Archivi categoria: Naufraghi/e

Una scuola più adatta al presente: siamo pronti per un grande esercizio di democrazia?

Ridefinire insieme scopi e modalità di lavoro della scuola è necessario, ma va fatto senza fretta e con ampia partecipazione

Con il titolo L’autorevolezza perduta, il deputato e maestro di scuola elementare Aron Piezzi ha pubblicato su laRegionedel 24 novembre un articolo che merita attenzione. L’attacco è inflessibile: quando nella scuola emergono problemi, la risposta del Decs somiglia a una segreteria telefonica che ripete sempre lo stesso messaggio: più personale, più costi. Per Piezzi una visione contorta, perché servirebbe ben altro, tra cui segnala il ridimensionamento degli altisonanti principi pedagogici in voga (l’allusione al Piano di studio ticinese, su cui ho già scritto, è manifesta) e un ritorno alla centralità del maestro.

È bene chiarirlo subito: l’autorevolezza non coincide affatto con la centralità dell’insegnante. L’autorevolezza la si costruisce in aula, giorno dopo giorno, senza che nessuna riforma possa supplire a pigrizia, sciatteria, noia, indifferenza o – semplicemente – incapacità. Ricordo una classificazione fulminea di Franco Zambelloni, filosofo e insegnante, durante un incontro di riflessione sul profilo professionale degli insegnanti. Partì citando Jean Piaget: L’arte dell’educazione è come l’arte medica: un’arte che non si può praticare senza “doni” speciali, ma che contemporaneamente esige conoscenze esatte e sperimentali, relative agli esseri umani su cui viene esercitata. Tali conoscenze non sono anatomiche e fisiologiche, come quelle del medico, ma psicologiche; tuttavia non sono meno indispensabili e la soluzione dei problemi della scuola attiva o della formazione della ragione ne dipendono precisamente nel modo più diretto.

Insegnare nel III millennio, perciò, presuppone un corpus di solide conoscenze professionali che permettano in seguito di gestire serenamente la quotidianità dell’anno scolastico: in tal senso avremo un docente-artigiano in grado di svolgere in maniera professionale il mandato che gli è affidato dallo Stato, nella consapevolezza che nella scuola – per usare un sottile ritratto del prof. Zambelloni – coesistono insegnanti straordinariamente bravi e insegnanti normalmente bravi.

Anch’io ho fatto il maestro, ormai mezzo secolo fa, un’esperienza che ancora oggi ricordo con entusiasmo. Quando iniziai erano in vigore i Programmi del 1959, introdotti da alcuni «Criteri direttivi» che già allora insistevano sulla professionalità del docente: un programma è solo uno schema che l’insegnante deve rendere vivo, sta scritto. E ancora: la scuola ha una sola legge, quella del migliore sviluppo del fanciullo, e il metodo – qualunque esso sia – è buono se risponde alle esigenze morali, intellettuali e fisiche del bambino concreto, immerso nel suo ambiente particolare.

In apertura del documento c’era un’Avvertenza che oggi suona quasi profetica: il programma va adattato da ogni insegnante alla realtà della sua scuola, in accordo con l’ispettore. Premessa indispensabile: preparazione quotidiana e costante aggiornamento culturale. È forse qui che si comincia a intravedere l’autorevolezza evocata da Piezzi: una responsabilità professionale ampia, affidata all’iniziativa del singolo maestro, che richiede, ancora oggi, un impegno che non tutti sono disposti a onorare.

Il 1974, l’anno dei miei esordi “pedagogici”, fu anche quello in cui il Gran Consiglio approvò, tra molte controversie, la legge sulla scuola media, che faceva strame del ginnasio, di cinque anni, pensato per chi intendeva proseguire i suoi studi; e la scuola maggiore, di tre anni, per chi si indirizzava verso un apprendistato. L’innovativa sperimentazione partì nel ’76; i miei allievi, nel settembre del ’78, furono tra i primi a entrare nella fase di generalizzazione.

