Archivi categoria: Fuori dall’aula – Rubrica del Corriere del Ticino

La scuola dell’obbligo tra memoria e cambiamenti

Le scuole comunali stanno vivendo cambiamenti molto significativi. Tanto per dire, HarmoS ha spostato indietro di due anni l’inizio della scuola obbligatoria e ha generato dei nuovi piani di studio, che non si limitano a precisare e completare materie di studio e obiettivi specifici, ma propongono pure una specie di rivoluzione copernicana dell’approccio didattico, con le competenze trasversali e i contesti di formazione generale. Insomma, non certo minuzie. Parallelamente è in atto un ricambio generazionale di dimensioni incredibili, tanto che anche il DFA ha dovuto riorganizzare il percorso di formazione dei futuri maestri per affrontare la grave penuria di insegnanti, soprattutto di scuola elementare. Tra le tante mutazioni non si può sorvolare sulla riorganizzazione dei quadri direttivi: da un lato stanno diminuendo gli ispettori, che sono altresì confrontati con un riesame dei loro compiti; dall’altro i direttori hanno ereditato le mansioni tolte agli ispettori e sono notevolmente cresciuti di numero: oggi sono una sessantina, e coprono la totalità degli istituti scolastici comunali, un centinaio tra grandi e piccoli.

Sarà curioso vedere come questa macchina così complessa riuscirà a gestire i tanti cambiamenti, per garantire alla scuola dei comuni il suo buon livello educativo e formativo, assieme a quell’ambiente sereno che ha distinto la storia secolare di un’istituzione radicata nei paesi, nei borghi e nei quartieri: perché siamo di fronte a modifiche di sostanza, mica a un tenue maquillage. Non sarà facile mantenere la barra al centro, anche perché in tempi assai brevi andrà perduta quella memoria storica così tipica di ogni istituzione umanista e intergenerazionale, di cui la scuola dei comuni è senz’altro una testimonianza esemplare. Mi ha molto colpito l’intervista al direttore delle scuole di Massagno pubblicata da «La Regione» circa un mese fa: Fabrizio Quadranti, che andrà in pensione dopo quarant’anni di attività, ha raccontato due «cose» importanti, due cose che non si possono dimenticare. «Da allievo – ha raccontato – ebbi come docente un grande rivoluzionario, e per me fu una fortuna. Arrivò il primo allievo straniero, Fernando, uno spagnolo, e il maestro mi disse fallo copiare, che così impara». È un principio pedagogico di estrema potenza, anche se la scuola fa spallucce sempre più spesso. È un principio che contribuisce a educare e facilita la comprensione e l’acquisizione di conoscenze e competenze. È un principio che mette al primo posto il vero compito del maestro, quello di educare insegnando. È un principio di cui curarsi con tanta attenzione, perché soffre già molto per le incessanti valutazioni, tempo rubato al fare scuola.

Per chiudere il colloquio col giornalista, Quadranti si è rivolto ai maestri, esortandoli «a parlare sempre all’ultimo della classe», perché «come diceva don Milani, una scuola che si cura solo dei bravi allievi è come un ospedale che cura i pazienti sani». Non sono un passatista, ma è doveroso custodire i fondamenti della scuola e dell’educazione. Sarebbe un peccato mortale se le grandi tensioni etiche che hanno caratterizzato tanta storia della pedagogia finissero nel tritatutto di certo utilitarismo purtroppo di moda. Perché fare scuola, e farla bene, è sì questione di cultura e di competenze professionali: ma prima di tutto servono rispetto, tenacia e una giusta dose di utopia, per credere che ognuno ce la può fare, anche se è nato senza la camicia.

La scuola, la religione e i giochini della politica

Parliamo nuovamente di scuola e religione. Anche se ai più non interessa, qualche giorno fa il parlamentare radicale Matteo Quadranti ha ritirato l’iniziativa che chiedeva l’insegnamento della storia delle religioni, un atto parlamentare radico-socialista che aveva ereditato nel 2011, quando entrò in Gran consiglio. Raccontano le cronache che a Quadranti abbia dato molto fastidio che la Commissione scolastica «stava optando per un sistema misto, che non era quanto proposto dall’atto parlamentare». L’uso dell’aggettivo «misto» è certamente retorico, se solo si pensa, per fare un esempio, che il suo collega di partito Giorgio Pellanda appoggia convinto il sistema misto: cattolici e protestanti continuano con le loro ore di catechismo dentro la scuola pubblica, mentre chi non sceglie né l’una né l’altra va obbligatoriamente al corso di storia delle religioni. Non è naturalmente quel che auspicava nel 2002 chi propose di sopprimere le ore di religione cattolica ed evangelica, a favore di una soluzione più moderna.

