier nel numero uscito a inizio maggio. Scrive Dominique Sénore, professore a Lione: «Prima di tutto bisogna essere chiari! Nella scuola della Repubblica il principio del controllo del lavoro degli insegnanti mi sembra pienamente legittimo. In effetti è normale de jure, e senza dubbio indispensabile de facto, che lo Stato si accerti della competenza, della coscienza e delle capacità dei suoi operatori». Lo stesso ragionamento devono averlo fatto anche gli ispettori scolastici ticinesi, che da oltre due anni sono alle prese con il «Profilo professionale per i docenti delle scuole comunali», un documento che dovrebbe diventare il necessario punto di riferimento per tutti gli operatori, una sorta di elenco sistematico e analitico dei compiti del maestro, che servirebbe pure da base per la valutazione del loro lavoro. Il problema, come spesso accade, è che della definizione piagetiana si privilegiano i lati più visibili, quelli “scientifici” e più facilmente misurabili, mentre degli aspetti per così dire artistici non v’è traccia. Per fortuna il problema del controllo degli insegnanti non è circoscritto al nostro cantone. Così è interessante leggere nello stesso numero dell’«Éducateur» le parole del presidente della Société Pédagogique Vaudoise, affiliata al sindacato romando: «Le associazioni professionali avrebbero molto da guadagnare in termini di credibilità se non respingessero ogni processo di valutazione drappeggiandosi con le virtù del sindacalismo duro e puro». Si tratta di un’apertura molti significativa, soprattutto in considerazione del pulpito. Credo tuttavia che, per prima cosa, sarà necessario liberarsi della tradizione secondo cui i controllori (ispettori, esperti di materia, direttori) siano anch’essi un po’ artisti e un po’ scienziati, soprattutto quando valutano e qualificano: ci sono altre strade praticabili, più trasparenti e oggettive. Vedremo se questo colloquio internazionale di Ginevra sarà in grado di dare qualche risposta convincente ai tanti quesiti che sono sul tavolo. Perché in qualche modo bisognerà pure uscirne, prima che qualcun altro si metta a dar le note alla Scuola.

L’educazione civica nei tempi della scuola-supermercato

Il filosofo Franco Zambelloni si è soffermato recentemente sulla caduta libera del «senso civico» nella nostra società («il caffè», 2.5.2010). Senza entrare nel merito delle «tante cause che hanno concorso al deterioramento del civismo, perché sono tutte note», Zambelloni osserva che il «prevalere dei diritti e la dimenticanza dei doveri ha fatto eclissare la figura del cittadino. In sua sostituzione è emersa la figura dell’utente. Non è un cambiamento da poco: per un cittadino lo Stato è fonte di diritti e doveri al contempo; per un utente, lo Stato è solo un dispensatore di servizi che ciascuno ha il diritto di pretendere». Una conclusione cinica, ma che riflette bene una realtà sconsolante. Anche nella scuola, purtroppo, si sente sempre più spesso parlare di allievi-utenti, così come con altrettanta pervicacia si sta trasformando la scuola in un grande magazzino ove, accanto ai tradizionali prodotti del settore – leggere, scrivere, far di conto… – è facile trovare nuovi gadget acchiappa-clienti: dalle refezioni ai doposcuola, oltre a una vasta gamma di prodotti adatti alle più svariate educazioni (sessuale, ecologica, alimentare, stradale, ambientale); e poi lingue di ogni origine e spendibilità, curricoli informatici, concimi per una crescita rigogliosa dell’intelligenza emotiva, e via elencando. Ha scritto Philippe Meirieu: «La scuola non è un servizio, ma un’istituzione. Cos’è un servizio? È un organismo che “rende delle prestazioni” a un insieme di persone. La Posta è un servizio, così come l’amministrazione della rete stradale. Ora, in una repubblica devono esistere almeno tre organismi che sfuggono alla logica del servizio: la giustizia, l’esercito e l’educazione. Queste sono delle istituzioni. (…) L’educazione, nel periodo della scolarità obbligatoria – vale a dire nel momento cruciale in cui lo Stato decide di scolarizzare tutti i bambini e di garantire loro un’uguale istruzione – deve obbedire a valori specifici. Essa non ha la vocazione di essere il campo chiuso della concorrenza sociale. Chiedere alla scuola di soddisfare l’ambizione individuale di ognuno, significa condannarsi alla scuola-supermercato» (L’école ou la guerre civile, 1997).
Certamente la logica della scuola-emporio è stata favorita, negli ultimi 30/40 anni, da una presuntuosa voglia di onnipotente tuttologia, che ha fatto credere a molti di essere in grado di muoversi sui fronti più disparati. Così la scuola ha sacrificato sull’altare delle discipline in apparenza meglio spendibili una gran quantità di materie “inutili”, quali la storia, le arti, la speculazione intellettuale: insegnamenti senza i quali è assai difficile costruire il senso civico. Per riprendere l’articolo di Zambelloni, «il senso civico ha una precisa radice culturale: l’appartenenza a una comunità. Solo quando si ha una chiara coscienza di appartenere ad un gruppo sociale se ne condividono le regole, le si rispetta e si vuole che siano rispettate». Ma c’è di più. Stando a numerosi studi, alcuni dei quali assai noti, sembrerebbe che anche nei campi più tradizionali – come insegnare a leggere e scrivere – la scuola odierna non sia più così in gamba. E allora, posti di fronte a necessità di educazione e apprendimento sempre più complesse e numerose, si dovrà prima o poi ripensare al ruolo e alla formazione degli insegnanti, ai quali non si può attribuire integralmente il decadimento attuale. A partire dalla seconda metà degli anni ’80 si è scelto di terziarizzare la loro formazione: non è però chiaro, parafrasando Edgar Morin, se i maestri di oggi siano “ben pieni o ben fatti”. Le nuove generazioni di insegnanti, in ogni caso, non sembrano più efficaci e professionali di quelle precedenti. Quella del docente è rimasta nei secoli una professione strutturalmente imbalsamata: lo si diventa una volta per tutte e, salvo rari colpi di fortuna, non vi sono possibilità di carriera e di differenziazione dei ruoli: un caso forse unico nel panorama delle professioni del XXI secolo.