Nel 1984 arrivarono i nuovi programmi della scuola elementare, che sostituirono quelli del ’59. La centralità dell’insegnante rimase, anzi, venne arricchita dalla consapevolezza della complessità connaturata al compito educativo. Cambiò invece l’impianto culturale e pedagogico: non più la sequenza disciplinare tradizionale – che nel ’59 apriva con istruzione religiosa, educazione morale e civile, esercitazioni di vita pratica – ma un principio più ambizioso: la scuola elementare ha il compito di porre le basi perché ogni individuo possa, nel corso della vita, sviluppare le proprie facoltà e diventare consapevole della dignità, della libertà e della cultura proprie della condizione umana.

Una dichiarazione d’intenti tutt’altro che marginale, al punto da proporre, almeno sulla carta, una programmazione che superasse le “materie” consuete: l’ambiente – non solo fisico, ma umano, linguistico, culturale – come riferimento per la scelta dei contenuti e per la costruzione dei sussidi didattici. L’allievo arrivava in aula con una prima esperienza del mondo: compito della scuola era dotarlo degli strumenti per interpretarla, complicarla, renderla più consapevole.

Non proprio una bazzecola.

Se guardiamo alla situazione attuale, il dibattito sul piano di studio continua a dimostrare quanto complesso sia mantenere autorevolezza e centralità del maestro. Su un punto, dunque, Piezzi non sbaglia: invocare la “centralità del maestro” è legittimo e anche necessario quando ci si trova in un sistema che spesso confonde autorevolezza con burocrazia o con nuovi ruoli intermedi: qualcuno deve pur rispondere delle sue scelte. Ma, come lui sa perfettamente, dietro la parola autorevolezza si nasconde un’intera galassia: capacità, carattere, formazione, etica professionale, empatia, talvolta anche temperamento, un mosaico che non può essere decretato per via legislativa e che nessuna nostalgia può restituire intatto.

Resta poi sul tavolo il difficile problema del piano di studio della scuola dell’obbligo. Stando a Piezzi, “come PLR, su stimolo dell’associazione LaScuola (che associa i maestri liberali), abbiamo proposto, nel settembre del 2024, l’iniziativa denominata Per lo studio e la realizzazione di una nuova scuola media. Attendiamo con fiducia un riscontro da parte del Dipartimento”.

Senza fronzoli diplomatici, mi sento di dire che l’entrata in materia è pessima. Quel che leggo tra le righe è che ci si vuole sbarazzare in fretta del piano di studio in vigore, che, di per sé, potrebbe anche starci. Ma, come è noto, la gatta frettolosa fa i micini ciechi. A conduzione PLR il nuovo piano nascerebbe semplificato, magari con un linguaggio meno misterioso. Ma ci vorrebbe comunque qualche anno, compresi i tanti compromessi da negoziare con gli altri partiti.

Perché prima di mettersi a enumerare obiettivi (legittimi), finalità (utopiche) e aderenza al paese in cui il Piano sarà operativo, sarebbe utile porsi qualche importante domanda: in quale mondo vivranno i nati dei prossimi decenni, cioè da 20/30 anni dopo in là? Non sappiamo come saranno il Ticino e il resto del mondo già nei prossimi anni ’30. Cosa ci dovrebbe essere nel Piano? Alcuni alti obiettivi particolarmente richiesti oggi? Una formazione per trovare almeno un posto di lavoro, magari a salari ticinesi? Oppure una scuola davvero in grado di perseguire le finalità citate nella Legge della scuola del 1990: più umanesimo, dalla letteratura alla matematica, dalla storia alla fisica alle arti. E come sarà organizzata la scuola per sviluppare come si deve le competenze necessarie per affrontare quel futuro?

Parafrasando Marshall McLuhan, se The medium is the message – cioè se il mezzo di comunicazione ha un significativo impatto sulla società rispetto a ciò che intende trasmettere – siamo sicuri che sopravvivranno la centralità del maestro, il calendario scolastico odierno, le valutazioni e le discipline tradizionali?