Va da sé che l’inatteso arretramento non ha lasciato indifferenti altri parlamentari della Repubblica. A Fiorenzo Dadò, capogruppo PPD, la mossa di Quadranti dev’esser sembrata una specie di visione, tanto che ha subito dichiarato di voler tenere in vita il sistema misto, che strizza l’occhio ai voti cattolici: «Il tema è centrale e si rivolge ai nostri giovani. Di fronte a quanto avviene nel mondo è fondamentale che nel corso della formazione scolastica i giovani abbiano l’opportunità di conoscere tutte le sfaccettature della nostra cultura, e le religioni sono un fattore importante per sviluppare una maggiore conoscenza. Come politici non possiamo chiamarci fuori: è nostro compito dare alla gioventù gli strumenti per affrontare le sfide che si presentano davanti a noi e che sono sotto gli occhi di tutti. Si tratta di sfide culturali che determineranno la costruzione della nostra società futura. Il sistema misto permetteva di andare in questa direzione, tenendo conto di tutte le sensibilità, indipendentemente dal fatto che uno sia credente o meno».

Pare indubbio che il nostro non sia un paese maturo per fondare uno Stato laico, al di là di chiacchiere e ipocrisie sempre più diffuse. Temo che dietro le resistenze della chiesa cattolica, che difende a spada tratta la presenza dei suoi catechisti dentro le griglie orarie della scuola dell’obbligo, non vi siano solo delle ragioni di Fede, ma anche interessi più profani. D’altro canto la scuola pubblica e obbligatoria (e laica solo a tempo perso) non riesce più a educare per davvero i suoi cittadini, se è vero che le percentuali dei votanti si avvicinano viepiù a quelle di chi frequenta i corsi di religione a scuola (che son comunque più di quelli che vanno in chiesa). Non è con i corsi confessionali o la storia delle religioni che si educa al rispetto, così come non è attraverso l’insegnamento dell’educazione civica che si formano «persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà».

A una scuola sempre più tecnocratica, che rischia di crescere schiere di idioti specializzati, continuo a preferire che si insegnino i linguaggi fondamentali per conoscere e capire il mondo: la lingua e la matematica in testa, e poi le arti e le tante discipline che hanno sin qui contribuito a portarci nel XXI secolo, ben oltre le insensate selezioni che ritmano con perfidia gli anni scolastici.

A che serve insegnare (e imparare) la Storia?

Una volta, per incitare gli studenti a studiare la storia, s’usava una frase di Cicerone – Historia magistra vitae – che in verità, nella versione originale, è più dettagliata: «La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità». Oggi non s’usa più. Lo studio della storia ha subito negli ultimi cinquant’anni una pesante svalutazione. E c’è chi vorrebbe toglierle ancora qualche ora di lezione, per fare spazio all’educazione civica, come se la storia non fosse di per sé una componente fondatrice del cittadino educato, critico, aperto, consapevole e tollerante.

Così l’ignoranza offre a qualsiasi briccone occasioni per piegare il passato ai propri comodi. È quel che denuncia senza mezzi termini Dick Marty in un articolo apparso qualche giorno fa su La Regione (La storia alterata, 4 gennaio). Marty punta il dito sull’ampia rievocazione della battaglia di Marignano che i media e molti politici hanno dato nel 2015, a 500 anni dalla disfatta degli svizzeri da parte di Francesco I e dei veneziani. «La distorsione e la manipolazione della storia – ha scritto – non sono fatte di sole mezze verità tramutate in miti, ma anche di silenzi su avvenimenti che non rientrano nella tesi che si vuole dimostrare». E ha aggiunto: «Le interpretazioni di Marignano possono divergere. Ma se si vuol parlare di neutralità non si può farlo senza accennare al Congresso di Vienna, il cui bicentenario è stato abbondantemente dimenticato. Un oblio non casuale» dato che «quanto deciso e imposto a Vienna non rientra nella leggenda del popolo fiero, pienamente sovrano che non ha bisogno degli altri e non deve niente a nessuno, come sostengono i populisti nostrani.»

