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I tempi della scuola

A ridosso dei giorni di fine anno scolastico, qualche considerazione sul calendario

Esiste un tempo giusto per andare a scuola? C’è qualche dato più o meno scientifico che determini quante ore alla settimana è necessario stare a scuola? E, parallelamente, qualcuno è in grado di dire con sicurezza qual è la miglior durata dell’anno scolastico e come si devono alternare i momenti scolastici e quelli dedicati al riposo? È una questione in parte astronomica, quasi cosmologica, e in altra parte antropologico-religiosa. Forse.

È sotto gli occhi di tutti che anche al centro dell’organizzazione dell’anno scolastico ci sia il Sole. Quando la terra avrà compiuto quattro rivoluzioni intorno al Sole, il bimbo nato poco dopo il solstizio d’estate dovrà andare a scuola. Ma l’economia preme, così che molti cuccioli di homo sapiens vanno già a scuola dopo tre giri, mentre altri sono affidati ai nidi per l’infanzia anche prima di concludere il primo giro: sennò non si sopravvive.

Questo circuito planetario scandisce tutto il resto. Dopo quei primi due giri obbligatori si entrerà nella scuola elementare, dove si permarrà per cinque giri. Poi nuovo cambio, per altri quattro giri. Da lì in avanti ognuno potrà continuare a inventarsi qualcosa al termine di ogni giro. Se lo desidera e glielo concedono.

Correttezza vuole che non si taccia sulle penitenze: come un grande gioco dell’oca, capita che qualche poveretto sia costretto a fare dei giri di penalità, oggi chiamati “rallentamenti” (una volta si chiamavano “bocciature”, ma la sostanza è la stessa): perché durante il giro bisogna superare tante prove, così da poter accedere direttamente al giro successivo.

C’è poi un secondo aspetto, antropologico-religioso, che determina i tempi. Come è noto, nel Canton Ticino l’anno scolastico apre i battenti a inizio settembre e chiude a metà giugno, dopo aver totalizzato 36 settimane e mezza (sic) di frequenza effettiva. Tra la partenza e l’arrivo si prevedono – ci mancherebbe – alcune soste per prendere fiato. Una pausa ogni tot settimane, come imporrebbe la logica? Neanche per sogno.

C’è una decina di giorni di vacanza attorno a Pasqua. Ma chi determina la data della Pasqua? Le necessità di riposo di docenti e allievi? No! La Pasqua è il deus ex machina delle feste mobili (e del calendario scolastico). La Pasqua cade nella domenica seguente il primo plenilunio che viene dopo l’equinozio di primavera. Chiaro? No? Amen.

Va da sé che la Pasqua, nel suo alone luminoso, genera innumerevoli altre pause. È il Cielo che prescrive le vacanze di Carnevale, così come il seguito di feste ammucchiate entro metà giugno (Ascensione, Pentecoste e, a volte, Corpus Domini). E le altre vacanze? Ci sono le vacanze autunnali, più note come «vacanze dei morti», che cascano in corrispondenza con Ognissanti. Seguono le mitiche vacanze di Natale. Restano le date d’inizio e fine dell’anno scolastico, nonché gli orari settimanali, che variano – e aumentano – in base all’età e alla tradizione. In Ticino le vacanze estive durano quasi due mesi e mezzo. In molti altri cantoni, soprattutto della svizzera tedesca, non è così, ma non è il caso di farne un dramma.

Nell’ultimo mezzo secolo sono cambiate tante cose. Sta cambiando il clima, e molti edifici scolastici sono stati ideati per riscaldare d’inverno, ma non per rinfrescare già in marzo. E tra i cambiamenti ai quali la scuola dovrebbe essere sensibile c’è tutto il mondo del lavoro, la qualità e l’entità dei salari, gli orari e la pianificazione delle vacanze.

La scuola ticinese sospesa in una bolla temporale (l’Aula storica Franscini di Lugano in una fotografia di Marco Beltrametti).