Scritto per Naufraghi/e

Scuola: sullo stress dei nostri giovani

I fautori di classifiche di merito non dimentichino le parole di don Milani: “La scuola ha un problema solo, quello degli studenti che perde”

Si parla ancora dello stress dei nostri giovani e giovanissimi. Ha scritto Simonetta Caratti su laRegione: «Attacchi di panico, ansia, autolesionismo, depressione e abuso di psicofarmaci: un malessere silenzioso sta travolgendo sempre più giovani. Ragazzi e ragazze che si sentono disorientati, incapaci di immaginare il proprio futuro. Non sempre sanno dare un nome al dolore che provano, ma quel disagio è reale, profondo, e cresce nell’indifferenza di una società che continua a premiare la performance, l’immagine, la perfezione».

I produttori di stress sono numerosi e variegati, spesso presi sottogamba e a volte neppure distinti con chiarezza. Alcuni potrebbero anche essere controllati. È il caso dei telefonini, sempre più spesso presi di mira e colpevolizzati, quasi fossero dotati di vita propria, un po’ come le mostruose creature protagoniste di Alien, il film cult di Ridley Scott del 1979. Si tenta così di combattere questo presunto nemico con minacce e divieti. I genitori alzano le barricate e invocano il pugno di ferro istituzionale; sono probabilmente gli stessi genitori che gliel’hanno comprato, il mostro, e l’alimentano giorno dopo giorno: cibi costosi, gli abbonamenti.

Il Centro ha lanciato l’iniziativa «Smartphone: a scuola no!», che dovrebbe concludersi in questi giorni. Il successo è certo. Ed è altrettanto certo che ogni divieto rappresenta un fallimento dell’educazione. Il filosofo e pedagogista americano John Dewey, tra i fondatori della scuola attiva, riteneva che l’educazione non può poggiare su imposizioni o proibizioni – soprattutto quando non si sa più che pesci pigliare – ma su esperienze che permettano di sviluppare autonomia e responsabilità.

Tant’è: la stessa Simonetta Caratti ha titolato il suo Commento Pausa digitale anche per gli adulti. E precisa: «Le cause sono molteplici: pressioni scolastiche, genitori stressati o assenti, modelli di successo irraggiungibili». Sui genitori stressati o assenti potremmo disquisire a lungo. È un mantra che dura da anni, che insinua sottilmente una colpevole assenza. Ci saranno anche le assenze colpevoli, ma ho conosciuto tante situazioni in cui le colpe erano altrove, ad esempio in salari inadeguati che obbligano tante coppie a non poter scegliere tra i figli e la gestione finanziaria della famiglia, nella necessità di arrivare a fine mese, di frequente col fiatone. Così, molti genitori sono costretti a lasciare i figli agli asili-nido, poi alla scuola, al doposcuola, alle colonie, ai parenti lontani: non sempre senza costi – a parte l’alto costo di crescere senza una mamma e/o un papà.

La scuola non sempre è in grado di percepire appieno queste situazioni, che sono presenti in maniera significativa. Basterebbe un minimo di empatia, anche da parte degli insegnanti e di chi detta i programmi di studio, le regole di valutazione, i compiti e lo studio a casa, per capire che il problema non è nelle famiglie, ma è radicato nel contesto sociale, economico e culturale di questo sfigato Cantone.

Sì, la scuola è una grande fabbrica di stress. In un articolo su Naufraghi/e di un anno fa (La scuola non è il Golgota) avevo commentato una di quelle valutazioni internazionali che, a volte, contribuiscono a indirizzare le politiche scolastiche dei paesi che vi aderiscono. Quell’anno in cima alle classifiche c’erano Singapore e la Finlandia, due paesi con livelli analoghi ma percorsi assai diversi per raggiungerli. I giovani singaporiani – scrivevo – pagano un prezzo molto alto per un sistema così orientato al rendimento: mancanza di sonno, problemi di attenzione, pensieri confusi, che talvolta sfociano nel peggio. Ogni anno alcuni studenti si tolgono la vita per disperazione.