Nei giorni dalle festività mi sono imbattuto in un altro importante contributo che (ri)abilita la storia e la sua capacità di essere maestra di vita. Patrick Boucheron è uno storico, specialista dei comuni italiani nel Rinascimento. Ha ottenuto recentemente la cattedra di Storia dei poteri nell’Europa occidentale al prestigioso Collège de France, e il 17 dicembre ha tenuto la sua lezione inaugurale, «Cosa può fare la Storia?», con alcune risposte: uscire dal suo pessimismo, rompere con l’idea delle fini (delle ideologie, della storia, della politica), riattivare l’idea di progresso, riconciliare l’erudizione e l’immaginazione.

«Un mese fa – ha esordito – sono tornato a Place de la République, assieme a tanti altri, increduli e tristi». Tra i fiori, le candele, i bigliettini, ha visto una pagina strappata da un quaderno scolastico. Qualcuno aveva ricopiato una citazione di Victor Hugo, «Fiat lux!», che rimanda a un passaggio dei Miserabili: «Il grido: Coraggio! è un Fiat Lux. Perché l’umanità progredisca è necessario che vi siano in permanenza, sulle cime, fiere lezioni di coraggio. Le temerarietà abbagliano la storia e sono una delle più grandi sorgenti di luce dell’uomo: l’aurora osa, quando si leva. Tentare, sfidare, persistere, perseverare, essere fedele a se stesso, ghermire in una lotta a corpo a corpo il destino, stupire la catastrofe colla poca paura che ci fa». Stupire la catastrofe!

Ha scritto il Nouvel Observateur che, secondo Boucheron, nulla è più letale che usare la Storia, una storia immobile, per creare lezioni di disperazione. «Nessuno può sapere cosa accadrà nel divenire. Ma ognuno capisce che per percepire il domani bisognerà essere calmi, diversi, ed esageratamente liberi».


Nel sito del Collège de France è possibile ascoltare e vedere la lezione inaugurale di Patrick Boucheron oppure scaricare il video o l’audio: «Ce que peut l’histoire», 17 décembre 2015, Leçon inaugurale à l’Amphithéâtre Marguerite de Navarre – Marcelin Berthelot (l’intervento inizia all’ottavo minuto).

Qui, inoltre, si può leggere integralmente il passaggio dai Miserabili citato nell’articolo.

Un’etica per la scuola e una deontologia per gli insegnanti

Al di là di un certo fervore riformista e d’un dinamismo concitato, sembrerebbe che mai come oggi la scuola sia avvolta da una nebbia fitta, che impedisce di intravedere il cammino da percorrere. Da diverso tempo, ormai, si fa fatica a trovare il filo del discorso, a capire se la scuola sia (ancora) al servizio del Paese, nel difficile progetto di educare futuri cittadini democratici, cólti, dotati di spirito critico, amanti del bello e del rispetto; oppure se la precedenza sia assegnata all’economia e alla produttività, con lo sforzo di fornire le necessarie competenze e, nel contempo, orientare e selezionare i lavoratori di domani. Ma la scuola non è un’impresa, nell’accezione economica del termine. In nessun caso, anche se la condivisione è sempre più vaga e sfilacciata, la scuola deve produrre utili immediatamente spendibili, al di là degli slogan un po’ logori sull’educazione come investimento per il futuro: perché bisognerebbe mettersi d’accordo sulle sue finalità, dato che le mie, per dire, sono diverse da quelle del CEO di una qualsiasi impresa «too big to fail».

Ridotto all’osso, è forse questo il quadro generale che ha indotto il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI e l’Istituto universitario federale per la formazione professionale a organizzare, lo scorso 25 novembre a Locarno, il convegno di studio intitolato «Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico per l’insegnante?». In un’aula magna gremita, il tema è stato trattato da alcuni punti di vista essenziali. Il filosofo Fabio Merlini ha esposto i quesiti del convegno, muovendo, in particolare, dalla sempre più debole legittimazione sociale della scuola, per chiedersi se non sia necessario e urgente riconoscersi in un’etica condivisa. Dick Marty ha proposto una testimonianza su etica e società, con una conclusione ovvia quanto per nulla scontata: i cittadini consapevoli, con un’alta tensione etica, devono essere formati, perché consapevoli non si nasce.

Eirick Prairat, docente di filosofia dell’educazione all’università della Lorena, ha affrontato il tema con un accenno specifico alla funzione moralizzatrice dei docenti, che sono al servizio di una cultura per la costruzione della cittadinanza. Silvano Tagliagambe, filosofo ed epistemologo, ha messo a fuoco il codice deontologico dell’insegnante, sottolineando alcuni vincoli, che rappresentano confini chiari e ineluttabili: imparare è un processo lento, che non ammette scorciatoie, e l’insegnante deve avere la capacità di prendersene cura e di coltivare invenzione e creatività, dentro un sistema formativo aperto e dinamico, tenendo costantemente presente che la scuola è anche il luogo del dialogo tra generazioni diverse. Infine Marcello Ostinelli, docente-ricercatore al DFA, si è soffermato sull’ambiguità di quel ruolo, sempre in bilico tra valori interni, determinati dalle caratteristiche intrinseche della professione, e valori esterni, ricavati dall’interpretazione personale del contesto sociale e politico entro cui si esercita la professione.

