Ammetto che ho sempre fatto fatica a intendere come mai l’insegnamento della storia sia stato tanto deprezzato durante la lunga stagione delle riforme scolastiche avviata quasi mezzo secolo fa. Nel dicembre del 2007 «Discours Suisse», un progetto sostenuto dalla Confederazione, aveva segnalato che «Nella maggior parte delle scuole di tutte le regioni linguistiche l’insegnamento della storia svizzera viene trascurato». A dirla tutta a esser trascurato è semplicemente l’insegnamento della storia, prima che di quella svizzera, come se la capacità di storicizzare una qualsiasi realtà fosse una competenza di niuna importanza. È però facilmente comprensibile che il tentativo di capire il presente in una prospettiva storica contribuisce ad avere una testa ben fatta, capace di pensare: può dare fastidio. Tant’è. La nostra scuola media prevede la dotazione di due ore settimanali di insegnamento, per intenderci un’ora in meno della ginnastica (pardon: dell’educazione fisica), col rischio concreto che in tempi brevi il tempo a disposizione sia ulteriormente decurtato, per far posto all’educazione civica, materia che, secondo un’iniziativa popolare ancora in attesa di discussione formale e di verdetti, dovrebbe diventare disciplina a sé stante, con tanto di nota sul libretto, e con uno spazio nella griglia oraria della scuola media rapinato proprio alla storia, che è un po’ come dire che la storia e l’educazione alla cittadinanza non hanno nulla a che fare l’una con l’altra.
A dispetto del quadro poco inebriante, soprattutto per chi è sul campo, il DECS non ha desistito ed è andato all’attacco, promovendo la pubblicazione di un manuale per l’insegnamento della storia nella scuola media, il cui primo volume – che dal paleolitico ci porta al XVI secolo – era stato pubblicato un anno fa. Ne avevo scritto in toni calorosi, prima di tutto per l’opzione deliberata di «inserire pienamente la storia nazionale nel processo politico, economico, sociale e culturale dell’Europa e del mondo», tanto che «il manuale si orienta verso un altro tipo di impostazione: la Svizzera non come risultato di un caso isolato, ma punto di arrivo di una rete di relazioni che hanno condizionato e favorito determinate scelte al posto di altre». Finalmente fuori dal Sonderfall, com’è giusto che sia.
È di questi mesi l’arrivo nelle classi del secondo volume, che conferma l’ottima impressione destata dal primo, con questa decisione moderna e originale di raccontare il percorso della Svizzera nella storia, a differenza di una tradizione didattica che – o tempora, o mores! – prediligeva un percorso, come dire?, più «patriottico», con una preistoria un po’ da favola, e poi i buoni elvezi, i miti nazionali, le battaglie epiche e il ridotto alpino. Il nuovo volume conserva le scelte di partenza e ha il coraggio di sfatare un principio di comodo che sconsiglia di avvicinarsi troppo alla contemporaneità, tanto da spingersi fino all’«Età dell’incertezza tra globalizzazione, ‘deregulation’ e neoliberismo», parlando pure di poste e telefoni, del fallimento di Swissair, della crisi finanziaria del 2008, con tanto di salvataggio di UBS da parte dello stato. Si tratta insomma di una proposta di grande valore documentario, culturale e didattico, che non sarebbe male poter trovare anche nelle normali librerie, a disposizione di chi la scuola dell’obbligo l’ha frequentata tanto tempo fa e che magari della Svizzera nella storia non ha mai capito granché.