Così il cosiddetto doposcuola è diventato per molti una necessità sociale ed economica, e le ore del doposcuola possono essere più di quelle della scuola, anche se non si è capito come mai tocchi alla scuola, almeno quella obbligatoria, occuparsi anche dei suoi tempi morti – la refezione, il doposcuola, le colonie estive. Eppure, era cominciato col doposcuola ricreativo e artistico-sportivo, quello dei corsi di ceramica, pittura, teatro…

Poi arrivò il cosiddetto doposcuola sociale, per custodire i figli di tanti immigrati, di mamme sole che il sole non lo vedono mai, di poveri cristi che spesso non conoscono la lingua italiana, di famiglie che non hanno parenti nel territorio in cui vivono, lavorano e mandano i figli a scuola. Così sono nati gli asili-nido, le mense, le colonie diurne e quelle stanziali. Eravamo nella seconda metà degli anni ’70 del secolo passato.

Che ci siano i tempi della scuola e quelli della custodia e della sorveglianza è ormai un dato oggettivo, con percentuali di diffusione che variano naturalmente da un posto all’altro. Tuttavia, una maggiore articolazione tra i due potrebbe generare risultati vantaggiosi non solo, come ora, per l’economia privata, ma anche per gli allievi. Non si scordi che bambini, ragazzi e adolescenti che devono far capo ai servizi di custodia nei tempi morti della scuola portano sul groppone un carico supplementare di vita “sociale” – un po’ come fare gli straordinari: magari, al rientro, con qualche compito a casa, tanto per rallegrare quel breve tempo in famiglia, quando tutti sono stanchi morti.

 

Scritto per Naufraghi/e

La prima parte di questo articolo è stata tratta, con alcune modifiche, da un altro post presente in Cose di scuola: La scuola, la tradizione cattolica e il culto del sole (18.06.2014).

La foto di Marco Beltrametti (l’Aula storica Franscini di Lugano) è tratta dal progetto fotografico Aule.

Scuola e oneri burocratici

Se la gestione della scuola diventa sempre più complessa, non è il caso di aggiungere mansioni di segreteria a chi è in classe

Nel 2019 il deputato Aron Piezzi inoltrò al Consiglio di Stato un’interrogazione sul tema dell’onere burocratico nel cahier des charges degli insegnanti: «Molti attori della scuola dell’obbligo – aveva scritto – sono confrontati con un aumento non indifferente di oneri burocratici. Se da un lato essi possono considerarsi una necessità per lo svolgimento ottimale e professionale del proprio lavoro e per uniformare le pratiche sul territorio, dall’altro, un loro eccesso sottrae tempo prezioso ad altri compiti ritenuti fondamentali, come ad esempio la riflessione e la preparazione didattica e pedagogica».

Il governo aveva risposto in tempi piuttosto brevi: «Per fare un esempio, l’utilizzazione della banca dati GAGI (applicativo per la gestione informatizzata degli allievi e degli istituti) aiuta il docente a gestire le molteplici informazioni riguardanti i propri allievi, induce gli operatori di sostegno pedagogico a inserire i dati che permettono di stilare delle statistiche che orienteranno le scelte future, permette ai quadri scolastici di ottenere importanti informazioni. Si tratta di uno strumento impegnativo nella sua gestione, ma che non può essere considerato come un sintomo di eccessiva burocratizzazione del lavoro del docente, proprio perché esso è indispensabile per il buon funzionamento e per la gestione della scuola che diventa sempre più complessa».

Una sorta di sì ma: sì, c’è un obbligo nuovo; ma vuoi mettere la complessità del sistema?

