La tradizionale conferenza stampa del DECS che prelude all’apertura dell’anno scolastico non ha convinto del tutto il direttore della «Regione Ticino». Nell’editoriale del 28 agosto Matteo Caratti mette qualche puntino sulle i al ministro Gendotti e ai suoi più stretti collaboratori, troppo entusiasti dello stato di salute della scuola ticinese. Ai vertici del dipartimento, che hanno magnificato la nostra scuola, sottolineando il corposo elenco di novità che riguardano il prossimo anno scolastico, Caratti contrappone la «percezione in una parte dell’opinione pubblica» secondo la quale «negli ultimi anni una parte importante delle forze e delle risorse sia stata dirottata a favore del settore universitario e professionale, mentre nella scuola pubblica obbligatoria gli investimenti siano stati considerati principalmente quali costi e non hanno così permesso di fare decisi passi avanti». A dimostrazione di questo supposto immobilismo cita «l’esigenza di fronteggiare con decisione e competenza situazioni ‘a rischio’ che coinvolgono non solo gli allievi ma anche i docenti, le esigenze delle famiglie che cambiano o le necessità del mondo del lavoro, che altrimenti si orienta su altri mercati, di avere una scuola capace di rispondere al più presto alle esigenze del settore secondario».
Hanno tutti ragione, vien da dire. Ma sia la lettura dipartimentale della nostra scuola, che le esigenze menzionate da quella parte dell’opinione pubblica, alla quale dà voce Caratti, dànno per scontato che i problemi si risolvano a suon di decisioni e di realizzazioni. Mi spiego, o cerco almeno di farlo. La scuola migliore, così come il migliore insegnante, è quella che riesce a insegnare il maggior numero di ‘cose’ al più grande numero di allievi che le sono affidati: «In una società in continua evoluzione, una scelta politica di fondo e irrinunciabile per gli stati democratici è sicuramente quella di assicurare una formazione elevata e adeguata ad una maggioranza sempre più larga di popolazione» (Diego Erba, 2006). Come sempre tra il dire e il fare c’è una differenza. Ad esempio di recente anche il nostro cantone ha impresso un’accelerazione all’insegnamento delle lingue nazionali e dell’inglese. Tutto a posto, dunque: a quindici anni i nostri studenti avranno acquisito gli strumenti comunicativi adeguati per varcare le alpi e andare alla conquista se non del mondo almeno dell’Elvezia. Eppure è difficile capire quanti ragazzi, giunti al termine della scuola dell’obbligo, conoscano per davvero il francese, il tedesco e l’inglese. E – scontato! – l’italiano.
Avevo otto anni quando Gagarin andò nello spazio, sedici quando Armstrong arrivò sulla luna e trentuno quando nacque Macintosh. Diciamo che, rispetto alla mia infanzia, il mondo è cambiato un pochino e, con lui, gli strumenti adeguati per affrontarlo. La scuola, che frequentavamo magari di malavoglia, non ci insegnava chissà quante nozioni, anche se proprio il nozionismo fu una delle prime vittime del ’68. Eppure noi 50/60.enni siamo stati in grado «di assumere ruoli attivi e responsabili nella società», anche se magari c’è qualcosa da ridire circa la nostra capacità di «realizzare sempre più le istanze di giustizia e di libertà»: diciamo che qua e là s’è fatto sicuramente qualche errore. Eppure, come detto, abbiamo frequentato una scuola che non poteva immaginare la globalizzazione e che guardava spesso al passato per costruire il futuro delle nuove generazioni. Per certi versi mi vien quasi da dire: per fortuna. Perché se avesse tentato di immaginare il futuro avremmo rischiato già a quei tempi l’odierna ammucchiata di contenuti: con quali esiti è ovviamente impossibile dirlo. Oggi alla scuola si chiede ogni giorno di più. Nell’incapacità politica di fare delle scelte – ma non è certo un problema solo ticinese – siamo ormai alla scuola supermercato, dove tanti prodotti cercano di soddisfare una miriade di interessi privati. I bambini che hanno iniziato in questi giorni la prima elementare usciranno dalla scuola verso il 2023: a quel momento vedremo quante profezie avremo azzeccato.