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«Baciare non è come aprire una scatoletta di tonno»: un dibattito sulla scuola a partire dal romanzo di Daniele Dell’Agnola

BIBLIOMEDIA SVIZZERA ITALIANA segnala che venerdì 12 dicembre alle 20.30, alla Bibliomedia di Biasca si terrà, si terrà un dibattito sulla scuola intitolato La scuola è finita. All’incontro, moderato dalla giornalista Giulia Fretta, parteciperanno il direttore delle scuole medie di Castione, Dario Ciannamea, la presidente del Comitato cantonale dei genitori, Anna De Benedetti Conti, il docente e scrittore Daniele Dell’Agnola e il pedagogista Adolfo Tomasini. (Qui è possibile scaricare il volantino).

Nel corso della serata l’attrice Cristina Zamboni leggerà alcuni brani del libro di Daniele Dell’Agnola – ambientato in ambito scolastico – Baciare non è come aprire una scatoletta di tonno (Infinito edizioni, 2014), che suggeriranno gli argomenti per il dibattito.

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Il romanzo, come già il precedente Melinda se ne infischia, è divertente e di grande interesse. Il 17 ottobre scorso ho partecipato al convegno «Quale didattica per l’italiano?», organizzato dal DFA/SUPSI, e ho seguito la “Sessione parallela” animata da Dell’Agnola, che ha presentato una sua esperienza pratica, con un profluvio di particolari e l’entusiasmo che lo contraddistingue: «Tavolozza dei personaggi. Dalla lettura di otto classici, all’incontro sul palco. Sperimentazione svolta con 14 allievi di seconda media». Sono convinto che Melinda, che se ne infischia (e fa bene), e aprire la scatoletta di tonno, azione molto diversa dal baciare, nascano proprio dalle esperienze dirette dell’autore, che le ha vissute a tutto tondo, senza risparmi. Daniele Dell’Agnola è un grande interprete della vera essenza della scuola media, la scuola che tutti sono obbligati a frequentare.

Una bella storia di settant’anni fa

Mi piace proporre un articolo apparso su La Regione Ticino di oggi, lunedì 15 settembre 2014. L’intervista di Eminio Ferrari racconta la storia di Enrico Loewenthal, un ragazzo ebreo di famiglia benestante nell’Italia fascista, andato a resistere nel 1943 tra i partigiani in Valle d’Aosta. Come Primo Levi.


Enrico Loewenthal non parlava più tedesco da quando dovette lasciare la scuola in quanto ebreo, ma fu in quella lingua che intimò il ‘mani in alto’ a due soldati della Wehrmacht: ‘Hände hoch, bitte’. La sua militanza nella Resistenza italiana sfata l’immagine della vittima designata e riscrive un capitolo della storia tragica del secolo scorso. A colloquio con il partigiano Ico.

Rivoli – «Hände hoch, bitte». D’improvviso, inaspettatamente, il tedesco riaffiorò alle labbra di Ico. Con il mitra spianato ordinò a due stupefatti soldati della Wehrmacht di alzare le mani. «Per favore». In casa sua quella lingua era vietata da quando, ragazzino, era stato allontanato dalla scuola tedesca che frequentava a Torino. Da quando, cioè, aveva appreso che cosa comportasse essere ebreo negli anni Trenta del secolo scorso. «Ero ancora alle Elementari e dopo la convocazione del preside per comunicarci che non ero più ammesso alla sua scuola mio padre mi aveva proibito di parlare ancora la lingua di chi ci considerava una peste della Storia. Il mio tedesco era rimasto quello di un bambino». Ma quando, un freddo giorno del 1944, fermò i due militari tedeschi nel corso di un’operazione di guerriglia in Valle d’Aosta, a Enrico Loewenthal, divenuto ormai il partigiano Ico, venne spontaneo apostrofarli nella loro stessa lingua. Il che li stupì non poco, ma non quanto quel “Bitte”, che mai si sarebbero immaginati di sentirsi indirizzare da un “bandito”. Loro che, come disse poi uno dei due a Ico, erano stati istruiti ad ammazzare prima di intimare mani in alto. Né avrebbero immaginato che quel ragazzo non solo fosse in grado di usare una tale forma di cortesia col dito sul grilletto, ma che li avrebbe poi fatti accompagnare al confine svizzero, risparmiando loro la vita. È una storia del Novecento quella che Enrico Loewenthal, classe 1926, racconta ancora oggi nella sua casa di Rivoli, esemplare nelle sue illuminazioni così come nelle sue contraddizioni. Nelle sue tragedie e nell’ironia che affiora nel ricordo di uno dei non molti partigiani ebrei della Resistenza italiana. E senza retorica: «Guardi, io sono soltanto un ebreo frusto come tutti gli altri, che a un certo punto si è opposto a una persecuzione. Lo devo a mio padre soprattutto». Guarda il caso: Enrico Loewenthal era concittadino di Primo Levi, anche lui torinese, anche lui partigiano in Valle d’Aosta, ma poi arrestato e condotto ad Auschwitz. Una scelta non del tutto isolata, dunque, ma di quelle che la più consolidata narrazione della Resistenza ha molto spesso ignorato o marginalizzato. Associata alla storia del secondo conflitto mondiale, la figura dell’ebreo – quantomeno in Italia – è quella della vittima piuttosto che del combattente. «In effetti – conviene Enrico Loewenthal – di ebrei che abbiano fatto la Resistenza ce ne furono pochi. Quanto a me, devo dire che la mia lotta è cominciata ben prima del 1943. Ho vissuto la vita del ragazzo ebreo di famiglia benestante nell’Italia fascista: dapprima sono stato cacciato dalla scuola tedesca, e dopo il varo delle leggi razziali anche dalla scuola pubblica italiana. Covavo una rabbia che cresceva con l’età, e quando, quindicenne, sono andato a far pratica in una piccola officina di un armaiuolo ho cominciato ad acquistare alcune vecchie armi lasciatevi dagli ufficiali italiani che volevano spuntare qualche soldo. Devo pur dire di essere stato uno stupido a non prenderle con me quando, dopo l’8 settembre, sono fuggito da Torino con la mia famiglia».