In Finlandia, invece, le giornate scolastiche sono più brevi che in quasi tutti gli altri Paesi: 4-6 ore al giorno, con una settimana di 5 giorni. Gli alunni dedicano inoltre poco tempo ai compiti a casa: 10-20 minuti al giorno. In questo modo non si penalizzano i bambini privi di supporto familiare e non ne risentono né il sonno né le prestazioni cognitive.

La conclusione, oggi come ieri, è una sola. Come diceva don Lorenzo Milani, «La scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde». Eppure si insiste. Qua e là sembra addirittura un accanimento. Quando un insegnante non boccia nessuno si dice che è di manica larga, inattendibile sul piano del valore di ogni allievo/a. Quegli altri incutono terrore, nel loro istituto sono più famosi – che so? – di un centravanti ceduto ai club arabi. È quello che alimenta la statistica dei ragazzi e delle ragazze che la scuola perde per strada, a essere buoni un 10%. Ma una scuola senza i primi della classe e quelli che ci lasciano le penne, secondo taluni che scuola sarebbe?

Scritto per Naufraghi/e di mercoledì 19 novembre 2025

 

Relazioni interculturali o folclore?

Ben vengano le occasioni di incontro come la “festa dei popoli”, ma imparare davvero a condividere il mondo con chi ci sta accanto richiede ben altro impegno

Da qualche anno, a fine estate, la città di Locarno organizza la Festa dei popoli. L’obiettivo è far conoscere e promuovere le diverse culture – straniere e locali – presenti sul nostro territorio. Lo fa attraverso la gastronomia, le tradizioni e l’arte, ma anche stimolando la riflessione sul vivere insieme grazie a momenti di discussione e approfondimento. Qualche domenica fa mi sono intrufolato, a cavallo del mezzodì, tra le tavolate, le «cucine» e il palco di Piazza Grande, ho assaporato i profumi e gli aromi, i colori, lo sfoggio delle diversità.

Mi sono un poco immalinconito, pensando ai tanti momenti di incontro che avevo organizzato nei quasi trent’anni di direzione delle scuole comunali locarnesi. Fino agli anni ’80 gli immigrati arrivavano dall’Italia. La scuola ticinese non se ne curava più di tanto: parlavano italiano, non era necessario condividere i tanti approcci messi in atto nel resto della Svizzera.

Una quarantina di anni fa arrivarono alcune famiglie turche, seguite, negli anni successivi, vuoi alla ricerca di un lavoro, vuoi perché in fuga da guerre e discriminazioni, da spagnoli e portoghesi, poi dall’ex Jugoslavia; a seguire, dominicani, brasiliani, colombiani. Nacque in quel periodo, proprio a Locarno, il primo tentativo per facilitare l’inserimento di quelle bambine e di quei bambini nelle classi ordinarie, pensando, almeno fin lì, di insegnare loro quel minimo di italiano che chiamerei di sopravvivenza.

I profughi usufruivano del permesso N, destinato ai richiedenti asilo, uno statuto precario e tutt’altro che favorevole. Ben diverso dal più recente permesso S, concesso in modo rapido alle famiglie ucraine dopo l’attacco russo del 24 febbraio 2022. Questo confronto mette in luce un’accoglienza molto diseguale: non ho l’impressione che oggi lo stesso slancio sarebbe concesso ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, né che le misure punitive contro la Russia siano state replicate nei confronti di Israele, almeno fin qua. Si percepiva, allora come oggi, un certo clima di xenofobia, a tratti persino di razzismo. Nulla di nuovo, se si pensa al trattamento riservato in passato ai Gastarbeiter. Celebre resta la frase di Max Frisch: «Volevamo braccia, sono arrivati uomini».

