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La scuola non è il Golgota

A Singapore i giovani pagano un prezzo elevato per un sistema estremamente orientato al rendimento: mancanza di sonno, problemi di attenzione e pensieri confusi. Ogni anno alcuni studenti si tolgono la vita per disperazione. Vogliamo questo anche in Ticino?

La Legge della scuola, votata dal parlamento sul finire del XX secolo, stabilì che i genitori erano a pieno titolo una componente della scuola, con organi e compiti sanciti da leggi, regolamenti, norme e direttive. Era il 1990 e la scuola era già un po’ diversa da quella degli anni in cui questi propositi erano nati, vent’anni prima. Diciamo che sull’arco del mezzo secolo, dall’istituzione della scuola media nel 1974 a oggi, sono cambiate parecchie cose. Il varo della nuova Legge arrivò sei anni dopo che Apple presentò Macintosh e tre mesi dopo il crollo del muro di Berlino: basterebbero queste due date a simboleggiare i frenetici cambiamenti di un’era forse ancora ai suoi inizi.

Anche solo limitandosi alla scuola obbligatoria, sarebbe già eloquente il confronto tra i (vecchi) programmi della scuola elementare e della scuola media con i contenuti del Piano di studio attuale, che copre la scolarizzazione di tutte le persone residenti nel Cantone dai quattro ai quindici anni di età. Dei genitori e dei loro dispositivi formali e informali di collaborazione, invece, è cambiato poco, e di quel poco non si sa bene chi ne usufruisce e se ne giova: ci si chieda quanti frequentano l’assemblea dei genitori e entrano nei loro comitati, e quanti hanno incontri regolari e fruttuosi con i/le docenti dei loro figli.

Nel 2023 la SRF ha realizzato un interessante reportage – Modelli scolastici a confronto – che mostra dove si situa il nostro sistema scolastico rispetto a Singapore e alla Finlandia, due mondi formativi agli antipodi, due scuole da anni al top delle classifiche PISA per i loro risultati in matematica, lettura e scienze. La scuola svizzera si colloca tra questi due modelli. Ho estrapolato qualche passaggio che riguarda Singapore e Finlandia.

I giovani singaporiani pagano un prezzo elevato per questo sistema estremamente orientato al rendimento: mancanza di sonno, problemi di attenzione e pensieri confusi, che a volte sfociano nel peggio. Ogni anno, alcuni studenti si tolgono la vita per disperazione. Centinaia chiedono aiuto all’organizzazione SOS, specializzata nella prevenzione dei suicidi.

Dal sud-est asiatico e tropicale alla Finlandia anche il clima scolastico è assai diverso. Un maggiore riconoscimento è la chiave per avere insegnanti motivati, che dovrebbero insegnare le competenze di cui gli alunni avranno davvero bisogno: le competenze del XXI secolo, ovvero creatività, comunicazione, cooperazione, lavoro di squadra, sulla scorta di un’idea degli obiettivi fondamentali della scuola: formare futuri cittadini muniti di competenze per professioni di cui non conosciamo ancora l’esistenza.

La scuola svizzera è distante dai modelli della Finlandia e di Singapore, riportando comunque risultati sopra la media dei paesi partecipanti e nel gruppo di testa dei paesi europei. Tenuto conto che, di solito, la scuola non insegna ciò che dice, ma insegna ciò che fa, si potrebbe dire che il suo funzionamento ricorda vagamente quello singaporiano, anche se, fortunatamente, siamo ancora lontani da quei tristi finali dell’esasperata competizione scolastica.

Eppure qualche sintomo preoccupante si è già palesato: molti genitori non sanno più da che parte girarsi e accumulano stanchezza, ansia, senso di inadeguatezza. Recentemente, TIO ha riportato di Genitori sempre più in burnout. Tra le diverse testimonianze raccolte – scrive il portale – c’è quella di Sonia, 36 anni. È una mamma single di un figlio di tre anni e mezzo che – racconta – «per sbarcare il lunario faccio due lavori: il primo in un ufficio delle imposte, il secondo come badante». Ammette di essere «costantemente esausta e spesso vorrei essere altrove, anche quando sono a casa. Ogni volta che mi alzo al mattino ho la nausea e penso tra me e me: come farò ad affrontare la giornata? Vorrei solo che fosse di nuovo sera per poter dormire. Mi sembra una lotta costante per la sopravvivenza».

