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L’agenda e la zizzania politica

Una polemica stucchevole imperversa da giorni a proposito del diario scolastico quale presunto strumento di indottrinamento. Un polverone che sa di tristemente elettorale

La polemica attorno all’Agenda della Svizzera italiana continua a tener banco. Il consueto diario scolastico per la scuola media, edito dal Dipartimento dell’Educazione e da quello della Socialità e della Sanità, ha come fil rouge per il 2023-24 Lo sguardo altrui: istruzioni per l’uso. Accanto ad alcune schede che informano e aiutano a riflettere, ci sono dieci storie raccontate, ognuna, con due disegni e un breve dialogo: dieci piccole storie per parlare di malintesi e pregiudizi, di come ci si sente e di come si vorrebbe essere. Nulla che sia fuori dall’ordinario, come dev’essere nello spirito di uno strumento di lavoro che accompagnerà allieve e allievi lungo tutto l’incombente anno scolastico.

Siamo in un ambito complementare ai contenuti disciplinari della scuola. Nell’agenda, per intenderci, non vi sono valutazioni, esercizi, compiti a casa e giudizi di valore. Tutt’al più ci sono degli spunti per riflettere o discuterne. È così da tanti anni, non solo dall’arrivo dei “rossi” al DECS – come insinuano i Torquemada nostrani – e senza scordare che la direzione socialista del Dipartimento dell’educazione, dopo decenni di gestione PLRT, non fu per nulla un golpe.

Eppure quest’anno si è scatenato il putiferio. Tra le dieci piccole storie, il vicesindaco di Locarno ne ha scovata una che gli è andata di traverso e che ha voluto condividere urbi et orbi: Giuseppe Cotti boccia l’agenda scolastica: “Banalizza la diversità di genere”. Non si contano gli interventi che intasano il Ticino massmediatico (e social) ormai da una decina di giorni e che hanno acceso i pruriti di una pedagogia codina. Ci vuole però una buona dose di malignità per leggere in quei brevi dialoghi dei pensieri chissà quali intenti di indottrinamento, tesi a far sì che i nostri adolescenti abbraccino, affascinati!, il cosiddetto terzo sesso, che ha peraltro una gamma di coniugazioni assai variegata.

Qualche esempio di tanto sdegno è forse utile annotarlo: «Con il pretesto dell’inclusione, della lotta al bullismo e alla discriminazione, nonché della tutela delle minoranze, ai ragazzi viene insegnata l’ideologia secondo cui maschio o femmina sono sensazioni interiori o percezioni, proprio come si legge nell’agenda che sarà presto distribuita agli scolari ticinesi» (Helvethica Ticino). Oppure: «La scuola rossa colpisce ancora: propaganda gender nell’agenda ufficiale del DECS. Inaccettabile il tentativo del Cantone di lavare il cervello ai bambini fin dalle elementari con l’ideologia ‘‘arcobaleno’’» (Lorenzo Quadri, Consigliere nazionale Lega, sul Corriere del Ticino). E ancora: «Si cerca di far passare che essere fluidi, dubbiosi sul proprio sesso – quando biologicamente e di fatto, o si è maschi o femmine [tertium non datur, secondo lorsignori] – siano scelte di tendenza e accattivanti. Ogni individuo è libero di sentirsi maschio, femmina e magari in futuro anche cane, gatto o canarino, ma non deve essere la scuola a promuovere e a mostrare come normale, delle anomalie comportamentali che toccano un’estrema minoranza della popolazione» (Piero Marchesi, consigliere nazionale UDC, su laRegione).

Suvvia, sarebbe fantastico se con dieci righe e due disegni fosse possibile – per usare un verbo un po’ sguaiato – indottrinare i nostri ragazzi alle leggi della matematica e delle scienze naturali, a insegnare in fretta e a un alto livello l’italiano e le altre lingue, insieme alle loro culture di riferimento, a conoscere e amare il variegato patrimonio delle arti. A meno che non si creda per davvero che sia possibile inventarsi un gender prêt-à-porter, così come si sceglie una t-shirt o un taglio di capelli.

