Un’altra voce, autorevole e chiara, si è levata recentemente per ribellarsi alla pochezza e alla sterilità della formazione pedagogica cui si deve sottoporre oggi il neo-laureato che intende dedicarsi all’insegnamento. Sul «Corriere del Ticino» del 12 gennaio scorso, il Prof. Stefano Barelli se la prende senza mezzi termini con l’imperialismo pedagogico, unilaterale e insensibile alle critiche, che permea oggi la formazione professionale dei giovani insegnanti della scuola media o di quella media superiore. «Non è possibile in questa sede – scrive il Prof. Barelli – presentare con esaustività ciò che viene negato ai docenti in formazione: con il rischio dell’eccessiva semplificazione, basterà dire che il riferimento di fondo va al cosiddetto cognitivismo di seconda generazione, e in particolare alla corrente costruttivista», una moda piuttosto tecnocratica che, da circa un ventennio, detta legge un po’ in tutti gli istituti di formazione degli insegnanti.
Non ho nulla, di per sé, contro il socio-costruttivismo, un’area delle scienze dell’educazione che può concorrere alla comprensione dei fenomeni educativi – ma che, detto per inciso, oggi costituisce l’unico asse portante della formazione di tutti gli insegnanti, e non solo di quelli che giungono dalle università. Il problema, dunque, è che in molteplici situazioni tale approccio ha sostituito e annullato decenni di riflessioni e di esperienze sull’educazione che hanno pur lasciato segni positivi e tangibili. Non sono tra quelli che reputano che basti «sapere le cose» per poterle insegnare, affermando implicitamente che più e meglio si conosce una disciplina, più e meglio si sarà in grado di insegnarla. Si tratta di un assunto che poteva forse funzionare in qualche liceo d’altri tempi, quando al liceo accedevano solo i figli di alcune cerchie privilegiate; tant’è che la pedagogia classica nasce proprio come tentativo di educare e istruire i deboli, gli emarginati, i poveri: si pensi agli orfani di Johann Heinrich Pestalozzi a Stans o a quelli di Janusz Korczak nella comunità ebrea di Varsavia, al ragazzo selvaggio e ai sordomuti di Jean-Marc Gaspard Itard, ai figli delle classi popolari di Don Lorenzo Milani o di Célestin Freinet.
La storia della pedagogia moderna – diciamo da Jean-Jacques Rousseau in avanti – è percorsa da una tensione etica e ideale basata sull’educabilità di ogni individuo, indipendentemente dalle sue condizioni sociali, economiche, sessuali o religiose. È grazie a quella pedagogia che si sono raggiunti traguardi che ancora cinquant’anni fa sembravano utopici e che sono una delle basi della democratizzazione dell’accesso agli studi: tanto per esemplificare, si pensi che ancora nei primi anni ’70 gli studenti liceali ticinesi non arrivavano a 900, mentre oggi superano i 4 mila. Nondimeno l’educazione nell’era dello zapping e della cultura del «tutto-e-subito», pone problemi inediti, di fronte ad allievi e studenti con crescenti difficoltà di attenzione, di concentrazione e di tenacia. Ancor più che nel passato, dunque, è fondamentale che la scuola non sia «indifferente alle differenze» (Pierre Bourdieu, 1970) e che si batta con fermezza contro ogni forma di darwinismo sociale. La storia della pedagogia – «Romanzo di formazione», come la ritrae il pedagogista Philippe Meirieu – costituisce un approccio epistemologico fondamentale: perché educare resta una scelta politica forte, anche se in molti istituti di formazione degli insegnanti la dimensione umanista è stata vieppiù emarginata.
Ed è proprio questo ‘Romanzo’ che è negato ai docenti in formazione, a favore di un approccio scelto unilateralmente da chi opera oggi nell’ambito delle scienze dell’educazione: un muro di gomma che sembra inespugnabile. Purtroppo la storia della scuola è costellata di infatuazioni che hanno lasciato sul campo un ammasso di rovine, senza che nessuno se ne sia mai assunto le responsabilità.