Nel contempo Pro Juventute parla di queste figlie e di questi figli, che, per gran parte dell’anno, sono allievi e studenti: Bambini e giovani sotto stress e pressione competitiva. Di sicuro non sono le mamme come Sonia a creare problemi alla scuola, a prendere di mira gli insegnanti a loro giudizio inadeguati. Purtroppo, capita di incontrare genitori a volte un po’ squadristi, mai sufficientemente sazi di nozioni, sacrifici, fatiche, competizione per i loro figli. Ha scritto di recente il parlamentare Piezzi del PLR: In campo educativo, e l’ho denunciato più volte, sono troppo assenti valori come il sacrificio, l’allenamento allo sforzo, la capacità di reagire agli insuccessi. Il pulpito ha naturalmente la sua importanza, dato che il deputato è pure maestro. Ma perché mai dovremmo rifarci alla narrazione cattolica, che dalla Via Crucis, disseminata di dolori, sale al Golgota?

Pieter Bruegel il Vecchio, Salita al Calvario, 1564, olio su tavola, 124×170 cm, Kunsthistorisches Museum Vienna

Alle tante mamme come Sonia, che hanno figli a scuola, non si possono chiedere ulteriori sacrifici oltre alla fatica e al sudore che già affrontano ogni giorno, felici di lasciare i figli a scuola, un po’ meno di essere costrette a far capo al doposcuola o alle colonie, per l’impossibilità di restare con loro. La scuola, per lo meno quella dell’obbligo, dovrebbe darsi una calmata e smettere di piegarsi alle richieste di tutte quelle corporazioni che chiedono sempre più nozioni, «competenze» e selezione.

In Finlandia le giornate scolastiche sono più brevi che in quasi tutti gli altri Paesi: 4-6 ore al giorno con una settimana di 5 giorni. Gli alunni, inoltre, dedicano anche poco tempo ai compiti a casa: 10-20 minuti al giorno. In questo modo si evita di penalizzare i bambini senza un supporto a casa. In questo modo non ne risentono né il sonno né le prestazioni cognitive. Ciò nonostante i livelli di competenza dei loro quindicenni sono simili ai nostri.

 

Scritto per Naufraghi/e

Su temi analoghi segnalo tre articoli di questi giorni:

Gli affanni della scuola liberal sociale, di Fabio Camponovo (Naufraghi 02.09.2024), La scuola tra l’essere e l’avere, di Elda Pianezzi (laRegione 03.09.2024) e Scuola fa rima con idea, di Michela Luraschi (laRegione 03.09.2024). I due articoli pubblicati su laRegione sono visibili anche qui.

 

Se non ci fosse la scuola non ci sarebbe l’insuccesso scolastico

È difficile capire come mai la politica non si sia ancora allarmata di fronte alla più che decennale strage di allievi, che non riguarda solo le scuole medie superiori, ma anche la scuola media

Se non ci fosse la scuola non ci sarebbe l’insuccesso scolastico.

Meglio: En un sens, il ne saurait y avoir d’échec scolaire que par référence à une école qui met en échec. È una frase di Pierre Bourdieu et Jean-Claude Passeron, sociologi francesi che, nei primi anni ’70, pubblicarono un saggio che scosse il mondo dell’educazione e della scuola: La riproduzione. Sistemi di insegnamento e ordine culturale. Secondo i due studiosi, il sistema educativo contribuisce alla riproduzione delle disuguaglianze sociali attraverso la trasmissione del capitale culturale che è patrimonio delle classi dominanti, consolidando così le disuguaglianze esistenti. Analogamente la stessa scuola legittima le disuguaglianze sociali presentandole come naturali e meritocratiche.

Scrivono, tradotto con un semplice esempio, che nei primi anni della scolarità, in cui comprendere e maneggiare la lingua costituiscono il punto d’applicazione principale del giudizio dei maestri, l’influenza del capitale linguistico non cessa mai di esercitarsi: lo stile viene sempre preso in considerazione, implicitamente o esplicitamente, a tutti i livelli del curriculum, fino all’università.