Due parole, infine, devono essere spese sulla distribuzione dell’agenda in quinta elementare. Da un lato si dovrebbe rammentare che questo diario fa parte del materiale dell’ultimo anno della scuola primaria da quando è stata istituita la scuola media: era parso, ad alcuni insegnanti degli anni ’70, che poteva essere utile imparare a usare questo strumento, che nel precedente ginnasio mieteva tante vittime già al primo anno, quando il passaggio dal maestro al professore poneva molti problemi di organizzazione della settimana e della gestione di compiti a casa e test annunciati. Nel frattempo l’agenda si è evoluta nei suoi contenuti, pensando però, giustamente, agli alunni della scuola media. Sulla diffusione automatica dell’agenda già in 5ª, quindi, si potrebbe anche discutere, ma non certo per entrare nel merito delle farneticazioni sulle sue nefaste influenze.

Non può che essere giudicata preoccupante la scelta di alcuni Municipi di non distribuire l’agenda, come deciso a Tresa, Lugano, Massagno, Mendrisio e altri comuni. Ma, fortunatamente,  c’è chi rimette i puntini sulle i, in attesa che il Cantone intervenga con la necessaria severità per ricordare che la direzione generale della scuola spetta al Consiglio di Stato e non certo ai singoli municipi. Bene ha fatto, quindi, la sindaca di Castello, Alessia Ponti: «Non sta ai Municipi ergersi a paladini della moralità», ha commentato sul CdT di ieri. «I nostri bambini hanno affrontato temi anche molto più delicati, come la guerra in Ucraina. Tutto sta a come viene trattato l’argomento, ma è proprio del ruolo del docente saper usare le parole e la delicatezza giuste. E i nostri docenti si sono dimostrati molto tranquilli e consapevoli a tal riguardo».

Parole sante.

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Xenofobia, razzismo e rispetto fra i banchi di scuola

Discriminazioni e diritti calpestati passano più o meno sotterraneamente ogni giorno fra i gesti e le parole di allievi, docenti e famiglie. Urge una nuova sensibilità

Il Codice penale svizzero si occupa dettagliatamente, ormai da trent’anni, di Discriminazione e incitamento all’odio. Lo fa con l’art. 261bis, che tratta di razzismo, xenofobia e dintorni: sarebbe utile leggerlo a scuola, assieme alla Costituzione, e spiegarlo a insegnanti, alunni e genitori; e rinfrescarne regolarmente la memoria.

Simonetta Caratti, su laRegione del 17 luglio, ha pubblicato un commento particolarmente interessante. «Imparare cos’è il razzismo sin da piccoli, evita di diventare adulti discriminatori. È una sfida che riguarda l’intera società, in particolare la scuola, dove si stanno moltiplicando le segnalazioni di casi di razzismo, soprattutto verso persone afrodiscendenti».

Così continua: «Che ci sia chi gira la testa dall’altra parte è deludente. L’apertura si insegna con l’esempio quotidiano di tolleranza, prendendo posizione e condannando apertamente i comportamenti razzisti. Specialmente docenti, direttori e chi sta sopra. L’esempio deve venire dall’alto in una società che è permeata da un razzismo strutturale. Se un ragazzino cresce a pane e pregiudizi, c’è da sperare che in classe incontri un adulto che sappia mostrargli altri punti di vista, che allarghi il suo angusto modo di giudicare, che lo renda attento alle parole divisive che feriscono».

Purtroppo l’educazione alla tolleranza, all’empatia, al rispetto, al diritto, alla democrazia è un po’ come l’educazione civica. Certo, la si può confinare dentro una materia scolastica, coi suoi test e gli immarcescibili voti impressi sul libretto: come ha fatto recentemente il nostro Cantone. Ma, sin qua, non si vedono, neanche di sfuggita, risultati di qualche tipo; non fosse così, non saremmo qui a parlare di razzismo.

Negli anni ’80 del secolo passato la scuola del nostro Cantone fu confrontata per la prima volta con un’immigrazione che non parlava italiano. Oddio, l’affermazione è vera solo fino a un certo punto, perché prima c’era stato un altro fenomeno migratorio che parlava tedesco, ma non erano Gastarbeiter. Per i migranti germanofoni del secondo dopoguerra, spesso ricchi e cólti, si creò il primo servizio per gli alloglotti. La Legge della scuola del 1958 si era occupata di loro, e così aveva statuito: Il comune può istituire corsi preparatori di lingua italiana destinati agli allievi di altra lingua che non sono in grado di seguire normalmente le lezioni comuni (art. 94, Corsi per allievi d’altra lingua).