Diciassette anni, partigiano

Una fuga, come racconta nel suo “Mani in alto, bitte” (recentemente tradotto in tedesco), che durò poco. Non perché Enrico venne preso, ma perché ben presto, diciassettenne, si arruolò nelle formazioni garibaldine che si erano già costituite nelle valli del Torinese. La rigidità ideologica e le pretese egemoniche dei “comunisti”, come li chiama lui («è da allora che non li sopporto»), gli fecero poi preferire le formazioni di Giustizia e Libertà di Ferruccio Parri e infine, sino alla Liberazione, aderì a quelle autonome in Valle d’Aosta. Non senza aver conosciuto prima i pericoli e l’ebbrezza di lunghe traversate delle Alpi per procurarsi armi e materiale americano in Francia. «Avevo convinto il mio comandante a lasciarmi partire con due guide. Gli dissi che avrei camminato finché avrei trovato gli americani. E ce la feci. Così tornammo carichi di armi e con indosso divise americane. Può immaginare i sospetti e l’invidia delle altre formazioni». E possiamo oggi immaginare quanto poco sospetti e invidia potessero fiaccare il coraggio di quel ragazzo che nel dopoguerra sarebbe diventato uno stretto collaboratore di Simon Wiesenthal nella caccia ai criminali nazisti fuggiti dall’Europa. Perché, vi ritorniamo, se la storia del partigiano Ico è analoga a quella di molti resistenti, a distinguerla c’è la sua discendenza ebraica. E quanto a questo la sua esperienza e le sue parole sono nette. «In famiglia sapevamo che cosa si stava preparando nella Germania nazista attraverso le lettere dello zio Alfred: le violenze, la propaganda, i bandi dal lavoro, dalle scuole, dalle attività commerciali. Finché la sua ultima lettera ci avvertiva: ‘Ci hanno chiesto di tenerci pronti per essere trasferiti a est dove potremo reinsediarci e lavorare’». Trasferiti: su che tipo di vagoni e per quale destinazione oggi lo sappiamo. Oggi, appunto. La cognizione di che cosa si stava preparando, allora poteva non essere ancora chiara. Nell’Italia fascista i segni potevano essere contraddittori. Non dopo le leggi razziali del 1938. «Ci furono due fascismi – dice Ico –. Il primo è quello che molti italiani sostennero con un sentimento nazionalista più che per adesione ideologica. Ci furono ebrei profondamente fascisti e monarchici. Mio fratello – la sua storia è emblematica – partecipava da giovane alle riunioni dello Shabbat, nel corso delle quali si discuteva di bibbia ed ebraismo, ma fu denunciato per attività contro lo Stato da una spia, un ebreo. Finì in prigione e ne uscì traumatizzato. Si è trascinato dietro questa macchia, divenne un fascista convinto e fortunatamente mio padre riuscì a farlo emigrare in America con l’ultimo viaggio del Rex».

