La legge che vorrebbe proibire l’uso di telefonini e social ai minori di 16 anni, prassi vecchia e bacchettona; che trova riflessi censori anche alle nostre latitudini
Bisogna pur dirlo. In Europa e in tutto il mondo occidentale è guerra aperta contro telefonini e dintorni in mano a ragazzini e adolescenti, con l’età del primo rapporto tecnologico che, pare, s’abbassa sempre più. A volte ci si mettono pure governi e parlamenti. L’Australia – riporta Naufraghi/e citando La Repubblica – ha deciso di vietare i social ai minori di 16 anni. Il testo, che ha ricevuto il via libera della Camera e del Senato, ma che deve tornare per l’approvazione finale alla Camera bassa, obbliga le piattaforme — si parla di Facebook, X, Instagram, TikTok ma non di WhatsApp e YouTube — a adottare “misure ragionevoli” per impedire a bambini e adolescenti di avere account sui social network. È una prassi vecchia e bacchettona, che nasconde una certa indolenza, suggerita spesso da quei medesimi social dei quali i politici di mezzo mondo si servono per portare innanzi i cavoli loro: dalla propaganda alle fake news, su un letto di narcisismo mica da poco.
Sembra proprio il vecchio bigottismo dei cristiani d’Occidente, di cui è luminoso esempio il Librorum prohibitorum index, ex mandato Regiae catholicae eccetera, la lista dei libri proibiti, insomma, perché davano fastidio alla morale cattolica. Però anche in questa società che vorrebbe essere campione della democrazia, della partecipazione e della trasparenza c’è sempre qualcuno che vuole proteggere qualcun altro a suon di divieti e di una buona dose di paternalismo, ciò che ha poco a che fare con la democrazia e col diritto.
Succede così che dopo le Direttive sui comportamenti inadeguati in ambito scolastico (v. L’etica in classe), ecco la versione per le scuole comunali di pochi giorni fa. Siamo ormai al divietismo, variante raffazzonata del proibizionismo, che almeno ci riservò opere indimenticabili, dalla letteratura al jazz, da Francis Scott Fitzgerald a Duke Ellington. Qui siamo di fronte a una variante più timida, che fin qua ci ha dato solo irritazione, stemperata da una sorta di pigrizia intellettuale – ma stiamo parlando del Dipartimento che si occupa di Educazione e di Cultura, in uno slancio di contraddizione e di ossimori, perché l’Educazione coi divieti ci riporta dritti ai tempi della scuola del Cuore di deamicisiana memoria, senza le sue pagine di commozione, tormenti e atti eroici.
Non è naturalmente una questione inaspettata. Già nel 2007 Giorgio Pellanda, prof della scuola media, nonché deputato al Gran Consiglio, chiese al Consiglio di Stato se fosse «finalmente intenzionato a proibire totalmente l’uso del telefonino in tutte le scuole obbligatorie del Cantone». Ne avevo scritto in un articolo – Telefonini a scuola: problema d’educazione o di repressione? –, che avevo chiuso con una postilla: non è chiaro se il divieto di introdurre il telefonino nel perimetro dell’istituto scolastico toccherebbe solo gli allievi o anche gli insegnanti, ai quali, come del resto agli allievi, è garantita la possibilità di telefonare tramite la segreteria.
Per fortuna non tutto il mondo si difende coi divieti, i giudizi di valore, le arrampicate sui vetri. C’è anche chi vuole affrontare il tema di petto, per il futuro dei suoi cittadini e del suo stesso presente. È interessante, ad esempio, il caso della Finlandia (ma guarda!?), che promuove l’educazione ai media come costitutiva dell’educazione civica, così come l’Estonia, che sin dalla scuola elementare prevede, nel contempo, lo sviluppo di competenze digitali, mirando alla comprensione critica della tecnologia e dei social media, senza scordare di chinarsi su privacy, cyberbullismo e dipendenze tecnologiche; ciò che, coerentemente, passa anche dalla regolazione dell’uso degli smartphone durante le ore di scuola, a partire dal divieto dell’utilizzo durante le lezioni, per favorire l’attenzione e le interazioni sociali dirette.
Si consideri che, Con poche eccezioni, i giovani hanno tutti uno smartphone personale (v. il rapporto Giovani | attività | media – rilevamento Svizzera). Se analizziamo la vita mediale quotidiana dei giovani – si legge nel rapporto – emerge che la maggior parte di loro non si è semplicemente “persa nel mondo virtuale”, ma adotta generalmente un approccio riflessivo nei confronti dei media e ama ancora incontrarsi con gli amici, fare attività insieme e coltivare una varietà di interessi da condividere. (…) I genitori e i responsabili dell’educazione, le scuole, i giovani stessi, le autorità di regolamentazione e i media devono assumersi la responsabilità di sostenere un uso dei media sicuro e adeguato allo sviluppo. Ma l’idea che non usare gli smartphone e i social network sia la migliore forma di educazione ai media non è adeguata ai tempi attuali.
Riprendiamo dunque il discorso partendo dall’Estonia o dalla Finlandia e dai loro sistemi formativi, spesso citati, più raramente imitati. Al posto dei divieti converrebbe tornare a battere i sentieri dell’educazione, difficili eppur potenti. Si tenga conto che tra i quattro e i quindici anni, un allievo che non ripete neanche una classe trascorre a scuola ben più di diecimila ore. Come ha scritto il sociologo Philippe Perrenoud, se la medicina, per obbligo statale, potesse occuparsi della popolazione anche solo per una porzione infinitesimale di questo tempo, non le si perdonerebbe neanche un raffreddore.
Scritto per Naufraghi/e
Pensa te le coincidenze! A pagina 9 dell’edizione odierna, il Corriere del Ticino riporta questa notiziola: Vietare a scuola gli smartphone? L’82% è favorevole. «Quattro svizzeri su cinque (82%) sono favorevoli a vietare il telefonino a scuola. Inoltre, più di due terzi non vede di buon occhio il social cinese TikTok. Lo rivela un sondaggio dell’istituto Sotomo, nel quale anche il 64% dei giovani fra i 18 e i 25 anni è per le restrizioni a scuola. Secondo gli autori del rilevamento, il largo sostegno al divieto si spiega con una crescente consapevolezza dei rischi: dipendenza, problemi di concentrazione e perturbamento delle relazioni sociali».