Giunsero, negli anni seguenti, bresciani, bergamaschi, vigezzini, ma parlavano italiano. Durante il boom economico, che fu anche il boom di quella speculazione edilizia che, d’altra parte, continua imperterrita, i migranti in Svizzera erano per lo più italiani del meridione, che i predecessori lombardo-veneto-piemontesi chiamavano terroni. Nel resto della Svizzera squillò l’allarme, e nel giugno del 1970 il popolo svizzero andò alle urne per esprimere il proprio parere sulla campagna contro l’inforestierimento, promossa da James Schwarzenbach, politico di estrema destra: tra La barca è piena e Cercavamo braccia, sono arrivati uomini. La proposta fu respinta dal 54% dei votanti.

Poi cominciarono a confluire in Ticino altre famiglie, provenienti da diverse parti dell’Europa e del mondo, chi per motivi economici, chi per ragioni di guerra e di sopraffazione. E non parlavano italiano. I numeri esplosero a macchia di leopardo in alcuni centri ticinesi. Già nel 1983 si riscoprì quell’art. 94 della legge scolastica per mettere in piedi i primi corsi per i nuovi alloglotti. A Locarno, nell’ultimo decennio del ’900, si registrarono percentuali attorno al 20%. Erano famiglie di rifugiati e lavoratori ai quali non mancava solo la lingua italiana. Erano storie di sofferenza e di emarginazione, che le fragili proposte interculturali non riuscivano a scalfire, così come si era disarmati di fronte al clima razzista e xenofobo che strisciava in un mainstream neanche tanto velato.

E allora: ha ragione Simonetta Caratti? Certo. Ci sono tante “cose” che si possono fare a scuola, sin dalla più tenera età, a partire dalla condanna ferma e rigorosa di chi osa voltare la testa dall’altra parte di fronte a ogni episodio di discriminazione più o meno palese. Ma di ciò di cui parla il 261bis del Codice penale ci sono occasioni a iosa, a scuola, per parlare, fare cultura, educare. Di ciò che il codice penale dovrebbe punire sono piene le arti – la letteratura, la poesia, la musica, la pittura, la religione, il teatro, il cinema. Ci sono i piccoli e grandi episodi della quotidianità, che si possono spiegare e commentare: anche quella dei giornali, dei TG, dei settimanali, dei social (si vedano, in questa sede le esternazioni social dentro un gruppo Facebook privato di sostenitori di Lega e Udc).

Chissà se i giovani formati o abilitati dalla SUPSI per insegnare nelle nostre scuole conoscono – per citarne uno non a caso – i lavori di Janusz Korczak, pedagogista, scrittore e medico polacco che fa parte a buon diritto della storia della scuola e dell’educazione? Ha scritto Erri De Luca: «Passai per via Krochmalna, dove abitavano i Singer, e per via Sliska, dove c’era l’orfanotrofio diretto da Janusz Korczak, che s’incamminò coi suoi centonovantadue bambini allineati verso i vagoni aperti della Umschlagplatz. Se riferiti a persone, i numeri vanno scritti per me in lettere. Le cifre vanno bene per ogni contabilità, tranne che per le vite umane. Per loro ci vogliono le lettere: centonovantadue bambini. Con quella schiera disciplinata e muta Korczak entrò nudo nei tre recinti concentrici del campo di Treblinka fino agli stanzoni dell’asfissia».

Poi, naturalmente, servono modelli significativi: in famiglia, a scuola, nella politica, in radio, in TV, su giornali, portali e blog. Oggi più di ieri il consenso attorno ai valori etici da trasmettere attraverso l’esperienza e la conoscenza non ruota più attorno a un modello riconosciuto di Società civile. La scuola, quindi, sembra assomigliare sempre meno al Paese in cui opera: ma tant’è, la confusione è universale. Così ci si potrebbe chiedere, credo legittimamente, se nel Piano di studio della nostra scuola ci sia spazio per quel che taluni considerano argomenti di nessuna importanza: la xenofobia, il razzismo, il rispetto. Il diritto.

 

Il trailer del film Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismäki (2011), umanissimo film che dovrebbe far parte della formazione di ogni giovane.