Una storia di persecuzioni

Ico no. Non volle allora né oggi essere vittima condiscendente o corrispondere all’icona dell’ebreo “inviato al macello”, che tanto ha fatto scrivere, dire e contraddire. «Sono sì stato un bravo ragazzo ebreo che seguì tutto il percorso di formazione e integrazione nella comunità (ma non sono credente, semmai sono parte di una tradizione), ma la mia esperienza successiva è stata in effetti un’eccezione. Tenga conto che per i duemila anni che hanno seguito la nascita di Gesù Cristo, dopo la loro cacciata dalla terra di Israele, gli ebrei non hanno mai fatto l’esperienza delle armi. Furono un popolo pacifico e sottomesso. La mia scelta (e della ventina di ebrei sui millecinquecento che contava la comunità torinese) contraddì dunque una consuetudine millenaria. Non sapevamo quasi di poterci difendere. Ma ricordo bene la mia gioia del giorno in cui sono riuscito ad avere un fucile in mano…». E la vita gli fornì presto motivo di usarlo: una guerra è una guerra. O di non usarlo: la guerra non è tutto.

Una richiesta di perdono

Il suo incontro diretto con il nemico, nelle vesti dei soldati tedeschi, fu singolare: l’arresto, l’accompagnamento oltre il confine. Una specie di amicizia durata nel dopoguerra. Ico, gli chiedo, prevalse allora la clemenza, o a risparmiare la vita ai due militari tedeschi fu la sua non conoscenza dei loro atti precedenti né di quanto si andava compiendo nei campi di sterminio? «Li ho ancor davanti agli occhi, quei due, e quando mi chiedo come mi sarei comportato se avessi saputo di loro e di Auschwitz non so ancora darmi una risposta. Le posso dire che la mia indole non è mai stata sanguinaria, non ho mai provato piacere ad uccidere. Non so, forse avrei fatto lo stesso, mi sarei comportato con la stessa educazione, ma non ne sono certo. Quando poi, molti anni più tardi, ho ritrovato uno dei due militari, Ludwig Seiwald, diventandone in qualche modo amico, ricevetti da lui il suo diario di guerra. Vi lessi della sua partecipazione alla prima campagna in Polonia, delle violenze a cui prese consapevolmente parte. Raccontava di quando, per rappresaglia nei confronti di una piccola forma di resistenza incontrata in un villaggio, il suo plotone inchiodò gli uomini alle porte delle stalle. E raccontava dei rastrellamenti a cui aveva preso parte nelle valli del Cuneese: baite incendiate, partigiani fucilati. Quando si trovò davanti quel giovanissimo partigiano che ero io col mitra spianato, si aspettava probabilmente un simile trattamento. Di qui il terrore, la sorpresa per quel “bitte”, e lo stupore confuso quando lui e il suo commilitone vennero accompagnati in Svizzera. Così, immagino che consegnandomi quelle pagine, nel 1956, volesse rivelarsi per ciò che era stato e forse anche per chiedermi perdono». Ico non dice se quel perdono è mai stato accordato. E non mi sembra il caso di chiederglielo. Solo un’altra cosa: avete mai parlato della Shoah? «No. Mai».

Le parole della vita e l’educazione all’etica nei tempi del disimpegno

Questa recensione è apparsa sul Corriere del Ticino del 12.09.2014, col titolo «Le parole della vita e l’educazione all’etica nei tempi del disimpegno».


Parole della vita, l’ultima fatica di Lina Bertola, è un tentativo ben riuscito di divulgazione pedagogica e filosofica, distante da certi saggi dotti e un poco aristocratici. In un contesto, come quello odierno, dominato dall’utilitarismo, dal populismo, dalle semplificazioni e dalle certezze acritiche, Lina Bertola accompagna il lettore in un percorso appassionante, «un racconto dell’educarsi inteso come viaggio verso se stessi, come impegno etico ad abitare la propria vita assieme agli altri. Perché nel clima antieducativo del nostro tempo, la scuola può essere davvero un luogo di resistenza e, perché no, qualche volta un luogo dell’utopia». Nonostante il richiamo alla scuola, agli insegnanti e alle loro parole – valutazione, maestro, allievo, … – non siamo di fronte a un testo riservato agli specialisti dell’educazione, perché «la parola etica corrisponde al greco ethos, che significa “costume, consuetudine”, e rimanda a un repertorio di valori riconosciuti e condivisibili, su cui si fonda l’appartenenza comune e insieme il giudizio sui nostri comportamenti».