È stato un convegno di elevato livello. Ora è necessario che non restino solo quello e gli atti che sono stati promessi. È importantissimo rilanciare l’etica per la scuola, che non può toccare solo docenti e dintorni, ma deve interessare l’intera nostra società, compresi quei politici che, ogni tanto, pur sapendo solo pressappoco di cosa stanno parlando, riescono ad approvare leggi inutili e a volte pure dannose. Fermarsi ora, infatti, non sarebbe eticamente accettabile: sarebbe come gettare il convegno alle ortiche.

Insegnamento della religione in Ticino: la storia infinita

Il meno che si possa dire è che il tema dell’insegnamento della religione sta diventando una storia infinita, come se nella scuola pubblica non esistessero problemi più importanti. Lasciando perdere talune controversie di stampo vagamente ottocentesco, la spossante contrattazione tra Stato e chiese dura ormai da molti anni, benché il tema, in una Repubblica moderna e laica, dovrebbe essere prerogativa assoluta della politica.

Tanto per ravvivare la memoria: nel marzo del 2002 il parlamentare liberalsocialista Paolo Dedini aveva chiesto di sopprimere dalle griglie settimanali l’ora facoltativa di insegnamento religioso, accordata alle due chiese riconosciute, e di sostituirla invece con l’insegnamento «della storia delle religioni, dell’etica e della filosofia nel rispetto delle finalità della scuola».

Dato che il nostro è un paese esagerato, dove i messaggi partitici vanno sempre soppesati col bilancino dello speziale, ecco in dicembre una nuova iniziativa parlamentare, stavolta sottoscritta da un gruppo di gran consiglieri del centro-sinistra, capeggiato da Laura Sadis.

Mentre Dedini richiamava il valore fondamentale e insopprimibile di una visione umanistica della società, il nuovo atto parlamentare sottolineava come «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana negli studenti delle scuole pubbliche ticinesi è sempre più generalizzata ed evidente». E buttava sul tavolo la proposta: «In tutte le scuole è impartito un corso di cultura religiosa». Va da sé: in questi quasi tre lustri è successo poco, salvo la sperimentazione di qualche modello alternativo in alcune sedi di scuola media, corredata dall’immancabile valutazione da parte della SUPSI.

È invece di questi giorni, apparsa su questo giornale, un’articolessa del deputato PLR Giorgio Pellanda. Uno concreto, come si dice. Premette che la riflessione trae linfa anche dalla sua condizione di ex docente. Poi precisa la propria credenza confessionale cattolica e chiarisce la consapevolezza «di esprimere il pensiero di tanti ticinesi agnostici o atei che tuttavia riconoscono nelle nostre radici cristiane un auspicato nutrimento spirituale per la pace sociale». Infine cala l’originale disegno di legge, che farebbe contenti tutti: cattolici e protestanti continuano con le loro ore di catechismo dentro la scuola pubblica, mentre chi non sceglie né l’una né l’altra, va obbligatoriamente al corso di storia delle religioni – una sorta di «liberi tutti», che accontenta però solo chi dice di credere nelle religioni di stato.

Sarebbe molto più logico se il catechismo le chiese se l’organizzassero in parrocchia. E non vedo nemmeno chissà quale bisogno di inventare una nuova disciplina, la storia delle religioni.

Nell’ambito delle materie che appartengono ai piani di studio c’è già tutto quel che serve per sconfiggere «l’ignoranza dei sia pur minimi elementi di cultura cristiana» menzionata dalla proposta di Laura Sadis. Ci sono i valori dell’umanesimo e della ragione, e di radici cristiane, lì, ce n’è in abbondanza.

Basterebbe trattare in maniera appassionante e rigorosa la letteratura e la poesia, la musica e la pittura, le arti tutte e la storia del pensiero, compreso quello matematico e scientifico. Il resto è solo finzione, genuflessa ai piedi di un cerchiobottismo parlamentare che perdura da troppi anni. Siamo una terra di fervidi credenti, a condizione che l’omelia sia breve e che i dieci comandamenti siano a geometria variabile.