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L’etica in classe

A proposito delle nuove “Direttive sui comportamenti inadeguati in ambito scolastico” recentemente emanate dal DECS

Ho sempre inteso che le finalità della nostra scuola, impresse nell’art. 2 della Legge, contengono ed enunciano gli obiettivi più rilevanti. Richiamata la collaborazione con la famiglia e l’intero contesto in cui la scuola è inserita, i legislatori del 1990 puntarono alle istanze di giustizia e di libertà, attraverso la realizzazione, crescente con gli anni, del senso di responsabilità, dell’educazione alla pace, al rispetto dell’ambiente e agli ideali democratici. È una missione etica ed estetica, tesa a trasmettere – per dirla con l’antropologo britannico Edward Tylor (1832-1917) – quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società: cioè la cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico.

Il percorso è lungo, inizia con l’entrata nella scuola dell’obbligo e non dovrebbe mai terminare. Nel Piano di studio quelle finalità sono più sfumate, disseminate nei diversi capitoli che lo compongono. Non vi si leggono richiami specifici alle esperienze di pedagogia istituzionale, evocate dal filosofo e pedagogista americano John Dewey, secondo cui l’etica e la democrazia dovrebbero essere insegnate attraverso l’esperienza pratica e la partecipazione attiva degli allievi – teorie poi riprese da molti altri in Europa e nel mondo.

Gli spazi scolastici da dedicare allo sviluppo dell’etica e ai valori della democrazia non sono propriamente istituzionali, cosicché gran parte del compito poggia sulle spalle degli insegnanti e sulla loro capacità di stare a scuola con l’atteggiamento migliore per coniugare i contenuti dell’insegnamento coi fondamenti dell’educazione. Le occasioni sono giornaliere, basta saperle cogliere: quando si discute coi propri allievi, quando si aiuta chi è in difficoltà e si sprona chi ne ha bisogno, quando si valuta, quando si consiglia o si reagisce a ciò che gli allievi portano in classe, quando si elogia o si rimbrotta. E quando si parla coi loro genitori, alla ricerca delle necessità e delle urgenze educative, che devono trovare dei punti d’incontro, senza ricatti né prevaricazioni, da una parte come dall’altra.

«In nessun altro sistema sociale – avevo scritto in un articolo del 2000 (pp. 11-21) – la realtà è tanto frammentata e diversificata come nella scuola; le norme variano a seconda della personalità dell’insegnante, del suo umore, della sua storia, della sua visione dell’esistenza, del suo credo pedagogico. Ogni insegnante, di conseguenza, ha una sua maniera di approvare e disapprovare, di rimproverare ed elogiare, di punire e gratificare. In altre parole, ognuno ha un suo personale codice per regolare i comportamenti dei suoi allievi»: a condizione, naturalmente, che non ci si spinga mai oltre i rigorosi confini del Diritto.

D’accordo, sono passati cinque lustri, molti dei docenti di quegli anni sono usciti dalla scuola, il cambio generazionale è lì da vedere; così – si spera – anche i “codici penali” usati da ognuno. Sono convinto che l’autorevolezza sia più diffusa dell’autoritarismo, anche se gli autoritari, vestigia di una scuola che in troppi rimpiangono ancora, non si sono del tutto estinti.

Il DECS, un mese fa, ha emanato delle Direttive sui comportamenti inadeguati in ambito scolastico, che mi hanno francamente scombussolato. «Con “comportamento inadeguato” – si legge – si intende qualunque condotta impropria di adulti di riferimento che operano nella scuola. Un comportamento inadeguato si manifesta in particolare attraverso condotte, parole, atti, gesti, scritti capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità fisica, psichica o sessuale di allieve e allievi, rispettivamente di metterne in pericolo l’apprendimento, oppure di degradare il clima di istituto».

A me pare una direttiva più autoritaria che autorevole. Mi ha scandalizzato il furore enciclopedico con cui si specificano le forme diverse dei comportamenti poco consoni a un insegnante, come se i vertici del DECS avessero improvvisamente percepito larghe fasce di insegnanti in qualche modo violenti, e, dunque, inadatti.

