Dopo lo sciopero: la scuola e le mele marce

Lo sciopero dei docenti è passato e la Repubblica è ancora lì, confusa e rintronata come prima. Però già il giorno dopo si sono sentite alcune opinioni di grande interesse. Ha scritto Matteo Caratti, direttore della Regione: «La scuola deve fare attenzione a non compiere passi falsi: il primo è quello di aver partecipato ad una giornata di mobilitazione in settimana. Sarebbe stato molto meglio tenere una manifestazione al sabato. Il secondo inciampo è quello di non aver saputo negli scorsi dieci anni capitalizzare a sufficienza il bonus di fiducia ottenuto al momento della vittoria sul ticket alle scuole private. Venir oggi invitato come genitore o come cittadino da docenti che spiegano qual è il ruolo della scuola è un tentativo di sensibilizzazione che avviene fuori tempo massimo. Il terzo neo è quello tabù delle mele marce: persone che non sono al loro posto, eppure ci restano per anni e anni. Purtroppo di tali mele ce ne sono, forse non così tante, ma fanno un danno incredibile a tutta la categoria. Gli allievi pagano il prezzo di scelte personali sbagliate e la scuola pure. E non è giusto».
Gli ha fatto eco il ministro dell’educazione Manuele Bertoli, che, parlando di salari pubblici e privati,  ha dichiarato alla RSI: «Nel sistema attuale, che è un sistema con degli automatismi, dev’essere possibile non tanto ragionare sui meriti, ma soprattutto sul demerito di chi non fa correttamente il proprio lavoro e dev’essere messo di fronte a questa mancanza di professionalità».
Urca! Se c’è un obiettivo raggiunto con lo sciopero è questo nuovo paradigma. Per la prima volta dopo tanti anni si è sfatato un tabù, dicendo in pubblico quel che si afferma non solo al bar, ma anche in tante aule docenti. Certo che seguendo, almeno in parte, il ragionamento di Caratti sarebbe stato più fruttuoso aderire alla giornata di porte aperte ideata e proposta dal «Movimento per la scuola». Ma così non è stato: pochi istituti hanno accondisceso a quell’idea. Il problema, com’è ovvio, non è solo dei docenti. Anche lo Stato ha le sue belle responsabilità. Ad esempio seguita a intestardirsi nella difesa di leggi obsolete e datate, come la Legge della scuola e tutto quel che le ruota attorno. Si parli poi di merito (i partiti borghesi) o di demerito (Bertoli) la sostanza cambia solo apparentemente.
È possibile valutare il lavoro di un insegnante, per decretarne meriti o demeriti? Apparentemente no, tant’è complesso il ruolo. A ogni buon conto è incauto nascondersi dietro il solito dito. Per prima cosa è possibile misurare cosa e quanto imparano gli allievi. Ma non è tutto. Basti pensare che gli allievi finlandesi e i loro coetanei sud coreani imparano così tanto da essere in cima alle classifiche internazionali. I primi, però, operano in un contesto scolastico accogliente, che ha un supremo rispetto dei propri allievi. Il secondo persegue invece il primato dei risultati a qualsiasi costo, suicidio compreso. Va da sé che la nostra storia e la nostra cultura consiglierebbero di prendere semmai a esempio il modello scandinavo. In fin dei conti, com’è un bravo insegnante? È un Maestro che sa insegnare il massimo possibile a ogni suo allievo, senza che quest’ultimo debba subire tutte le paturnie di questo mondo, trascinando nella sua scia negativa l’intera famiglia. In sostanza è pur sempre più importante imparare che riuscire a scuola: che restano due cose ben diverse.

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