Pensando alle valutazioni della scuola, è piuttosto evidente che il possesso di un capitale linguistico, appreso perlopiù in famiglia, in quello specifico contesto socio-culturale, è un chiaro vantaggio rispetto agli allievi che, sin dall’entrata nella scuola, quel capitale non ce l’hanno: potranno imparare a scrivere e a parlare in maniera del tutto corretta, e in questo caso non finiranno nelle paludi dell’insuccesso scolastico, che li inseguirebbe anno dopo anno. Ma di rado saranno in grado di costruire una lingua alta, per lessico e sintassi, benché grammaticalmente corretta.

Fino agli anni ’70, le discipline umanistiche contavano ben più di oggi. «Tutti coloro che hanno studiato filosofia – è un passaggio dell’ultimo romanzo del greco Petros Markaris (La violenza dei vinti, 2024) – conoscono la massima di Cartesio: Penso, dunque sono. In Grecia abbiamo modificato la massima e diciamo: Ho una poltrona, dunque sono. Stèfanos Rokkos apparteneva alla categoria di chi ha una poltrona. E aveva deciso di modificare il piano di studi dei licei in modo che potessero aprire agli studenti la strada verso le poltrone delle aziende e degli enti. Il pensiero non ha importanza. Quello che conta è la poltrona. Ma noi non permetteremo che le scuole diventino spacci di poltrone. Lotteremo, quale che sia il prezzo per noi. Da noi, mi pare, non lotta nessuno.

Simona Sala ha proposto recentemente alcune riflessioni sulla «scuola post-obbligatoria, ossia, quel bacino immenso in cui si trovano spesso a galleggiare centinaia di giovani che, non ancora del tutto certi del percorso formativo intrapreso, tentano di individuare una strada che li possa portare a una realizzazione personale e professionale»: in sostanza, parliamo dei licei e della scuola cantonale di commercio. Titolo dell’articolo: Una scuola superiore davvero inclusiva? L’occhiello aggiunge: Un insegnamento post-obbligatorio spesso disumanizzato.

La risposta al quesito, chiaramente retorico, è già scritta in una pubblicazione del DECS – Scuola ticinese in cifre 2023 che nella Prefazione, firmata dalla Consigliera di Stato Marina Carobbio Guscetti, afferma: Nell’anno scolastico 2021/22 solo 74% degli allievi di prima liceo sono stati promossi. Alla Scuola cantonale di commercio la selezione è stata ancora più massiccia: solo 62% degli allievi di prima sono stati promossi. Ma c’è un altro dato, raccolto in quel medesimo prezioso documento che, anno dopo anno, presenta le cifre della scuola ticinese. Cosa intendono fare tutti quegli studenti che, consci o meno delle loro attitudini, si iscrivono al liceo? Il 31% (i dati si riferiscono al 21/22) sceglie l’opzione Lingue moderne, seguono Biologia e chimica (28.3%), poi Economia e diritto (20.4%). Molto più staccate arrivano le Lingue antiche (8.6%), Fisica e applicazioni della matematica (7.1%), per finire con la Musica e le Arti visive, scelte peraltro possibili solo in alcune sedi. Cosa ci sia dietro questi indirizzi non è di facile comprensione, basti pensare, ad esempio, a chi vuole intraprendere la carriera di maestra/o di scuola dell’infanzia o elementare.

È difficile capire come mai la politica non si sia ancora allarmata di fronte a questa più che decennale strage scolastica, che non coinvolge solo le scuole medie superiori, ma anche la scuola media, che è scuola dell’obbligo. Per restare ai numeri, i medesimi dati dell’anno 21/22 dicono che il 60% degli allievi del II ciclo della scuola media ha seguito due corsi attitudinali – mutatis mutandis, per capirci, quelli che all’inizio erano i livelli A. Si può ipotizzare che un bel numero di loro, con l’iscrizione al liceo, rincorrerà un destino funesto e già scritto.

Il fallimento pare duplice: della scuola media, che è incapace di orientare un gran numero di suoi allievi; e della scuola media superiore che, con queste fucilazioni scolastiche, sembra voler incriminare la sua scuola-filtro. Dietro tutto ciò non si può far finta di non vedere che il diploma di maturità è il pezzo di carta che dà l’accesso a un numero impressionante e variegato di formazioni universitarie e para-universitarie, una specie di coperchio per tante pentole.