Il ventaglio dei comportamenti sconvenienti è molto ampio, ma non necessariamente definito in termini concreti, come richiederebbe ogni codice serio, che andrà applicato di fronte a contegni indegni della professione. Lo spettro delle interpretazioni soggettive e legate alla propria idea di etica (comportamenti adeguati vs comportamenti inadeguati) è dunque arbitraria. Ma quando il DECS promulga una direttiva del genere al termine di un anno scolastico, è come se stesse dicendo che un numero significativo di docenti ha palesato comportamenti inadeguati, che attentano alla dignità o all’integrità fisica, psichica o sessuale di allieve e allievi, per cui bisogna correre ai ripari.

Ora, quand’anche questa fosse la realtà percepita, potrebbe voler dire che a qualcuno le cose siano colpevolmente scappate di mano. In tal caso non è mai troppo tardi per intervenire, avviando le inchieste ritenute opportune e procedendo con le misure più consone, senza insabbiamenti né sconti: come si fa con le persone normali.

Così, invece, si dà al paese un pessimo messaggio, che rischia di gettare ombre sui tanti insegnanti che fanno degnamente il loro lavoro, sovente in solitudine, accollandosi quella missione etica della scuola che non ha bisogno di nuove e minacciose direttive: bastano le norme della scuola, i codici dello Stato e la Costituzione.

 

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Quando la scuola pensa al minimo

Nel messaggio per una nuova Legge delle scuole dell’obbligo, fissate le dimensioni minime perché un istituto scolastico possa dirsi tale

Quattro giorni prima della votazione per eleggere il Consiglio di Stato e il Gran Consiglio, il governo ancora in carica aveva inoltrato al parlamento il messaggio per sottoporre «l’adozione di una nuova legge, la Legge delle scuole dell’obbligo, in sostituzione di due leggi vigenti che dovranno contestualmente essere abrogate». La data, un po’ sospetta, non ha mancato di sorprendere la commissione parlamentare ‘Formazione e cultura’, cui spetta il compito di esaminarla e di proporre il suo parere al plenum.

La tempistica inopportuna e, secondo la commissione, il «mancato coinvolgimento effettivo a 360 gradi degli attori interessati» sono le prime criticità sollevate dalla commissione. Ne ha riferito laRegione, che ne ha parlato con il presidente Aron Piezzi.

Di per sé la nuova legge potrebbe anche essere ritenuta poco importante, una questione formale per riordinare le basi giuridiche sulla scuola dell’obbligo. Tuttavia nella nuova versione compare almeno un argomento – il concetto di Istituto scolastico minimo – che l’Esecutivo ritiene molto importante per garantire un’effettiva comunità d’apprendimento. In buona sostanze ciò significa che un istituto scolastico comunale – che si occupa dei primi sette anni della scuola obbligatoria – per essere riconosciuto come tale deve avere una dimensione adeguata: «due su tre dei criteri seguenti: sette sezioni al minimo, 150 allievi al minimo, popolazione di riferimento di almeno 2’500 abitanti». Ne consegue che le piccole scuole di paese saranno definitivamente condannate a sparire, non a causa dello spopolamento – com’era stato in altri anni – ma perché la politica e la scienza ritengono che scuole più piccole non sono delle vere e proprie comunità capaci di trasmettere cose importanti da imparare. Sarà interessante sentire come si comporteranno i firmatari di un’iniziativa parlamentare PLR del 2018, che chiedeva elasticità nell’applicazione della regola secondo cui per istituire una classe, che in qualche caso può configurarsi come un intero istituto, occorrono almeno 13 allievi.

Ne avevo scritto in un articolo di quell’anno, presentando dapprima i termini dell’atto parlamentare (in corsivo le citazioni del documento): «Tenuto conto che le scuole comunali rappresentano un elemento di vitalità senza il quale una regione sembra davvero destinata a morte certa dal profilo culturale e comunitario propongono che si tenga conto delle caratteristiche socioculturali degli allievi, del contesto socioeconomico e della morfologia territoriale della regione, per eludere la regola pignola del 13/25. Auspicano dunque che la sensibilità verso questo aspetto possa essere largamente condivisa, in modo da offrire un elemento di sbarramento alla tendenza allo spopolamento delle periferie e di speranza verso un futuro in cui si possa finalmente intravedere un’inversione di tendenza favorevole a uno sviluppo di tutto il Cantone».