C’è una parte amministrativa, o burocratica, che è lo spartito dell’insegnante. Ho fatto il maestro di scuola elementare per una decina d’anni, e ho sempre preparato, in ordine di importanza, il piano annuale, i piani mensili e i diari. Erano i miei spartiti. Il primo tracciava a grandi linee i temi portanti del mio anno scolastico, una sorta di manifesto di come intendevo interpretare il programma da svolgere. I piani mensili riorganizzavano di volta in volta il lavoro fatto, quello da fare, gli errori, le velleità e, sì, anche le scelte azzeccate e i sentieri sicuri. L’ultimo era l’ipotesi di lavoro del giorno dopo, da aggiustare sera dopo sera: perché lo spazio alle improvvisazioni, al caso, alle proposte diversive, agli imprevisti e agli errori di programmazione devono essere aggiustati cammin facendo. È una parte “burocratica” molto importante, che occorre predisporre con una grande attenzione alla pedagogia, che dà coerenza al percorso, e alle diverse didattiche disciplinari.

Ho sempre detestato la burocrazia obbligatoria, dispendiosa e, magari, insensata. Quando ho cominciato a insegnare vigeva ancora l’obbligo del rapporto scritto a fine anno scolastico. Non mi infastidiva questo momento di riflessione finale, con qualche valutazione personale che volevo condividere. Ma mi irritavo se il destinatario non mi dava un riscontro: magari, come temo, perché non l’aveva letto, si era limitato a registrare se il testo era giunto entro il termine stabilito.

Da quel che leggo e sento, intuisco che l’obbligo di rendicontazione – brutta parola, che rimanda alla contabilità e a certa burocrazia – è ben presente nella scuola; e, posso immaginarlo, alcuni resoconti hanno la loro ragion d’essere. È invece la moltiplicazione ossessiva di rapporti e relazioni che, anche grazie alle moderne tecnologie, crea effetti epidemici fuori giri: perché se io devo redigere un testo e lo devo diffondere ad altri, bisogna presumere che questi altri lo dovranno leggere, e io dovrò leggere i loro. È a questo punto che la condivisione di informazioni, spesso intrise di dati sensibili, rischia di sfuggire a ogni controllo e creare la burocrazia eccessiva e imprudente.

Nel marzo scorso, quindi a pochi anni dall’interrogazione del 2019, è apparso lo studio «Scuola a tutto campo», una pubblicazione della SUPSI, che contiene gli Indicatori del sistema educativo ticinese, un lavoro importante, che restituisce a scadenze regolari «una fotografia dei valori, delle finalità e delle qualità che caratterizzano la scuola ticinese, così come delle sfide con le quali è costantemente confrontata: equità, divario educativo, segregazione orizzontale e verticale, performance, transizione, dispersione, benessere, soddisfazione professionale, spesa pubblica per l’educazione…».

Scorrendo le sue 500 e più pagine di dati, tabelle grafici e commenti, non si trova la parola burocrazia, benché nel capitolo dedicato al benessere di allievi e insegnanti, faccia capolino l’aggettivo amministrativo, nelle le sue diverse varianti. Si scopre così che una significativa maggioranza di operatori della scuola dell’obbligo sono soddisfatti del proprio lavoro e ritengono che esso risponda alle proprie aspettative, malgrado alcune fonti di stress generate, secondo gli insegnanti interpellati, dal ritmo e dalla complessità del lavoro.

Occorre sempre garantire all’insegnante di potersi dedicare pienamente al suo lavoro, che è fatto di programmazione, insegnamento, valutazione, soprattutto formativa, differenziazione, bilanci; di relazioni coi suoi allievi e con le loro famiglie; di formazione continua e di aggiornamento professionale e disciplinare (senza bisogno di rapporti quadriennali…); di impegnarsi affinché ogni allievo raggiunga il massimo delle sue conoscenze e competenze nell’ambito delle sue possibilità, in un ambiente in cui sbagliare non sia pericoloso: con una costante attenzione etica e istituzionale.
Se la gestione della scuola diventa incessantemente più complessa, non è il caso di aggiungere mansioni di segreteria a chi è in classe: si cerchino invece altre strategie.