È da riflessioni simili che, quasi due decenni più tardi, cominciai a proporre dei momenti d’incontro, spesso assai simili alle tante feste dei popoli dei nostri anni: perché c’erano la gastronomia e il clima rilassato dello stare insieme. La scuola, tutto sommato, riusciva, benché a singhiozzo, a proporre dei momenti di incontro – poi quel che succedeva dentro le aule a contatto con gli obiettivi dei programmi scolastici è tutt’altra questione. Se tutto ciò sia servito a qualcosa non lo so dire. Mi sono chiesto tante volte – e continuo a chiedermelo – dove terminasse l’aspetto un po’ pittoresco delle nostre feste e dove iniziasse, invece, la strage [scolastica] degli innocenti: bambini e ragazzi spesso penalizzati dalle armi tipiche della scuola, in primis la valutazione. Una dinamica che, del resto, si ritrova anche in altri ambiti della società.

Cito, traducendo e sintetizzando, l’incipit di un prezioso manuale pubblicato circa un anno fa: Negli ultimi decenni l’uso di termini come multiculturale, transculturale, interculturale e simili è aumentato in politica, nelle istituzioni, nelle ONG, così come nei campi dell’educazione, del sociale, della cultura e della ricerca. Questa proliferazione rende i concetti meno chiari, con definizioni che oscillano tra descrizione oggettiva e giudizio normativo. E allora? ci si potrebbe chiedere.

Allora basterebbe pensare al Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese, in cui l’aggettivo multiculturale appare tre volte e interculturale una ventina: ma paiono parole usate alla carlona, con diverse sfumature piuttosto soggettive e senza troppe spiegazioni.

Il manuale citato è stato pubblicato dalle Éditions Aphil – Presses universitaires suisse. È esaustivo, ed è volto a capire una problematica di tale smisurata complessità in molteplici contesti sensibili alle relazioni interculturali, e ad agire di conseguenza. Relations interculturelles, di Edo Poglia, professore emerito dell’Università della Svizzera Italiana, e Francesca Poglia Mileti, professoressa di sociologia all’Università di Friburgo, percorre diversi ambiti sensibili alle relazioni interculturali: le migrazioni e la loro gestione; l’educazione e la formazione; la sanità e il lavoro sociale; i conflitti armati e la sicurezza; la giustizia e la polizia; i dibattiti politici/elettorali; le relazioni internazionali; la cooperazione e l’aiuto allo sviluppo; la promozione dei diritti umani nelle situazioni di multiculturalità; le pratiche e le organizzazioni religiose; i media; le imprese globalizzate/mondializzate; i servizi e le attività commerciali; la diversità culturale nella vita quotidiana.

Volendo riassumere, forse maldestramente, il contenuto del manuale – due volumi e circa mille pagine per analizzare la realtà sociale e passare dai problemi alle competenze di comunicazione interculturale – si potrebbe azzardare un’estrema sintesi della sintesi editoriale: la diversità culturale arricchisce le nostre società, ma può anche generare incomprensioni, tensioni e perfino conflitti. Questo libro offre strumenti chiari e pratici per capire le dinamiche delle relazioni interculturali e imparare a gestirle al meglio. Con un approccio multidisciplinare e numerosi casi reali, si rivolge a professionisti, studenti e a chiunque sia interessato a vivere, in modo più consapevole ed equilibrato, in un mondo sempre più multiculturale.

Decenni di terminologia fumosa hanno spesso illuso più che aiutato. Relations interculturelles, per contro, offre strumenti concreti per passare dalla teoria alla pratica, rivolgendosi a chi forma e governa la società. Così che magari anche le feste dei popoli smetteranno di essere solo un’esposizione di diversità, per diventare un laboratorio vivo, in cui imparare davvero a condividere il mondo con chi ci sta accanto.

Scritto per Naufraghi/e

Chi tocca le vacanze muore!

Sarebbe davvero così grave ridurre di una o due settimane le vacanze estive delle scuole ticinesi?

Sono sconcertato.

Leggo le prese di posizione sulla proposta di riduzione di una o due settimane delle vacanze estive delle scuole ticinesi. Ne ha riferito laRegione. Secondo un paio di sindacati e la Conferenza cantonale dei genitori, la modifica creerebbe danni pesantissimi. La proposta dei Verdi di accorciare le vacanze estive scolastiche in Ticino – oggi le più lunghe della Svizzera – incontra disaccordi. L’idea è quella di ridurle di una o due settimane, per rimpolpare le vacanze autunnali e pasquali.