Resta, sullo sfondo, il dubbio di sempre, che riguarda le valutazioni scolastiche, dietro le quali ci possono essere le responsabilità di ogni studente o studentessa. Ma c’è anche, con altrettanta potenza di fuoco, l’incapacità di qualche insegnante: di educare, motivare, valutare e insegnare. Non necessariamente in quest’ordine.

 

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Scusate, sulla scuola abbiamo cambiato idea (liberale)

La scuola ticinese l’hanno fatta e gestita soprattutto i liberali, ma adesso, ohibò, a loro non piace più

In altre epoche c’era stato uno che aveva promulgato una Legge in dieci articoli, che aveva chiamato Comandamenti. I liberali radicali svizzeri vanno vicini al raddoppio: Diciassette campi d’azione per un’educazione scolastica equilibrata e orientata al futuro. «Il modello di successo liberale radicale presuppone che tutti abbiano l’opportunità di affrancarsi nella scala sociale. Tuttavia, questo è possibile solo con una solida istruzione. La comprensione del modello liberale di società richiede però un’ampia istruzione e, tra le altre cose, la conoscenza dell’Illuminismo»: alla faccia del minimo sindacale della modestia, che i liberali inglesi di un tempo chiamavano understatement, una sintesi di autoironia e sobrietà. Non so cosa sappiano questi novelli liberali dei grandi illuministi della storia della pedagogia – da John Locke a Jean-Jacques Rousseau, Denis Diderot, Voltaire, Johann Heinrich Pestalozzi e Immanuel Kant – senza evocare alcuni filosofi e pedagogisti che, in anni successivi, molto hanno dato alla scuola moderna, penso a John Dewey, Maria Montessori, Jean Piaget, Lev Vygotskij e altri.

Presumo che i liberali radicali ticinesi abbiano aderito all’eptadecalogo nazionale e che lo sottoscrivano senza se e senza ma, tant’è che questa lista della scuola che vorrebbero l’ho trovata nel loro sito. Così non possono dimenticare, o fingere di farlo, che per oltre sessant’anni, dal dopoguerra in qua, i loro predecessori hanno gestito la Pubblica educazione ticinese con i Consiglieri di stato Brenno Galli, Plinio Cioccari, Bixio Celio, Ugo Sadis, Carlo Speziali, Giuseppe Buffi e Gabriele Gendotti, e che in tutti quegli anni hanno proposto e realizzato tante importanti riforme, tra le quali spiccano l’istituzione della Scuola media e l’Università della Svizzera italiana, senza scordare la diffusione dei licei o i grandi sforzi per favorire e concretizzare la democratizzazione degli studi. Come spesso capita, vien da dire che gli originali sono migliori delle copie.

I «padri» della scuola ticinese dal dopoguerra, tutti liberali: Brenno Galli (1946-1959), Plinio Cioccari (1959-1965), Ugo Sadis (1971-1979), Carlo Speziali (1979-1986), Giuseppe Buffi (1986-2000) e Gabriele Gendotti (2000-2011). Manca Bixio Celio (1965-1971).

Certo, non tutto e non sempre è stato immune da errori e critiche, e non lo è neanche oggi, perché ogni legge è frutto di compromessi e scambi politici, così come la realizzazione dei suoi principi deve fare i conti con chi, nelle scuole e nelle aule, deve tradurre i principi in pratica, magari a volte dissentendo; e perché i tempi cambiano in fretta, gli impianti normativi resistono e i tempi della politica li conosciamo.

Forse non rammentano, i liberali odierni, che nel 1974 i liberali radicali ticinesi, coi socialisti, avevano istituito la scuola media, che avrà pure tanti difetti, ma che continua a rappresentare una grande conquista politica e sociale. La scuola maggiore era certamente un’ottima scuola, mentre azzerare il ginnasio fu una decisione davvero liberale e radicale, benché la scuola media, col passare degli anni, somigliò più al secondo che alla prima. Tra l’altro il relatore di maggioranza in Gran consiglio era stato il liberale radicale Diego Scacchi. E, a proposito di amnesie vere o di comodo, anche la Legge della scuola del 1° febbraio 1990 era nata con il sostegno convinto dei liberali radicali e del Consigliere di stato Giuseppe Buffi. E comincia con ben altre finalità rispetto allo slogan di oggi, La scuola dell’obbligo annaspa: torniamo alla missione principale.