Se il concetto di Istituto scolastico minimo dovesse essere accolto così com’è oggi proposto, continuerà la soppressione delle piccole scuole di paese sopravvissute, iniziata già anni fa, con la creazione di consorzi scolastici come ne è pieno il cantone, senza contare le aggregazioni tra comuni, che naturalmente hanno giocato al risparmio. Nell’articolo citato avevo così concluso: «Molte scuole, ormai, hanno chiuso baracca. I villaggi che hanno aderito ai consorzi ben difficilmente inseriranno la retromarcia. Ma forse è ancora possibile, in alcune zone, invertire la rotta», senza parlare delle numerose aggregazioni tra comuni, che hanno “ottimizzato” gli spazi per la scuola. «Nei panni di una giovane famiglia che vuole allontanarsi dalle città e da certe periferie adibite a dormitori – avevo aggiunto – vorrei che i miei figli frequentassero la scuola elementare in paese e che vi si recassero a piedi, percorrendo e imparando a conoscere le sue vie e viuzze, gli edifici, i campi e le piazzette: anche perché la pluriclasse è cool».

Dans les classes à plusieurs niveaux, les élèves sont incités à s’entraider (Immagine tratta dal sito dell’Università di Montpellier – V. nota in calce)

Sono da sempre un estimatore della ricchezza educativa della massima eterogeneità all’interno di quella che il nostro governo definisce, un po’ pomposamente, “comunità d’apprendimento”. Ma è dall’eterogeneità che si impara e si cresce, spesso addirittura più e meglio dei raggruppamenti che vorrebbero limitare gli scarti. Oggi il fattore età è l’unica variabile per definire che classe devo frequentare, salvo rallentamenti o geniali salti di classe.

Invece continua la corsa a raggruppare, aggiungere specialisti e dirigenti, perfezionare le didattiche, densificare i piani di studio, misurare, valutare, selezionare. La scuola dovrebbe promuovere l’eterogeneità e la collaborazione tra allievi. Invece continua imperterrita a lottare contro le pluriclassi, che sono viste per lo più come un male minore, se proprio non se ne può fare a meno: meglio, di solito, scarrozzare qua e là i propri ragazzi col bussino, alla ricerca spasmodica di un’efficienza che è poco più di una comoda convenienza per indifferenziare il più possibile l’insegnamento. Io incoraggerei le pluriclassi anche laddove i numeri dicono che se ne può fare a meno.

Ebbene, la legge che sancirà la nascita dell’Istituto scolastico minimo omologherà definitivamente la sacralità di quelle almeno sette monoclassi per almeno 150 allievi con una popolazione di riferimento di almeno 2’500 abitanti per poter entrare nell’empireo delle vere comunità d’apprendimento. Tutto il resto, parrebbe, sono bazzecole.

Scritto per Naufraghi/e

L’immagine correda un interessante contributo di Sylvie Jouan, professoressa alla Facoltà dell’educazione dell’Università di Montpellier: Primaire : près d’un élève sur deux est scolarisé dans une classe “multi-âge”.

L’articolo citato era apparso nella mia rubrica sul Corriere de Ticino (Un villaggio senza la sua scuola è un villaggio senz’anima, 08.06.2018). Su temi analoghi avevo pubblicato, nel 2014, W l’eterogeneità, W le pluriclassi!

La scuola come istituzione, non come servizio

Docenti e allievi, fra piani di studio e pressioni delle famiglie

Su La Regione del 17 giugno, Giuseppe Cotti, vicesindaco di Locarno, ha pubblicato un’interessante opinione col titolo «Non esiste scuola senza rispetto». Tocca in particolare due temi d’attualità. «Gli insegnanti – scrive – si sentono confrontati, con frequenza crescente, con un clima ostile da parte delle famiglie».

Cotti coglie bene uno degli aspetti scatenanti di questo grave malessere che attraversa la scuola, assieme alla sua società di riferimento: «La scuola non è un buffet à la carte né una Landsgemeinde. Non possiamo consentire che venga trattata come un’entità negoziabile in cui selezionare solo gli aspetti che ci soddisfano personalmente».