Armonizzazione scolastica alla ticinese

È plausibile ritenere che l’accordo intercantonale sull’armonizzazione della scuola obbligatoria, più noto come HarmoS, diventerà del tutto operativo a partire dal 2016. Come riferisce la CDPE, la conferenza dei direttori dei dipartimenti dell’educazione di tutta la Svizzera, HarmoS entrerà in vigore a partire dal momento in cui sarà stato ratificato da dieci Cantoni e si applicherà quindi a quelli che l’avranno accettato. A quel punto i Cantoni avranno sei anni per adattare le loro strutture (limiti di età per accedere alla scuola, durata del grado di insegnamento) e per mettere in pratica gli standard di formazione. Tenuto conto che le adesioni sono già state dodici, manca dunque poco, molto poco, all’orario di partenza. Cosa stia facendo il nostro Dipartimento in vista dell’accordo è ancora, almeno per il momento, un enigma. Si sa solo che il limite di età per accedere alla scuola sarà gradualmente ridotto di un mese all’anno, così da passare, entro l’anno scolastico 2016/17, dall’attuale 31 dicembre al 31 luglio patteggiato. Poca cosa, insomma.
Intanto lo scorso 31 marzo, a Bellinzona, vi è stato un incontro di presentazione e discussione degli standard di formazione. Essi «descrivono le competenze fondamentali che i nostri giovani devono acquisire nella lingua di scolarizzazione, nelle lingue straniere, in matematica e scienze naturali, indipendentemente da dove vanno a scuola. Gli standard di formazione equivalgono pertanto a obiettivi d’insegnamento nazionali». Da Berna è giunto in quel di Bellinzona Olivier Maradan, il segretario aggiunto della CDPE, che in una cinquantina di minuti ha illustrato i punti essenziali degli standard in consultazione, sintetizzati in una documentazione che sfiora le quattrocento pagine. Poi i partecipanti a quel pomeriggio – associazioni di insegnanti e di direttori di scuole, organizzazioni dei genitori, rappresentanti dei settori scolastici post-obbligatori, associazioni di datori di lavoro e di lavoratori e altri ancora – hanno potuto tentare una prima entrata in materia, ripartiti in gruppi che si sono alternati con alcuni funzionari del nostro dipartimento. Questi avrebbero dovuto chiarire, spiegare, rispondere almeno ai quesiti più immediati. Il condizionale è d’obbligo, perché, in realtà, ho avuto almeno l’impressione che gli “inviati speciali” del DECS non padroneggiassero del tutto il ponderoso dossier, tanto da non riuscire a soddisfare in modo dignitoso le tante legittime preoccupazioni: a eccezione, pare, della tappa gestita dallo stesso Maradan, che mi è stata negata dal preciso piano di rotazione. Ora tutti i partecipanti, così come i dipartimenti cantonali, avranno tempo – si fa ovviamente per dire – fino al 31 luglio per consegnare la loro presa di posizione al segretariato generale della CDPE, che coordina l’attivazione di HarmoS.
A questo punto, però, la situazione è inquietante. Senza entrare nel merito, almeno per ora, di questi nuovi obiettivi d’insegnamento nazionali, ci si può chiedere come si intenda procedere per accordare i programmi dell’odierna scuola dell’obbligo con gli standard, senza scordare che per i primi due anni della nuova obbligatorietà – cioè dai quattro ai cinque anni – non c’è nulla da accordare, ma tutto da creare. A meno che il piano segreto non sia quello di lasciar tutto com’è, delegando poi ai singoli istituti scolastici il compito di trovare le strade migliori per adeguarsi ai nuovi obiettivi. A quel punto, insomma, ci verrebbe servito un accordo nazionale in salsa ticinese, ciò che non giustificherebbe tutto l’inchiostro versato e le tante ore di lavoro prodotte in questi ultimi tre anni. Per farla breve, c’è da augurarsi che si tratti solo di un sospetto e che nelle segrete stanze del DECS si stia ideando e progettando nei più minuti dettagli una nuova scuola, più efficace e, soprattutto, più armoniosa. Così come appaiono le cose, sembra che quasi tutto sia stato detto, mentre quasi tutto sia ancora da fare, in tempi brevissimi.