Quale sarebbe allora la missione principale della scuola? Quella delle Competenze di base, competenze di base, competenze di base? Quella che Gli allievi alloglotti dovrebbero ricevere lezioni intensive nella lingua d’insegnamento prima di entrare in una classe tradizionale? Quella che Le note scolastiche devono essere mantenute e i tentativi ideologici di abolire le note devono essere respinti? Quella che Più Svizzera in classe e Tolleranza zero per i fondamentalisti? Suvvia: se davvero si vuole così pacchianamente abbandonare quell’ideologia che tanto ha prodotto in anni neanche troppo lontani, si abbia almeno l’audacia di manifestare a chiare lettere che si è cambiato idea, perché quell’idea del secolo scorso, secondo loro, ha prodotto riforme ormai alla canna del gas.

E allora se l’ideologia – oh che brutta parola! – non c’è più andate in parlamento e combattete come leoncelli per aggiustare quel che si può, mandate a gambe all’aria tutto quanto e restaurate secondo il vostro millantato «metodo liberale» (neutro, neh!). Gli alleati politici, quelli ideologicamente vicini a voi, non mancheranno.

 

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Si guarda la pistola, non si vede il dramma

Come scriveva don Milani, “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde”. Occorre chiedersi perché.

Tio.ch, lunedì 3 giugno, ore 11:47. Imponente operazione di polizia, evacuata la Commercio. Alla scuola cantonale di commercio è in corso un’imponente operazione di polizia. Secondo nostre informazioni, l’intervento in forze di numerose pattuglie della Cantonale sarebbe stato provocato da un ragazzo di prima commercio che in aula avrebbe tirato fuori una pistola e l’avrebbe puntata contro una docente. Ore 12:51. La polizia conferma: «Docente minacciata da un allievo». Fermato un minorenne. L’allievo è stato fermato verso le 11.30 all’interno dell’Istituto scolastico. Non vi sono feriti. Sono in corso gli accertamenti del caso e pertanto per il momento la struttura scolastica rimane chiusa. Ore 15:07. Le minacce all’improvviso e poi il caos.

Ha scritto su laRegione Tommaso Soldini, scrittore e docente, presente alla “Commercio” in quei momenti di sconcerto: «La difficoltà delle giovani generazioni è palpabile; lo vediamo in classe noi docenti, ne è precisa testimonianza la presenza degli sportelli di mediazione, così come il fitto ricorso al servizio medico-psicologico, ma anche il largo uso di farmaci che molti studenti non nascondono di assumere. Un ragazzo che impugna un’arma quasi vera per scongiurare una bocciatura, però, non fa riflettere solo sul disagio psichico, direi che mette l’accento anche sul ruolo della scuola, che è e resta quello di formare, educare alla cittadinanza, al pensiero critico, e ad affacciarsi in modo consapevole al mondo del lavoro» (Quattro mura e un calcio di pistola, laRegione 11.06.2024). L’articolo si chiude con una poesia che Soldini dice di aver ricevuto da un suo ex studente.

Parrebbe intitolarsi Quattro mura, che sono le mura dell’aula dove abbiamo imparato la grammatica / di quattro lingue diverse; / perché più è meglio. Sono le quattro mura dove incombe ininterrottamente una valutazione, che è la metratura di competenze e incompetenze, e nel contempo giudizio individuale sulla tua umanità. E succede di tutto, nei ricordi del poeta: chi è bocciato col 2 in tedesco perché beccato a copiare; chi se ne va, e non torna, per un attacco di panico, perché non ci si può mostrare deboli; chi può soffrire per quattro anni e medita il suicidio; chi a sedici anni non ha tempo per la terapia; chi è uno dei tanti ragazzi preoccupati, perché a giugno lo sai.

Quelle quattro mura,
dove oggi un ragazzo
ha tirato fuori una pistola
per rabbia,
che forse era paura,
che forse era tristezza,
che forse era angoscia,
di non avere un futuro.

Mi chiedo se il tangibile disagio psicologico e sociale che vivono tanti giovanissimi non dipenda anche dalla scuola che sono obbligati a frequentare almeno per undici anni: in fondo è un lungo e importante periodo in cui trascorrono più tempo a scuola che a casa. Ha osservato don Milani che bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo. E ha aggiunto: La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde.