Adriano Merlini, presidente della VPOD docenti, si dice «scettico, anzi di più: contrario», si noti l’enfasi retorica. Ricorda che gli insegnanti lavorano già due settimane dopo la chiusura delle scuole e due prima della riapertura. Si diceva, ancora pochi anni fa, che al centro della scuola c’era l’allievo, lo studente.

Soprattutto, però, Merlini insiste sul valore della lunga pausa estiva: «È una cesura che consente di ricaricare le batterie». Ma anticipare il rientro significherebbe affrontare temperature elevate in edifici non preparati. E non tutto è prevedibile: «In estate ci sono opportunità – colonie, corsi, lavoretti – che altrove non si trovano». Anche il presidente della Conferenza dei genitori riprende il tema del caldo d’aula e aggiunge le difficoltà di conciliazione lavoro-famiglia con un calendario scolastico rimodellato.

Bisogna però accettare una circostanza che non dipende da noi. Ho scritto anni fa: Sono finiti i tempi in cui la scuola dettava i ritmi urbi et orbi. Per quasi tutto il secolo scorso il rispetto del calendario scolastico è stato totale. Il primo giorno di scuola erano tutti lì, puntuali, emozionati; e fino a metà giugno, fosse pure tra uno sbadiglio e l’altro, nessuno si sognava di inventare giustificazioni intricate per scappar via qualche giorno dalla scuola – neanche il sabato mattina, che era ancora giorno di lezioni. Ma era visibilmente un altro mondo, con una diversa organizzazione del lavoro.

È innegabile che i periodi di canicola e le temperature alle quali non eravamo abituati dovranno essere tenuti in considerazione laddove, d’ora in poi, ci fosse la necessità di costruire nuovi edifici scolastici. Il presente ci lascia in eredità scuole pensate per difendersi dal freddo. In attesa di nuove costruzioni si dovrà probabilmente reinvestire i risparmi del riscaldamento in tecniche di climatizzazione.

Insomma, staremmo freschi se dovessimo pianificare gli anni scolastici alla ricerca di un clima perduto. D’accordo, ci piace fare i primi della classe, ma un anno scolastico costruito solo attorno ai mesi non troppo caldi risulterebbe esageratamene fuggevole. Si pensi, parlando delle numerose famiglie dalle configurazioni più diversificate e diffuse, alle difficoltà che incombono sul proprio orario di lavoro in confronto con gli orari dei figli. Ricordo una mamma di gemelli. Le avevo proposto di metterli in due classi diverse – non è sempre piacevole frequentare la stessa classe della sorella o del fratello. Mi disse, schiettamente: «Direttore, già fatico a conciliare i miei mestieri di mamma e di lavoratrice. Si figuri come farei a seguire due riunioni del genitori e gli incontri con due insegnanti». Chi parla di problemi organizzativi in modo astratto probabilmente non ha mai provato a incastrare orari scolastici e turni di lavoro senza perdere il senno, o dimenticare un figlio in palestra o alla scuola di musica.

D’altronde siamo l’unico cantone che ha bisogno quasi di un’intera estate per staccare la spina e ricaricare come si conviene le sue fragili batterie. Siamo medaglia d’oro per la durata delle vacanze estive – proprio quando molte famiglie lavorano a ritmo serrato e intenso in tutte quelle località che vivono e sopravvivono con l’industria turistica. Quando il sindacalista OCST D’Ettorre emette giudizi sbrigativi e un po’ sentenziosi –  Se il problema è che le famiglie non sanno come gestire i figli, il nodo è più ampio – ammette che queste famiglie non le conosce proprio.

