Prendendo spunto dai recenti episodi accaduti alle scuole di Minusio e Camorino, dove «le autorità comunali e scolastiche si sono trovate a fronteggiare contestazioni massicce da parte di genitori infuriati», Oliver Broggini ha steso un appassionato commento a difesa dei nostri insegnanti – «Eroi a rischio di estinzione» (Corriere del 18 settembre) – sempre più spesso vittime predestinate di genitori che, alla prima contrarietà, non esitano ad alzare la voce, a picchiare i pugni sul tavolo e a lanciare fragorose petizioni, naturalmente con l’inevitabile comunicato stampa. E la stampa, di solito, ci sta.
Oggi gli insegnanti non godono più della stima che avevano ai tempi in cui sedevano sullo stesso scranno accanto al sindaco e al curato – e anche quest’altri non hanno troppi motivi per montarsi la testa. Ripercorrere le cause di questa decadenza sarebbe lungo e non necessariamente utile, soprattutto se si pensa che quella dell’insegnante è una professione che ha stretti legami con la tradizione e una buona dose di consuetudini: basterebbe pensare che la struttura quasi paradigmatica del funzionamento di una classe – un’aula, un docente, un gruppo di allievi – è ancora quella delle origini, che risale, nella forma attuale, a quasi due secoli or sono.
Poi, col tempo, ci si sono messi un po’ tutti. Ad esempio non è più chiaro quali siano le reali finalità della scuola – e penso in primo luogo a quella dell’obbligo. In altre parole, è difficile trovare il consenso attorno a quelle due o tre imprescindibili essenzialità. Un conto è dire che la scuola deve insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto, un altro stabilire cosa ciò significhi in realtà e nei diversi gradi, dalla prima elementare alla quarta media. Poi non c’è problema, più o meno emergente, di cui la scuola non debba o non possa occuparsi: negli ultimi decenni il parlamento e l’opinione pubblica hanno gonfiato i programmi a dismisura, impilando lingue su lingue, oltre all’educazione sessuale, stradale, alimentare, alla cittadinanza ed ecologica – con un po’ di fantasia ogni lettore può completare l’elenco a piacere. Non passa giorno senza che le direzioni scolastiche ricevano proposte didattiche dalle fonti più incredibili, da diffondere naturalmente a tutti gli insegnanti: sempre attività dai contenuti edificanti e politicamente corretti. A queste condizioni diventa impossibile far crescere e consolidare delle effettive competenze; la conseguenza è che chi può – chi, cioè, ha la fortuna di essere nato col cucchiaio d’argento in bocca – tali saperi li costruirà soprattutto in ambito familiare, perpetuando così, con la complicità di un sistema formativo sempre più disorientato, una bieca selezione sociale.
Insomma: uno dei perni principali della scuola resta pur sempre l’insegnante, che dovrebbe però agire sulla scorta di direttive chiare e di un profilo formativo adeguato. Sull’ambiguità delle direttive – in sostanza programma e obiettivi ben definiti – ci siamo capiti. Quanto al profilo formativo, sarebbe necessario aprire un altro capitolo. Non si può, però, continuare a far finta di niente. In vent’anni la società si è fatta innegabilmente più complessa, e con lei il lavoro di chi è sul campo a contatto giornaliero con allievi, studenti e genitori annessi – concretamente presenti o evanescenti come l’aria. E pure i percorsi di formazione per accedere alla funzione si sono allungati: liceo e tre anni all’ASP per i docenti delle scuole comunali, bachelor o master e due anni di formazione pedagogica per quelli del settore medio. Sul fatto, poi, che a questi tempi allungati corrispondano maggiori capacità professionali è ancor tutto da dimostrare: i più recenti raffronti internazionali – tanto per fare il primo e più facile esempio – parlano un latino abbastanza semplice. Non è invece da documentare che i salari e le possibilità di carriera sono rimasti al palo. Tra le due constatazioni c’è un abisso strutturale e concettuale che occorrerà colmare un po’ in fretta, evitando di nascondersi dietro le trite leggende della missione e dei tre mesi di vacanza.