L’ho scritto tante volte, l’ultima proprio in questo blog (La scuola è un luogo dove bisogna poter sbagliare senza correre rischi): «Le valutazioni sono espresse con note numeriche in tutta la scuola dell’obbligo, a partire dall’elementare. La scala va dal 3 al 6, con la sufficienza dal 4 in su. Con questi numeri e coi loro mezzi punti si fanno le medie. Una media che può decidere il futuro di un quindicenne è quel 4.65 tra tutte le materie, senza il quale non si accede al liceo. Si potrebbe supporre che il metodo sia semplice quanto scientifico. Per fare un esempio, se tu hai 6 in italiano e 3 in matematica significa che vali mediamente 4 ½. In realtà sei bravissimo in italiano e non capisci un’acca in matematica: questo dicono i numeri. Ma non solo. La scala delle note scolastiche non ha intervalli identici e regolari. Il metro del falegname è sempre lungo un metro, anche se ha la luna storta».

Invece la scuola continua imperterrita a difendere questo modello di frammentazione delle materie scolastiche, convalidato da un modo iniquo per misurare gli apprendimenti di ognuno. A chi galleggia perennemente al limite della sufficienza o si affanna nella melma di un cupo fallimento si dice che non studia, non è tagliato, non è al suo posto, per lo più senza nemmeno accorgersi che ogni insufficienza può essere un colpo di pistola che ti ammazza il futuro. Non ci pensa nessuno, si preferisce credere che le insufficienze siano giuste, addirittura scientifiche.

Nessun futuro (dell’artista di strada Banksy).

Non si può fingere di ignorare che la condizione socioeconomica di ogni studente sottoposto a valutazioni scolastiche ha un impatto considerevole sul valore scolastico decretato dagli insegnanti e dalla scuola. Tanto per dire: In matematica, in Ticino, in Svizzera e nella media OCSE, si osserva che chi ha un’elevata condizione socioeconomica e culturale ottiene un punteggio medio nettamente superiore rispetto a chi ha una condizione socioeconomica inferiore (PISA Ticino 2022).

Non è più il tempo, dunque, dell’ipocrisia, dello stupore e degli schiamazzi morali a mezzo stampa. Dopo tanti proclami la scuola faccia qualcosa, senza più dare ascolto al canto delle sirene dell’economia.

Scritto per Naufraghi/e

La rete che pesca nella nostra infanzia e adolescenza

Da anni si lanciano anatemi o si predica il libero accesso dei più piccoli a internet e smartphone; ma il mondo della scuola non ha affrontato seriamente il rapporto fra educazione e rivoluzione tecnologica

È sotto gli occhi di tutti che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno cambiato il nostro modo di vivere. Il ’900 è stato il secolo di due guerre mondiali, ma anche un periodo di mutamenti inimmaginabili. Avevo otto anni quando Jurij Gagarin volò nel cosmo, un’orbita completa attorno alla Terra. Ne avevo sedici l’anno del primo allunaggio. Poco più che trentenne misi per la prima volta le mani sulla tastiera di un Macintosh 128K. La memoria media di uno smartphone, che oggi ci accompagna dappertutto come un ipertecnologico coltellino svizzero, è di decine di milioni di volte più grande.

Secondo lo  psicologo sociale Jonathan Haidt, che Naufraghi/e ha ripreso da un articolo pubblicato dal portale Infosperber, dopo il 2010 è iniziata la fine dell’infanzia: «Le persone nate dopo il 1995 vivono un’infanzia completamente diversa perché varie invenzioni risalenti al 2010 hanno cambiato radicalmente le nostre vite. Soprattutto le piattaforme di social media e l’accesso costante tramite smartphone, che finirebbero per modificare il cervello dei bambini e dei giovani. A differenza di alcuni suoi colleghi – prosegue l’articolista –, Haidt vede una connessione diretta tra la diffusa introduzione di queste applicazioni e i crescenti problemi psicologici dei bambini e dei giovani in tutto il mondo».