Scritto per Naufraghi/e

Plata, A., & Castelli, L. (a cura di) (2023). Scuola a tutto campo. Indicatori del sistema educativo ticinese. Edizione 2023. SUPSI-DFA.

Intelligenza artificiale e scuola, per una scuola che sia intelligente

Dai primi rudimentali computer apparsi negli anni ’80 a ChatGPT: informatica e IA sono strumenti importanti e utili, basta sapere per che cosa

L’arrivo di ChatGPT, che si autodefinisce «assistente virtuale in grado di comprendere il linguaggio naturale dell’utente e di generare risposte appropriate», mi offre lo spunto per alcune considerazioni attorno al rapporto tra la scuola e il vasto mondo delle TIC, le Tecnologie dell’informazione e della comunicazione: computer, reti, telefonini, robot…

Confesso che la prima volta in cui sentii la parola informatica fu verso la metà degli anni ’70, fin lì non avevo la minima idea di cosa fosse. Quella sera c’era il primo incontro di un gruppo di lavoro del PLRT, che avrebbe dovuto occuparsi di mass media, cioè di giornali, riviste, cinema, radio, televisione; e pure di informatica, ma io non lo sapevo ancora.

Presiedeva il gruppo Giancarlo Olgiati, avvocato, all’epoca deputato al Gran Consiglio. Durante quel primo incontro parlò a lungo di informatica, raccontò, con numerosi esempi, che entro pochi anni in tutte le nostre case avremmo avuto un computer, un “coso” che avrebbe rivoluzionato il nostro modo di vivere, lavorare e comunicare. Con un po’ di fantasia si può immaginare lo scetticismo che serpeggiava e che i presenti mascheravano.

Come molti della mia età ho avuto i primi contatti con l’informatica negli anni ’80, attraverso gli home computer Commodore. Ma la vera rivoluzione arrivò col fantastico Macintosh 128K, data di nascita il 24 gennaio 1984, una sorta di computer di Neanderthal, che costava un sacco di soldi, epperò rendeva l’uso del PC facile e intuitivo: What you see is what you get, ciò che vedi è ciò che ottieni. Per dirla tutta: costava oltre 10 mila franchi e funzionava con 128 KB di memoria RAM e un floppy da 400 KB, una magra figura in confronto agli smartphone che ci portiamo in giro oggi, macchine di potenza e velocità inimmaginabili rispetto a quei primi strumenti “sovversivi” di neanche quarant’anni fa.

E la scuola, in tutto ciò?

Da tempo c’è chi invoca un maggiore coinvolgimento della scuola nell’ambito delle TIC, che sono dappertutto, anche quando nessuno se ne accorge. Così, di pari passo con la loro vertiginosa evoluzione, si chiede da sempre che la scuola si metta al passo coi tempi, ciò che, in pratica, è un ossimoro. Credo che quando si parla di potenziare la dotazione scolastica TIC, prima del Cosa bisognerebbe chiedersi Per fare cosa, perché la mercanzia tecnologica non risolve di per sé problemi educativi e formativi che non per forza sono nel DNA di quest’epoca orwelliana: le priorità sono altre.

Diciamo che qualche ritardo lo si è accumulato, e che troppe volte, nelle aule, si è giocato in difesa, confondendo il fine coi mezzi, tipo fare cose vecchie con strumenti nuovi. Non so se la nostra scuola si sia mai chiesta come usare le nuove tecnologie per fare una scuola migliore. Il dubbio è che ci si limiti all’immediata spendibilità dei nuovi media. Non so, in altre parole, se la scuola sia stata in grado di capire in che misura le TIC avrebbero potuto migliorare e potenziare i piani di studio.

