Si fa un gran parlare, di questi tempi, delle sorti del DECS dopo il 10 aprile. L’Uomo nero è in agguato e spaventa una parte degli elettori ticinesi. Dire DECS significa, per la maggior parte di noi, parlare della scuola pubblica. L’uscente ministro Gendotti passerà ai posteri come il capo dipartimento della storica votazione del 18 febbraio di dieci anni fa, quando l’iniziativa che mirava all’introduzione dell’aiuto finanziario dello Stato alle scuole private era stata bocciata col 74.1% dei voti. Ora in molti temono l’Uomo nero, che a quel tempo cavalcava indomito il cosiddetto nuovo che avanza e che fra poco più di un mese potrebbe diventare capo del dipartimento che dirige la scuola pubblica. Certo, è una circostanza plausibile, al di là delle evidenti contraddizioni, soprattutto se il PLR riuscirà a confermare i due seggi. In caso contrario si aprirebbero altri scenari. Cosa cambierebbe in concreto è difficile dirlo. È sicuramente più facile mutare il nome del dipartimento che trasformare tangibilmente la scuola, che tutto sommato funziona sulla base di alcune strutture organizzative immutate da decenni e decenni: un insegnante, un’aula scolastica, un certo numero di allievi, un calendario soggiogato dalle feste mobili e dai cicli solari, un sistema di promozione dominato da esami e note che tutto sono, fuorché neutri e scientifici.
Non si può ignorare l’importanza delle istanze politiche – Consiglio di Stato, Parlamento, Capo del dipartimento – nel tracciare le linee della politica scolastica. Ma altre istanze concorrono a disegnare la scuola e a caratterizzarla giorno dopo giorno, a sinistra, a destra e, più facilmente di quanto si pensi, come capita capita. La politica, per lo più, coordina, organizza, sancisce, legittima. Ma la vera politica scolastica la fanno i funzionari dipartimentali, gli insegnanti, le famiglie, la scuola magistrale, i sindacati, i partiti, facebook, i media, i centri di ricerca. Innumerevoli contesti influenzano le scelte, a volte senza che nemmeno ce ne accorgiamo: la demografia che tira o che frena, l’economia che cavalca vacche grasse o si fa trainare da quelle magre, le idee che circolano come venticelli e che sembrano sempre politicamente corrette. La scuola, come tutti i sistemi complessi, si riproduce per autopoiesi, vale a dire che ha la capacità di rigenerarsi mantenendosi immutata. Ciononostante negli ultimi quaranta o cinquant’anni la scuola – non solo quella ticinese, ovvio – sembrerebbe aver perso i suoi precipui scopi originari: insegnare a leggere, scrivere e far di conto, trasmettere delle conoscenze, educare così dei cittadini liberi. Senza ben sapere perché, anche la scuola ticinese è diventata quella dell’accordo di Bologna, coi suoi master e i suoi bachelor; anche da noi ha preso piede il primato del saper essere, del saper fare e dell’imparare a imparare, alla faccia del sapere e basta. Senza scordare che è in arrivo HarmoS, il noto accordo intercantonale sull’armonizzazione delle scuole svizzere, che influirà anche sulla politica scolastica del nostro cantone, con la scolarizzazione obbligatoria precoce, il plurilinguismo, gli standard, gli strumenti di pilotaggio. Tutto dev’essere armonizzato, da Ginevra a San Gallo, da Basilea a Lugano. Difficile dire se l’armonizzazione contribuirà a migliorare sul serio il profilo di conoscenze del popolo svizzero oppure se si finirà dalle parti di uno sgradito livellamento culturale (verso il basso). Tutto ciò, beninteso, non è di destra né di sinistra. È e basta. Più che strutture e regolamenti e accordi intercantonali, servono insegnanti preparati, consapevoli del loro ruolo, messi nella condizione di svolgere al meglio la loro professione: che è quella di insegnare. E servirebbe, con tanta urgenza, un po’ di chiarezza su ciò che gli insegnanti debbono insegnare. È in quest’ambito che le istanze politiche hanno un loro preminente dovere da assolvere.