Matteo Buzzi, primo firmatario della mozione, scrive in entrata dell’atto parlamentare che La lunghezza delle vacanze estive in Svizzera varia a seconda dei Cantoni. Gli alunni ticinesi beneficiano di 10 settimane di vacanze estive. Per questo sono primi in classifica, solitari. Seguono i Cantoni del Vallese con 7.5 settimane (…) e Ginevra, Giura, Uri e Vaud con 7 settimane ciascuno. In coda i Cantoni di Argovia, Appenzello Esterno, Berna, San Gallo, Sciaffusa, Svitto, Turgovia e Zurigo con 5 settimane ciascuno. Se mi attenessi ai motivi elencati dai fieri conservatori sindacali, direi che, come Cantone primo della classe, dovremmo attivarci per cancellare al più presto l’insana consuetudine elvetica di concedere meno di 10 settimane di vacanze estive ai suoi pargoli.

Poi, si dirà, il Cantone pullula di colonie e doposcuola, che accolgono i figli di chi deve guadagnarsi la pagnotta al di là del calendario e dagli orari scolastici. Ma, a differenza della scuola dell’obbligo, i doposcuola e le colonie e tutte le loro alternative non sono gratuite, benché quasi sempre sussidiate dallo Stato. Alla fine, per chi lavora e deve far quadrare i conti, anche questo conto fa parte del suo bilancio.

Vien da pensare che chissà che razza di sprovveduti stiano crescendo in quei Cantoni dove le vacanze estive durano appena cinque misere settimane. Eppure, a ben guardare, non sembrano messi così male.

Scritto per Naufraghi/e

PS: nell’edizione di Naufraghi, l’incipit dell’articolo – Sono sconcertato – è diventato il titolo. Qui ripropongo l’articolo come l’avevo scritto, inventandomi un titolo forse più coerente col testo.

Una risposta non ideologica

A proposito dell’educare la gioventù alla gestione responsabile delle finanze personali; e allora perché non introdurre la filosofia sin dalla scuola dell’infanzia?

Ma guarda che bel ritrattino mi ha fatto la deputata PLR Simona Genini in risposta a un mio articolo su Naufraghi/e. Apre con un avvertimento: il portale «naufraghi.ch», che ha ospitato il [mio] intervento, non è proprio – per usare un eufemismo – un’offerta editoriale di area liberale. Bene, ora è tutto chiaro. A parte qualche dettaglio.

Io il ’68 non l’ho vissuto, in quel marzo non ero nell’aula 20 della Magistrale. Ero troppo piccolo, frequentavo il ginnasio e avevo da poco compiuto 15 anni. Peccato. In quel 1968 locarnese non sapevo nulla di politica, e nemmeno mi interessava. Avevo compagni di classe che già si erano tuffati, entusiasti e seri, nel Vietnam e nel Mato Grosso. Io no. Non ricordo eventi che mi abbiano spinto a interessarmi di politica, fosse locale o addirittura internazionale.

John Stuart Mill (1806-1873), autore, tra tanti saggi, di Sulla libertà (11859) e La servitù delle donne (1869).

La mia, diciamo così, formazione politica arrivò più tardi, proprio alla Scuola magistrale, quando iniziai a incontrare, attraverso la storia delle idee pedagogiche, dapprima Aristotele, poi John Locke e Jean-Jacques Rousseau, John Stuart Mill, John Dewey, Jerome Bruner, Ralf Dahrendorf. Confesso, incontrai anche qualche comunista, come Célestin Freinet o Don Lorenzo Milani, per giungere a Piero Gobetti, quello di Energie Nove, Il Baretti e Rivoluzione liberale, morto esule a Parigi a soli 25 anni, dove si era rifugiato a causa della crescente repressione del regime fascista: «Parto per Parigi dove farò l’editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo o della polemica spicciola; vorrei fare un’opera di cultura, nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna».

Cosa posso farci? Quella è stata la mia educazione politica, in seguito arricchita seguendo qualche stimolo e il caso, nata ben prima che inaugurassi la mia brevissima “carriera” politica. Negli anni ’70 ho militato nei giovani PLR e nell’ambito dell’associazione dei maestri liberali radicali La Scuola: sono stato nel comitato e, soprattutto, ho lavorato sodo per pubblicare, fino a che fu possibile, il suo mensile. Certamente, almeno in quegli ultimi anni di uscite regolari, la rivista non emigrò verso quel liberalismo ticinese che oggi conosciamo fin troppo bene, quello sempre più vicino all’UDC – e lo conoscono anche gli elettori, basta vedere le flessioni elettorali da quegli anni a oggi. Quella è stata per me una vera scuola di politica. Va da sé che dagli anni ’70 a oggi il mondo è cambiato, ma gli insegnamenti di allora sono stati un faro importante, anche quando decisi di allontanarmi da quel partito, sempre più cadreghista e galoppino: ideologico, come direbbe la mia garbatamente piccata interlocutrice.