CopertinaCome in ogni viaggio avventuroso, lungo il cammino s’incontrano personaggi meravigliosi – tanti i filosofi, dall’antichità ai giorni nostri – che Lina Bertola ci fa conoscere senza saccenteria, e tanti paesaggi di parole avvincenti. Si comincia con Etica e Deontologia, tanto per dire subito che non sono sinonimi; e si prosegue con Individuo, Identità, Dialogo, Autonomia, Libertà, Felicità, Verità, Dono, Lavoro; e poi Pensare, Idea, Valore; e le coppie apparentemente antitetiche: Ragione/Sentimenti, Salute/Malattia, Maschile/Femminile, Naturale/Contro natura, Utile/Inutile, Fatti/Interpretazioni, Diritti/Doveri. E tante altre, perché la meta del viaggio non è un’idea astratta dell’educazione all’etica, cioè alla vita, ma è radicata nella storia del nostro presente. L’autrice non si ferma alle seducenti conclusioni di Aristotele e di Kant, di Cartesio e di Popper, ma cerca di inserire coerentemente questa grande necessità educativa nei tempi nostri, che è l’epoca delle trasformazioni accelerate, delle mutazioni improvvise, dei valori che cambiano e si contraddicono in un battibaleno, dei poteri forti e incontrollati. Siamo alla «conoscenza ai tempi del web», quand’è forse necessario andare «alla ricerca dell’ignoranza perduta».

«Certamente la scuola – scrive la Bertola avviandosi alla conclusione – deve formare i giovani rispondendo ai bisogni della società. Questo è il suo compito. Ma non solo: rispetto ai bisogni della società la scuola abita sempre un po’ altrove, in un luogo ideale in cui è racchiuso il suo supplemento di verità e in cui vive quella speranza non misurabile che accompagna il mestiere di insegnante; altrove, ovvero in un luogo simbolico in cui imparare a sentire il valore di quel viaggio verso se stessi che sempre è l’educazione». Ha scritto Franco Frabboni nell’introduzione, che «forte è il richiamo di Lina Bertola a un’etica intenzionale (…). Occorre – oggi più di ieri – difendere con i denti e con le unghie una Persona minacciata dall’avvento di un’umanità alienata e omologata che simpatizza scopertamente per una donna e per un uomo dagli encefalogrammi piatti. Utili e mercificabili». Insomma: un invito limpido ai veri valori dell’educazione come scelta etica individuale e collettiva, che è poi la vera educazione alla cittadinanza.

LINA BERTOLA, Parole della vita. Per un’educazione all’etica, 2014, Trento: Ed. Erikson, 109 pagg., € 16

L’eredità di Rousseau, la scuola e la politica di oggi

Questa recensione è apparsa sul Corriere del Ticino del 21.08.2014, col titolo «L’eredità di Jean-Jacques Rousseau, la scuola e la politica di oggi».


Gettare alcuni semi illuministi con la speranza che possano germogliare «per capire meglio il nostro presente, le sue impasse e le ragioni dell’odierno disincanto dopo l’ubriacatura post-moderna»: è questo l’intento del volume Semi ad usum praesentis – Un incontro sul pensiero di Jean-Jacques Rousseau, curato dal filosofo Fabio Merlini. Esso raccoglie i contributi di sei studiosi che, nel dicembre del 2012, in occasione del tricentenario della nascita del filosofo ginevrino, hanno dialogato col suo pensiero, durante un incontro tenutosi a Bellinzona. Il libro dà vita a una conversazione di grande interesse e dall’alto contenuto divulgativo. Partendo da alcune pagine fondamentali dell’opera di Rousseau gli autori propongono altrettante riflessioni declinate al presente, nel doppio intento di mettere nella giusta luce l’attualità del filosofo e di mostrare alcune distorsioni politiche e sociali del mondo odierno, dove «ciò che “normativizza” i comportamenti dei grandi operatori multinazionali (imprese e istituzioni bancarie) sono intese e accordi per lo più indifferenti a qualsiasi regolamentazione di mercato e al diritto legislativo dei singoli Stati. “Intese” e “accordi” in ragione dei quali il contratto privato sembra aver sostituito il diritto» (p. 15). Il pensiero di Rousseau rivela dunque la sua continuità nel tempo e «rimane una fonte inesauribile di ispirazione, nella misura in cui le sue visioni convergono nella definizione di un uomo nuovo. Scuola e formazione, a tutti i livelli, sono ovviamente coinvolte in prima persona. È giunto il momento di raccogliere tutte le voci giustamente critiche che oggi chiedono risposte diverse, rispetto a quelle elaborate negli ultimi decenni, a questa semplice domanda: “formare a che cosa?”» (p. 19-20).