Nell’immagine: un’inquietante rappresentazione dell’intelligenza artificiale a scuola prodotta… dall’intelligenza artificiale

Mentre i parlamenti comunali e cantonali si occupavano di comprare computer e lavagne interattive, le famiglie acquistavano a vanvera la tecnologia proposta dalla pubblicità, sempre più potente e rapida: per farne cosa? Lo si è visto nelle settimane del blackout del 2020, quando la pandemia aveva sconvolto un terzo dell’anno scolastico, due mesi chiusi in casa con la scuola a distanza, tra insegnanti male in arnese (a volte non solo tecnologico) e famiglie chiuse in casa, alle quali si chiedeva di aiutare i figli a svolgere i compiti somministrati a distanza – una sorta di delega didattica.

In questo senso ChatGPT, forma avanzata di intelligenza artificiale, ha già fatto nascere qualche timore, tipo che sostituisca presto i giornalisti e che gli studenti si facciano scrivere le tesine e molto altro ancora… Oddio, copiare è un’arte tutta scolastica, con una lunga tradizione di “bigini” e di arrampicate sui vetri.

Eppure è ancor oggi assai saggio accostarsi alle enciclopedie, digitali o no, con una sana diffidenza. Qualche giorno fa, per dire, stavo giochicchiando con ChatGPT. Ho inserito un titolo, «E le stelle stanno a guardare». Responso dell’oracolo: «È una citazione tratta dal poema “L’Infinito” di Giacomo Leopardi. Questa frase, in particolare, è presente nella seconda strofa del poema». Se fossi stato uno studente e l’avessi presa per oro colato, mi sarei ficcato in un bel guaio.

Avevo replicato seccamente, dopo di che, “intelligentemente”, erano arrivate le scuse, la risposta esatta e un breve svolgimento del tema. Il bello, però, è che nei giorni seguenti io e altri abbiamo provato a sollecitare nuovamente ChatGPT col medesimo titolo, magari con qualche variazione, ottenendo risposte completamente diverse, a volte corrette, altre sconnessamente fantasiose.

Assolutamente no! Nell’Infinito non c’è traccia di “E le stelle stanno a guardare” – tutt’al più è il titolo di un romanzo di Cronin.

Ha scritto Wikimedia: «I grandi modelli linguistici come ChatGPT stanno rivoluzionando il modo in cui interagiamo con la tecnologia e con cui utilizziamo i dati. Questo ha serie implicazioni sulla conoscenza. Mai prima d’ora è stato così facile creare, utilizzare e condividere informazioni – veritiere e non. Ecco perché le fonti di informazione neutrali e attendibili sono più importanti che mai».

È un discorso che vale anche per la scuola, sempre più costretta a rivalorizzare tutto quel lato umanistico sacrificato negli anni sull’altare di un utilitarismo fuorviante. Non si tratta di negare l’avvento dell’intelligenza artificiale o di demonizzarla, si sa che sono battaglie perse in partenza. L’interazione con le TIC – ChatGPT e simili comprese – dovrà essere sempre più consapevole, solida, rigorosa e soprattutto critica, per non prendere fischi per fiaschi senza accorgersene.

Scritto per Naufraghi/e

La scuola come cantiere davvero sperimentale

Un luogo dove si eserciti la cooperazione, la comunicazione, la creatività, l’autonomia dell’allievo, con maestri normali: né eroi né missionari

Si dice che la scuola sia un cantiere perennemente aperto – semper reformanda, ha scritto qui Saverio Snider qualche giorno fa. È una visione che tiene duro almeno da mezzo secolo. Parrebbe, insomma, una sorta di Sagrada Família, ma senza data di scadenza.

È però difficile capire quando fu aperto il cantiere della scuola contemporanea, mentre si sa che l’obbligo di frequentarla rimanda a inizio ’800. Oggi non le sfugge praticamente nessuno: tra i quattro e i quindici anni un allievo che non ripete neanche una classe trascorre a scuola ben più di diecimila ore, senza contare i compiti a casa. Ha scritto Philippe Perrenoud, sociologo ginevrino, che se la medicina potesse occuparsi della popolazione anche solo per una porzione infinitesimale del tempo della scuola, non le si perdonerebbe nemmeno un raffreddore.