La signora Genini si lamenta perché, dice, ogni volta che si tocca il tema della gestione responsabile delle finanze personali emergono letture ideologiche che poco hanno a che vedere con la sostanza della proposta. Poi il rimprovero: Non è indottrinamento, non è propaganda. Mi dispiace che il signor Tomasina (sic) veda in questa proposta un tentativo di “forgiare menti conformi alla logica del profitto”.

Spiace anche a me, soprattutto perché non ho scritto né pensato una sciocchezza del genere. Che i liberali (radicali) di questo cantone usino da un po’ di tempo il sostantivo ideologia come una specie di insulto, da rivolgere principalmente a tutto ciò che è alla loro sinistra, è ormai diventata un’abitudine. Eppure anche la scuola – quella pubblica, obbligatoria e gratuita – si fonda su un’idea, non una qualunque. Quando i liberali radicali si impegnarono, coi socialisti, per l’istituzione della scuola media e per innumerevoli altre leggi che rappresentarono un nuovo paradigma istituzionale – una scuola partecipativa invece che verticistica, promozionale invece che selettiva – abbracciarono una scelta ideologica.

Felice Casorati (1883-1963), Ritratto di Piero Gobetti (1961).
Nel 1976, nel cinquantesimo anniversario della morte, La Scuola, mensile della Società dei Maestri Liberali-Radicali Ticinesi, pubblicò un testo di Diego Scacchi, Ripensando a Piero Gobetti (Tipografia Legnazzi & Scaroni, Locarno, giugno 1976).

Commentando un’interessante riflessione di Philippe Perrenoud, sociologo ginevrino (Quand l’école prétend préparer à la vie, 2011), che si chiedeva, provocatoriamente, se fosse utile alla vita futura imparare il teorema di Pitagora, avevo scritto che eliminarlo dai programmi della scuola dell’obbligo avrebbe comportato la cancellazione di molti altri contenuti, forse intere discipline: dalla letteratura alla poesia, dall’algebra alla musica, dalla biologia alla storia. È tutto un fiorire di conoscenze di cui, volendo, si può fare a meno. In realtà, il problema non risiede nel teorema di Pitagora, né negli eucarioti o nella Svizzera dei 13 cantoni, e men che meno in Petrarca, Manzoni, Bach o Michelangelo. Sul piano dell’arricchimento culturale, dello sviluppo della speculazione intellettuale e dello spirito critico servono ben altre conoscenze, che superano le competenze “pratiche” per preparare alla vita. Ma è palese che se tali conoscenze diventano le armi improprie della selezione scolastica, allora la scuola dell’obbligo viene meno al suo mandato.

Lo stesso Perrenoud sollevava poi un altro dilemma legato ad alcune discipline ugualmente “utili” e importanti per la formazione dei futuri cittadini, discipline che, tuttavia, non fanno parte, se non sporadicamente e di straforo, dei programmi della scuola dell’obbligo: psicologia e psicanalisi, sociologia, scienze politiche ed economiche, diritto, criminologia, architettura e urbanistica, tanto per citarne qualcuna. Ed è qui che arriviamo a proposte come quella della deputata PLR: educare la gioventù alla gestione responsabile delle finanze personali. Proposta legittima, salvo che ve ne sarebbero decine e decine d’altre. Ma la griglia oraria non può essere gonfiata oltre il troppo che già c’è. Quindi, che si fa?

Una proposta l’avrei: introdurre la filosofia sin dalla scuola dell’infanzia.

Ci osservano severi…
Scritto per Naufraghi/e