Semi-ad-usum-praesentis-Copertina-512x1024Dopo tre brevi lezioni introduttive del curatore, il volume percorre l’opera di Rousseau attraverso alcune riflessioni che alternano argomenti politici e educativi. Lina Bertola si china sulla necessità che l’educazione torni a essere un atto di resistenza, per lasciarci alle spalle l’imperante utilitarismo della scuola negli anni della globalizzazione. Virgilio Pedroni approfondisce lo scarto tra volontà generale e volontà di tutti, dove la prima è quella dei cittadini e la seconda l’affollata giustapposizione di interessi privati. «L’educazione del cittadino. Il senso del patriottismo e la questione della religione civile» sono invece al centro delle considerazioni di Marcello Ostinelli, mentre Michele Mainardi punta i suoi riflettori su alcuni temi educativi, con particolare riguardo alla necessità che il patto educativo, formativo e sociale, alla base delle società civili, concerna le comunità e la società nel loro insieme. Per terminare, Franco Zambelloni propone un’acuta, curiosa e intrigante riflessione: «La libertà tradita», una sorta di pamphlet sulla pedagogia del ginevrino, fondatore della pedagogia moderna, che ha però subito una grave censura da parte dei contemporanei, che hanno occultato uno dei grandi principi: «Soffrire è la prima cosa che [il fanciullo] deve imparare». Alla faccia di tutto il recente buonismo.

Insomma, un testo indispensabile per chi non ne può più di questa politica senza visioni e senza cultura e di questa scuola al servizio dell’economia. Perché sull’intero volume aleggia «una domanda che non dovrebbe smettere di interrogarci: è davvero sfumato il sogno illuminista di una società più giusta?»

 

FABIO MERLINI (a cura di), Semi ad usum praesentis – Un incontro sul pensiero di Jean-Jacques Rousseau, 2013, Tesserete, Pagine d’Arte, 146 pagine, € 12 / Fr 16, ISBN 9788896529614

«I mondi esistenti della scuola»

Su La Regione Ticino del 26 giugno Daniele Dell’Agnola – scrittore, musicista, docente al Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, insegnante di scuola media – ha pubblicato un breve articolo che, almeno apparentemente, sembra limitarsi a raccontare gli ultimi giorni dell’anno scolastico con un gruppo di suoi allievi di II e di IV media. L’articolo, intitolato I mondi esistenti della scuola, è interessante per diverse ragioni, ma anzitutto perché riflette una realtà della scuola media che non corrisponde per nulla ai mondi normalmente e diffusamente noti. E, caspita!, esistenti.

Questo breve «diario» restituisce dapprima l’autorevole tensione etica dell’insegnante, che dura in maniera intelligente fino al suono dell’ultima campanella, quella del «Sciogliete le righe!». Siamo insomma lontanissimi da quel clima da tira a campare che caratterizza la fine dell’anno scolastico in gran parte degli istituti: tanto le note son già state depositate e allora conviene svagarsi.

«Io non sono qui per avere ragione», dice l’insegnante a un’allieva quindicenne, dopo aver interpretato al meglio il suo ruolo «di generatore di conflitti produttivi»: ciò che ci riporta dritti dritti alla necessità che l’insegnamento scolastico forgi teste ben fatte, anziché rifugiarsi nello stupido intento delle teste ben piene…

C’è poi la cronaca della parte finale di un lungo percorso sulla lettura dei classici, iniziato in settembre e che ha avuto il suo apice con una rappresentazione teatrale a fine anno. Qui si inserisce l’episodio, per certi versi drammatico, di quell’allievo che «disturba da mesi il lavoro del gruppo e dimostra un atteggiamento distruttivo».

«A due giorni dal debutto – annota Dell’Agnola – privo di strumenti pedagogici, spaesato, alzo la voce. Il ragazzo sta agendo in modo preoccupante. Gli chiedo di seguirmi. Ci sediamo. Gli spiego che non potrà recitare».

Alla fine quel ragazzo resterà escluso dalla recita, ma non dal gruppo. Forse in un altro contesto sarebbe stato allontanato diversi mesi fa, preso a carico da qualche servizio designato al contenimento e alla terapia dei famosi «casi difficili».