Il cantiere è sempre aperto, ma a me pare che dietro le narrazioni, gli studi e i rapporti, questa scuola continua ad assomigliare maledettamente a quella che avevo frequentato negli anni ’60. Ci sono un sacco di riforme più amministrative che pedagogiche, tant’è che il modello pedagogico ancor oggi egemonico è anche quello più conosciuto: lezione ex cathedra (la lezione resta ex cathedra anche laddove l’insegnante passeggia tra i banchi) + esercizi applicativi (sovente da svolgere a casa propria) ⇾ valutazione.

A parte questo piccolo appunto, l’articolo di Snider è interessante, benché finirà probabilmente anch’esso, come tanti altri, nel cassetto delle buone riflessioni. Naturalmente ne è consapevole, tanto che, scrive: “ricette non ne ho, se non quella di riuscire a cambiare la testa della maggioranza delle persone, impresa che, pensando alla scuola, nemmeno a quella eccezionale ed esemplare personalità che fu don Milani riuscì ai suoi tempi”.

Don Lorenzo è stato un personaggio importante. La sua «Lettera a una professoressa» fu oggetto di citazioni e censure. Si citava ciò che faceva comodo, confidando che tra citarla e leggerla poteva esserci un mare. Si parlava volentieri della sua scuola, nata da alcuni contrasti con la Curia di Firenze, che lo allontanò mandandolo a Barbiana, paesello sperduto della Toscana.

Così don Milani diventa un modello da imitare, benché il contesto stesso in cui si svolse l’esperienza pedagogica del priore toscano sia unico e forse irripetibile. La sua visione di scuola prevede esplicitamente che il maestro è e deve essere un missionario, una sorta di eroe e di martire: «La scuola a pieno tempo presume una famiglia che non intralcia. Per esempio quella di due insegnanti, marito e moglie, che avessero dentro la scuola una casa aperta a tutti e senza orario. L’altra soluzione è il celibato».

Ma c’è anche un’altra storia affascinante, iniziata nel 1920 e che dura tutt’ora. È la storia di Célestin Freinet (1896-1966), che sceglie di fare il maestro e vuole riformare la scuola partendo dai suoi pessimi ricordi di alunno. Nella scuola del suo villaggio, nelle Alpi marittime francesi, c’era un solo libro di lettura per tutta la classe, si ricevevano tutti le stesse lezioni frontali, a cui si doveva rispondere con la capacità mnemonica, per imparare quelle nozioni e saperle ripetere.

A partire da quel suo primo anno di scuola, Freinet diede vita a una pedagogia basata sulla costruzione del sapere attraverso la sperimentazione, la cooperazione, la comunicazione, la creatività, l’autonomia. Siamo nel campo della scuola attiva, in cui l’insegnante ha un ruolo centrale e nel contempo discosto. È lui che provoca i processi di apprendimento, che favorisce la cooperazione e la collaborazione, anche per rafforzare la forza e le opportunità offerte dal gruppo, in un contesto che fa a pugni con la competizione per essere il primo della classe. Secondo Freinet si impara a parlare parlando e a camminare camminando, così come si acquisisce la conoscenza sperimentando, in un modo che lui chiama «naturale». Nella sua classe ci sono diversi laboratori: per il lavoro manuale di base (allevamento, lavoro dei campi, falegnameria, costruzioni…) e per le attività più evolute, socializzate e intellettualizzate (ricerca, conoscenza, documentazione; sperimentazione; creazione, espressione e comunicazione grafica e artistica).

Assai nota è la sua invenzione della tipografia scolastica, che compare nella scuola dove insegnava già nei primi anni ’20, una moderna tecnologia per imparare a scrivere e a comunicare. Porta a scuola i caratteri mobili coi quali ogni allievo scrive le sue frasi. I testi venivano poi stampati con una pressa e diventavano il giornalino. Molte, come si può intuire, sono le competenze messe in gioco e, nel contempo, si sviluppa il senso di collaborazione reciproca.