Qual è il numero ideale di allievi per classe?

La scuola ticinese è inerte perché ha troppi allievi per classe. La loro riduzione è «la misura cardine per permettere una svolta positiva» contro «l’immobilismo progettuale nel settore della scuola dell’obbligo». Lo ha detto la VPOD Docenti, come ha riportato La Regione del 27 marzo, mentre il concetto era già stato ribadito in precedenza dal segretario della VPOD Raoul Ghisletta, che, in un articolo pubblicato dal foglio bellinzonese (23 marzo), mi aveva messo alla berlina con Diego Erba, poiché entrambi saremmo colpevoli di «dormire sugli allori» e di attuare una politica suicidaria «per la scuola pubblica e soprattutto per la società ticinese». Tuttavia ricondurre l’immobilismo della nostra scuola al numero di allievi per classe è, a dir poco, un luogo comune un po’ stantio. Per chiarezza: non sono sic et simpliciter contro la riduzione del numero di allievi per classe. Reputo però che una diminuzione lineare e generalizzata sarebbe controproducente e superflua, per diverse ragioni sulle quali mi sono già chinato. Semmai, ancor prima di chiedere riforme strutturali sui generis, converrebbe esaminare quali sono gli spazi che già l’attuale legislazione concede, almeno a parole. Vediamo. Le regole in vigore stabiliscono che le monoclassi possono avere da un minimo di 13 a un massimo di 25 allievi, ma indicativamente tra 20 e 25. Aggiungono pure che il dipartimento può autorizzare o imporre deroghe ai parametri indicati quando le caratteristiche socioculturali degli allievi richiedono un’assistenza particolare. Qui sta semmai la duplice spregiudicatezza del DECS, che ha solitamente come punto di riferimento il massimo degli allievi e che mai ha considerato la necessità di considerare l’importanza delle caratteristiche socioculturali degli allievi, che in nessun caso si ripartiscono equamente in ogni istituto del cantone. L’ho già scritto in questa rubrica: «l’equità numerica di una classe dipende soprattutto dalle caratteristiche individuali di ogni allievo e dalla natura degli obiettivi che si perseguono. Definire un numero tot di allievi per ogni classe da Airolo a Chiasso a prescindere dalle differenze che sussistono da una sede scolastica all’altra è un po’ come decidere che tutti dobbiamo pagare le stesse imposte: cioè un’ingiustizia» (7.10.09).
Di ammuffita, invece, sembra esserci proprio la questione del numero di allievi per classe, che si affaccia alla ribalta a scadenze regolari, benché negli anni esso sia concretamente calato senza portare chissà quali successi sul piano della riuscita scolastica degli allievi più iellati. Ben altri sarebbero invece i correttivi da invocare per modificare una struttura scolastica immutata sin dal XIX secolo e copiata pari pari dalle prime scuole dei preti: un’aula, un maestro e un gruppo di allievi. La blasonata scuola finlandese, che Ghisletta evoca così spesso, offre ben altre caratteristiche che contribuirebbero a migliorare anche la nostra scuola. Intanto la Finlandia applica per davvero una politica mirata di aiuto alle scuole, a dipendenza delle loro peculiarità. Poi, solo per fare qualche esempio, le note fanno la loro prima apparizione dopo la scuola dell’obbligo; la ripetizione di classe non esiste; accanto ad alcune discipline obbligatorie, ogni allievo ha un discreto margine di manovra per scegliere altre materie che completano il suo curricolo; le ore settimanali di lezione sono una ventina a 7 anni e arrivano a 30 con l’accesso al liceo. Ma, soprattutto, si reputa che l’esigenza di un forte richiamo ai valori morali e umanistici non debba ridursi a mera enunciazione legislativa, da sacrificare giorno dopo giorno sull’altare della trasmissione di conoscenze e di competenze mirate all’inserimento nel mondo del lavoro: tutte cose che ho già scritto in questa rubrica (24.10.08). Per il resto, checché ne dica Ghisletta, se fossi capo della divisione della scuola del DECS avrei ben altre visioni. Ma sono solo un direttore di scuola comunale.