Mi è sembrato giusto conservare e mettere in evidenza questo bel modo di interpretare la scuola media, che è scuola obbligatoria: perché costruisce conoscenze e cultura, e nel contempo genera educazione. Chissà? Magari se tutta la scuola obbligatoria fosse sempre così umanista, anche i mondi impossibili diverrebbero un po’ più vicini.

Di seguito, dunque, ecco integralmente l’articolo di Dell’Agnola (mi sono preso solo qualche piccola libertà grafica).


«Siamo in quarta media, a un passo dal mondo della realtà e non abbiamo più tempo per favole, perché la fantasia non è all’altezza della realtà». Così scrive una quindicenne, riflettendo in modo critico durante un’attività di analisi del testo che ha coinvolto alcuni allievi, lettori obbligati del «Cavaliere inesistente» di Italo Calvino.

«Credevo fosse la realtà, a non essere all’altezza della fantasia» replico, dopo aver letto il testo della ragazza ad alta voce, di fronte alla classe.

«Sì, ho sbagliato, ha ragione lei» conclude, cercando di non tirarla per le lunghe.

Insisto nel dibattito, gioco la mia parte di generatore di conflitti produttivi e apro le Filastrocche in cielo e in terra di Rodari. «La scuola dei grandi» recita così:

Anche i grandi a scuola vanno / tutti i giorni di tutto l’anno.

Una scuola senza banchi, / senza grembiuli né fiocchi bianchi,

e che problemi, quei poveretti, / a risolvere sono costretti:

In questo stipendio fateci stare / vitto, alloggio e un po’ di mare.

La lezione è un vero guaio: / Studiare il conto del calzolaio.

Che mal di testa, il compito in classe: / C’è l’esattore, pagate le tasse.

Ci vuole fantasia, le spiego, anche per descrivere la realtà. I ragazzi mi osservano come se fossi un extra terrestre.

«Le ho detto che ha ragione lei».

«Va bene, ma io non sono qui per avere ragione».

L’episodio è interessante, perché tocca la sensibilità di una ragazza che sta scegliendo un sentiero percorribile dopo la scuola dell’obbligo, con pensieri e ragionamenti apparentemente aggrappati alla concretezza del vivere, ma con un bisogno malcelato di volare via, ribelli sopra una mongolfiera lanciata nell’impossibile.

Il giorno dopo sono impegnato in un lavoro teatrale, germogliato dalla lettura di classici della letteratura, proposti ai più piccoli allievi di seconda media e condivisi grazie ad un’attività di analisi e confronto degli eroi, in seguito rappresentati sul palco in una storia che ancora Rodari definirebbe «insalata di trame».

Un ragazzo disturba da mesi il lavoro del gruppo e dimostra un atteggiamento distruttivo. A due giorni dal debutto, privo di strumenti pedagogici, spaesato, alzo la voce. Il ragazzo sta agendo in modo preoccupante. Gli chiedo di seguirmi. Ci sediamo. Gli spiego che non potrà recitare. Da gennaio a giugno, seguendo un doposcuola che si è svolto dalle 15.30 alle 17.00 e un fine settimana trascorso in montagna, con nove ore di prove teatrali, ha davvero ostacolato la costruzione dello spettacolo. Sostiene di essere in grado di recitare e di rispettare gli altri. Mantengo la mia posizione. Presenterà in modo impeccabile la serata e preparerà i ringraziamenti finali, senza «stare nella storia», ma rimanendo nel gruppo.

A questa realtà va aggiunta una considerazione conclusiva, scritta da due allievi che hanno partecipato alla messinscena di una pièce sulla quale sembrava impossibile scommettere.

«Buongiorno, oggi vi voglio raccontare l’emozione che ho provato di fronte al pubblico: durante la mia prima scena mi sono sentito molto emozionato, ma soprattutto nervoso. Ero solo e mi ritrovavo da solo a dover dire con una scatola in mano: “Allora! Nessuno che mi aiuta a portare dentro le scatole”? Ad un tratto, una marea di gente che mi guardava. (…) Credo che se un giorno decidessi di diventare attore, sono sicuro che la sensazione che ho provato sarà meno forte e meno bella della mia prima volta sul palco».

«Io ho interpretato il ruolo di Cosimo di Rondò (il Barone rampante): il mio personaggio serviva, nello spettacolo, a rompere la quarta parete e quindi a renderlo più interessante».

Si conclude così un altro anno scolastico tra scritture, letture e ricerche, salutato da solchi di realtà, bisognosi di mondi impossibili.