Nel corso degli anni le sue tecniche si svilupperanno e, attraverso il giornalino e la corrispondenza scolastica, coinvolgeranno altri maestri incuriositi e affascinati da questa pedagogia così diversa. A partire dagli anni ’50 la corrispondenza tra scuole e lo scambio di giornalini riguardò un numero crescente di maestri, tanto che nel 1957 fu istituita la Federazione Internazionale dei Movimenti di Scuola Moderna, alla quale seguirono negli anni altre importanti associazione sparse nel mondo – da noi, ad esempio, CEMEA Ticino.

L’approccio di Freinet alla scuola è naturale, popolare, attivo, umanista nel senso più esteso e liberale del termine. Converrebbe conoscere bene i lavori di Célestin Freinet e dei suoi epigoni, che hanno disegnato una scuola idealista ma non utopica, fatta da professionisti preparati, laici e intellettualmente liberi.

Maestri normali, né eroi né missionari.

Scritto per Naufraghi/e

La citazione di don Milani è tratta da Lettera a una professoressa, 1967, Libreria editrice fiorentina, p. 86

Altri riferimenti:

CÉLESTIN FREINET, La scuola moderna – Guida pratica per l’organizzazione materiale, tecnica e pedagogica della scuola popolare, trad. it. di Enrico Bottero, 2022, Trieste: Asterios Editore

PHILIPPE PERRENOUD, La pédagogie à l’école des différences – Fragments d’une sociologie de l’échec, 1995, Paris: ESF éditeur

Convergence(s) pour l’Education Nouvelle

 

La scuola delle pari opportunità e della differenziazione

Nell’era di un piano di studio, autoritario e complesso, che finisce per trasformare la vita a scuola in un cimitero dell’entusiasmo e della passione

Quando si parla si scuola, soprattutto di scuola dell’obbligo, piace a molti sciacquarsi la bocca con le pari opportunità e la differenziazione. Quasi mai si riesce a capire cosa si intenda per differenziazione. Le pari opportunità che si vorrebbero a scuola, invece, sono più esplicite. Di solito chi le evoca intende dire che a ogni allievo vengono garantite identiche condizioni di partenza: gli stessi programmi, gli stessi supporti didattici, gli stessi insegnanti (il prof. Zambelloni, una volta, osservò ironicamente che nella scuola coesistono insegnanti straordinariamente bravi e insegnanti normalmente bravi).

Ad esempio, Sergio Morisoli, oggi parlamentare UDC, scrisse che «Occorre garantire le stesse condizioni di partenza per tutti, ma non la parità di risultati. La scuola va differenziata, non siamo tutti uguali (CdT 12.08.2012)». Circola una vignetta che, col dovuto cinismo, illustra questa diffusa versione delle pari opportunità. Vi si vede un maestro, seduto alla cattedra, davanti a una classe un po’ speciale: un corvo, uno scimpanzé, un marabù, un elefante, un pesce rosso nella sua boccia di vetro, una foca e un cane, e sullo sfondo un albero. Bene – dice il maestro – adesso facciamo un esercizio. Il compito è uguale per tutti: arrampicatevi sull’albero». È quel che succede a scuola. Un mese dopo l’inizio dell’anno scolastico c’è già chi arranca, non capisce, resta indietro. Poi arriveranno gli specialisti, i genitori saranno convocati e sentiranno dirsi che il pargolo ha tante difficoltà. Magari a fine anno sarà bocciato (oggi si dice «rallentato»), e l’anno dopo dovrà rifare anche quel che aveva già imparato.