Concordo. Quasi trent’anni fa il pedagogista francese Philippe Meirieu aveva già lanciato questo monito in un autorevole libro – L’école ou la guerre civile (pp. 64-5), titolo quant’altri mai premonitore. «La scuola – si legge – deve rinunciare alla gestione giustapposta e conflittuale di milioni di interessi privati; deve tornare a essere un affare pubblico. In altre parole, la scuola non è un servizio, è un’istituzione».

Poi chiariva: «Cos’è un servizio? È un’organizzazione che “fornisce servizi” a un gruppo di persone. La Posta è un servizio, come la rete stradale. La qualità di un servizio si misura dalla soddisfazione dei suoi utenti. Tuttavia, in una repubblica, devono esistere almeno tre organizzazioni che sfuggono alla logica del servizio: la giustizia, l’esercito e l’educazione. Queste sono istituzioni. Non si giudicano dalla soddisfazione dei loro utenti. L’educazione, durante il periodo dell’obbligo scolastico, deve obbedire a specifici valori. Non può diventare l’arena della competizione sociale. Chiedere alla scuola di soddisfare l’ambizione individuale di ognuno è condannarsi alla scuola-supermercato».

Purtroppo, è quel che è successo e continua a succedere dentro quel mondo complicato che è la scuola dell’obbligo, schiacciata tra pressioni delle famiglie, piani di studio stipati di competenze trasversali, dimensioni curricolari e una sovrabbondanza di aree e discipline, col loro corollario di traguardi di competenza illusori: un piano di studio che porta dritti al menu à la carte. Tuttavia, è proprio da questo piano di studio che, spesso, le famiglie prendono spunto per accusare maestri delle scuole comunali e professori della scuola media del fatto che i loro figli non imparano le conoscenze e le competenze così copiosamente illustrate e commentate in quelle 200 pagine di buoni propositi – si fa ovviamente per dire.

Nel citato articolo, Cotti osserva pure che «“Penuria” oggi è la parola più sentita, nella politica svizzera. L’abbiamo sentita nei dibattiti sull’energia, sulla situazione idrologica, sui farmaci essenziali e, ovviamente, sulla manodopera. A quest’ultimo proposito, molti Dipartimenti cantonali dell’educazione si sono trovati in gravi difficoltà. La scarsità di docenti ha obbligato, per esempio a Zurigo, ad assumere anche persone che non possedevano le qualifiche necessarie per gestire una classe». Oddio, nulla di scandaloso nell’assumere insegnanti senza le qualifiche richieste – fatto questo che non mette al riparo da competenze professionali carenti: perché un conto sono i diplomi, un altro ciò che i docenti sono in grado di fare.

Tra l’altro è già successo, negli anni ’70, nel Vallese francofono. Anche in Ticino, una decina di anni fa, per far fronte a una carenza di insegnanti nella scuola elementare, si era “snellito” il curricolo formativo previsto dal Dipartimento formazione e apprendimento (DFA) della SUPSI, mandando gli studenti dell’ultimo anno a “impratichirsi” a metà tempo come insegnanti contitolari nella scuola reale, come se fosse stato così difficile sapere che negli anni ’10 di questo secolo sarebbe iniziato un sostanzioso cambio generazionale, che chiamava a gran voce nuovi insegnanti, giovani e ben preparati.

Purtroppo, invece, siamo daccapo, con l’aggravante che, accanto a una riduzione del numero medio di allievi per classe, con proporzionale aumento delle classi di scuola, sono state inventate diverse figure professionali che, come formazione di base, esigono la patente di maestro: docenti d’appoggio, risorse casi difficili, operatrici per l’integrazione, docenti di lingua e integrazione…

Con tutto ciò, questa sorta di riforma della scuola, che è nata e cresciuta nel breve volgere di un decennio, ha coinciso con un importante ricambio generazionale, che ha messo sotto pressione il DFA, che è l’istituto chiamato a formare i docenti delle scuole comunali e abilitare all’insegnamento quelli del settore medio, una scuola che è più o meno coetanea di questa scuola dell’obbligo delle competenze.

Tuttavia è difficile capire se i docenti attualmente in carica sanno destreggiarsi dentro la ragnatela del piano di studio e, nel contempo, gestire le relazioni e la comunicazione con le famiglie dei loro allievi: perché organizzare la vita della classe, cioè un gruppo basato sul diritto e non sugli affetti, richiede la necessaria serenità e un congruo entusiasmo.

Scritto per Naufraghi/e