I fattori che entrano in gioco sono chiaramente tanti. Nasciamo con alcune capacità innate, alcune delle quali si svilupperanno nel tempo, grazie all’esperienza concreta delle relazioni sociali e dell’apprendimento. Imparare a camminare è un processo difficile, così come non si impara a parlare e a comunicare se non si è esposti a stimoli e modelli adeguati. Tuttavia la maturazione dei cuccioli di Homo sapiens non terminerà a dieci anni:  ben altri cambiamenti aspettano ragazzine e ragazzini, che, attraverso quel complicato percorso che si chiama adolescenza, diverranno adulti. Va da sé che, già a partire dalla venuta al mondo, saranno indispensabili tutte le esperienze sociali, biologiche e culturali da affrontare con la più grande serenità possibile, nel mondo reale e non certo in quello virtuale.

Bambini, ragazzi e adolescenti devono avere il tempo per crescere, anche con la mediazione di genitori e maestri, senza che questi adulti colonizzino ogni minuto delle loro giornate. L’ozio è un diritto, come giocare a biglie improvvisandone le regole, costruire castelli con dei cubetti di legno, sfogliare un libro illustrato, fare scorrere le biglie colorate del pallottoliere, sognare di dirigere un circo, ascoltare le storie della nonna e avere paura pur sapendo come andrà a finire, giocare la finale dei mondiali di calcio in due, con discussioni accese a sapere se il pallone era passato sopra o sotto un’asta inesistente: Svizzera-Italia nel cortile di casa.

Invece, già da qualche anno, siamo alla dipendenza dagli schermi, indipendentemente dai contenuti che si trovano sul web, dalle enciclopedie alle botteghe, da blog di alto valore scientifico e culturale alla marea di pornografia (da cui bisognerebbe “non farsi fottere”, per citare la giornalista Lilli Gruber), dalle arti alla scienza, dai giochi interattivi al di tutto di più.

Basti citare pochi dati proposti dalla Fondazione Dipendenze | Svizzera: l’88% della popolazione dai 15 anni in su utilizza internet almeno una volta alla settimana; tra i 6 e i 13 anni la percentuale è già del 63%, e il 43% possiede un telefono cellulare; tra 12 e 19 anni il 99% ne fa uso più di una volta a settimana. Tra gli 11 e i 15 anni il tempo medio trascorso davanti allo schermo durante una giornata scolastica è di 4 ore e mezza, ma diventa di 8 ore durante i weekend.

E i bambini dove sono? La risposta è: su TikTok!

Ora c’è chi vuole porre dei limiti. A fine aprile una commissione di esperti, incaricati dal presidente francese Emmanuel Macron di determinare il corretto utilizzo degli schermi da parte dei nostri figli, ha rassegnato il suo rapporto, che ha messo in evidenza diverse criticità e formulato alcune raccomandazioni: nessuna esposizione agli schermi per i bambini di età inferiore ai tre anni; uso sconsigliato fino a sei anni, o limitato, occasionale, privilegiando i contenuti educativi con la presenza di un adulto; esposizione moderata e controllata a partire dai sei anni; nessun telefono cellulare prima degli undici anni; nessuno smartphone prima dei tredici anni; nessun accesso ai social network prima dei quindici anni; accesso solo ai social network “etici” dopo i quindici anni. La République intende legiferare in quella direzione e già altri Stati stanno battendo vie analoghe.

L’unica cosa fin qui certa è che siamo di fronte a un disastro delle istanze educative, che non sono solo la scuola, ma comprendono i media e la politica, per finire dentro le famiglie, indipendentemente dal livello socio-economico. Da anni si disquisisce, si minaccia, si lanciano anatemi, ognuno con la sua soluzione, spaziando tra l’incondizionato laissez faire e il più rigoroso e totale controllo censorio. Basti pensare che sono gli stessi genitori, di solito, a finanziare con orgoglio l’acquisto di smartphone, computer e tablet ai pargoli, ma non li si può incolpare di nulla. Sin dalla comparsa dei primi computer, la scuola ha cominciato a rincorrere il presente e a introdurre macchine e applicazioni nelle sue dottrine, fino a farsi travolgere. In nessun momento il mondo della pedagogia ha scelto di affrontare una riflessione epistemologica sul rapporto tra la formazione, l’educazione e l’allora imminente rivoluzione digitale: a partire dalla sua rilevanza pedagogica e al suo contributo alla costruzione di una conoscenza solida e pertinente.

Alla faccia di quella scuola che dovrebbe promuovere lo sviluppo armonico di persone in grado di assumere ruoli attivi e responsabili nella società e di realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà.

 

Scritto per Naufraghi/e