Su un numero speciale della rivista romanda Éducateur (febbraio 2012), dedicato ai cento anni di vita dell’Institut Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, il sociologo Walo Hutmacher pubblicò un articolo dal titolo intrigante: Réclamer l’égalité des chances, c’est s’empêcher de viser l’égalité des résultats a un niveau élevé. «Le pari opportunità – scriveva – fanno parte della scuola pubblica. Ma è un’uguaglianza astratta, di maniera, perché presume, senza dirlo, che la scuola di base sia una gara, così che ha un senso solo in una scuola selettiva».

Rivolgendosi alla politica per contraddire quella sorta di mainstream che si è appropriato di due parole – pari opportunità – per farne un comodo alibi, continuava così: «Contrariamente a ciò che dicono tutti i partiti, la politica non deve mirare alle pari opportunità, ma puntare all’equità dei risultati a livello elevato, allo scopo di creare buone capacità per affrontare le esigenze della vita sociale, civica ed economica. L’equità dei risultati è meno astratta delle pari opportunità. In senso assoluto è inarrivabile, ma si può tentare con tenacia di avvicinarvisi. Bisogna però farne un’ambiziosa meta politica. La logica della selezione estremizza le regole del gioco: per allievi e genitori che sono, loro malgrado, protagonisti di un processo di selezione, lo scopo principale non è quello di imparare, bensì di “riuscire”, di “essere promosso”. In questa logica i più bravi si accontentano di “gestire la loro media” col minimo sforzo, mentre i più deboli si scoraggiano davanti a ostacoli che ritengono di non poter superare».

L’attuale Piano di studio della scuola dell’obbligo richiama una dichiarazione d’intenti della Conferenza intercantonale dell’istruzione pubblica della Svizzera romanda e del Ticino, che, tra tante enunciazioni, afferma che «La Scuola pubblica assume compiti di educazione e di trasmissione di valori sociali, tra i quali la promozione delle pari opportunità a livello di riuscita scolastica». Un dichiarazione per lo meno ambigua, soprattutto alla luce delle quasi 300 pagine che dovrebbero contestualizzare gli obiettivi della scuola obbligatoria attraverso i «piani disciplinari», le sue «aree» e le sue materie.

I programmi delle scuole obbligatorie del 1959 – Scuola elementare e maggiore, scuola di economia domestica e di avviamento professionale – di pagine ne avevano 74. E così introducevano il discorso: «Un programma non può essere che uno schema offerto all’insegnante perché lo trasformi in cosa compiuta e viva». Diciamo che c’era una diversa stima degli insegnanti e dei loro allievi.

Ora invece siamo confrontati con un piano di studi velleitario e illusorio, che ha bisogno, per funzionare in qualche modo, di tante figure professionali che si accalcano nelle aule, frammentano le competenze, diluiscono le responsabilità. Nella scuola obbligatoria si possono incontrare i docenti di appoggio, di sostegno pedagogico, di lingua e integrazione degli alloglotti, oltre a logopedisti, psicomotricisti, psicologi, specialisti per la gestione dei casi difficili e operatrici pedagogiche per l’integrazione.

Permane, sullo sfondo, la solitudine del docente, che dovrebbe essere il vero regista di ciò che succede nella sua aula. Invece quel Piano di studio, autoritario e complesso, finisce per trasformare la vita a scuola in un cimitero dell’entusiasmo e della passione, per chi deve insegnare e per chi deve apprendere. Vedremo presto se ci saranno la volontà politica e la capacità e di ricreare una scuola serena, in cui insegnare e imparare tornino a essere momenti da ricordare per tutta la vita con almeno un po’ di piacere.

Scritto per Naufraghi/e

Nel mio blog si trovano numerosi articoli sul tema delle pari opportunità nella scuola. Alcuni sono stai pubblicati su giornali o riviste (soprattutto nella rubrica «Fuori dal’aula», che ho firmato sul Corriere del Ticino per quasi vent’anni). Altri sono apparsi solo nel blog. Tra questi mi piace richiamare Cos’hanno ancora di così rivoluzionario, oggi, le pari opportunità? (16.05.2016).