L’iniziativa «Per educare i giovani alla cittadinanza» sta generando un dibattito fitto. C’è da augurarsi che, alla fine, produca qualcosa di buono, e non la solita risoluzione parlamentare che, un colpo al cerchio e uno alla botte, dà a intendere che il problema è stato risolto. Il rischio, non da poco, è che le posizioni si polarizzino: ha ragione il primo firmatario Alberto Siccardi, segnalando sospetti, insinuazioni e letture troppo disinvolte (CdT del 3 giugno). Non credo che la proposta sia di per sé di destra o di sinistra. Ha scritto Giancarlo Dillena nel suo editoriale del 25 maggio: «Chi identifica nell’iniziativa solo l’espressione di una “destra populista” […] tradisce una visione curiosamente simmetrica del problema, nel senso di quell’“educazione politica” ideologicamente orientata a sinistra, che il Ticino e la sua scuola hanno ben conosciuto in tempi non molto lontani, quando questa concezione era assai ben rappresentata nel corpo insegnante». L’affermazione è sacrosanta. Ma, simmetria per simmetria, dimostra solo che se l’educazione alla cittadinanza è unilaterale il fallimento è pressoché una certezza. Non fosse così, i tanti partiti socialisti avrebbero dovuto prendere la maggioranza nel Paese già da diversi anni.
Personalmente continuo a credere che l’educazione alla cittadinanza abbia bisogno di alcune condizioni di base che in nessun modo possono essere (r)aggirate. Ad esempio è assolutamente necessario che al termine della scolarità obbligatoria i quindicenni abbiano acquisito quelle competenze basilari che consentano una critica lettura del mondo circostante. Raggiungere tale obiettivo comporta naturalmente delle scelte anche dolorose, per sfoltire i tronfi programmi della nostra scuola dell’obbligo e per investire in maniera convinta nelle competenze professionali degli insegnanti. Le finalità della scuola, sancite dall’art. 2 della Legge, sono di per sé il manifesto dell’educazione alla cittadinanza. Ma pretendere di educare e istruire i giovani dal punto di vista civico scavalcando ipocritamente le conoscenze essenziali, è come voler coltivare il frumento nell’asfalto.
C’è poi quella parte di educazione alla cittadinanza che coinvolge tutti, dentro e fuori dalla scuola, a volte modi di fare che paiono quisquilie. Prendiamo le forme di cortesia. A me non dà fastidio che gli allievi della mia scuola, quando m’incontrano, mi dicano «Ciao, direttore». Non è la forma, di per sé, che crea il rispetto. Mi secca invece che i nostri bambini e giovani – o allievi e studenti – non imparino nemmeno cosa siano, le forme di cortesia: non le conoscono dal punto di vista linguistico, né sanno distinguere quando usarle, perché nessuno glielo insegna. Capita però di peggio: assai spesso i genitori che bussano alla mia porta, soprattutto se stranieri, mi dicono ciao e mi danno del tu. Maleducati e cafoni? Certo che no. L’hanno imparato proprio qui, sul posto di lavoro, nei centri di accoglienza, in polizia, in tanti uffici dello Stato e dei sindacati. Quasi che dandoci tutti del tu fossimo più democratici e ospitali. In modo analogo sin da piccoli si impara una certa «economia cognitiva», che impoverisce e ci fa sembrare un popolo di buzzurri. Ha scritto Dario Corno, linguista torinese, che esistono almeno 61 forme diverse per indicare il verbo arrabbiarsi. «E tuttavia sembra che ne prevalga una sola, la quale asseconda la generale tendenza all’uso del turpiloquio nel linguaggio quotidiano e comune». Forse si potrebbe ripartire già da qui.