In un’intervista rilasciata al Giornale del Popolo, il direttore del Festival del Film ha manifestato il suo interesse a coinvolgere i giovani: «Mi piacciono i film di genere e penso possano incontrare il pubblico dei più giovani. Vorrei capire come poter catturare quella fascia di pubblico tra i 18 e i 25 anni. Ci sarebbe bisogno di più formazione permanente per i ragazzi, che si riversano su Locarno soltanto la sera a bere birra, in modo da farli arrivare a vedere i film. Per questo ritengo essenziale che ci sia il grande cinema che ci fa sognare e emozionare in Piazza». Non so fino a che punto l’accenno all’accoppiata giovani-birra sia stata indotta dall’intervistatrice o sia uscita dalla bocca di Olivier Père, ma non importa. Il discorso sulla formazione dei giovani non è nuovo, né originale. Tutto sommato la stessa considerazione la possono fare direttori di musei, di biblioteche, di rassegne musicali. Ai tempi in cui il Festival si trasferì dalle sale autunnali alla Piazza Grande estiva, mi ci ero immerso per una decina d’anni con passione, prima da giovane studente, poi da insegnante magari un po’ velleitario qual ero. Al Festival, appuntamento imperdibile, ho fatto di tutto, dallo spettatore al fotoreporter, dalla maschera al critico cinematografico. Per me, come per altri coetanei, il Festival era come andare all’università, grazie alle sue variegate proposte, ma soprattutto perché il cinema lo seguivo con amici di età diverse, conosciuti all’entrata delle sale o sotto i portici: un bagno intergenerazionale che mi ha insegnato molto e mi ha fatto amare il cinema e la speculazione intellettuale. Scrissi una volta, in quegli anni, che si sarebbe dovuto insegnare il cinema a scuola. Fui malmenato pubblicamente e brutalmente da uno dei più noti polemisti ultra-conservatori dell’epoca. Nel contempo il compianto Alberto Farassino, critico di Repubblica e acuto saggista, mi aveva fatto notare che se per imparare a suonare la tromba era necessario fare un po’ di pe-re-pè tutti i giorni, per conoscere il cinema bisognava frequentarlo con assiduità.
Quella era indubitabilmente un’epoca diversa, anche se non riesco a credere che i giovani che seguivano il Festival fossero di più rispetto a oggi. Potrei dire che i frequentatori sessantenni e settantenni di oggi allora erano giovani: ma rispetto ai numeri dell’attualità, quello degli anni ’70 era un Festival per poche migliaia di estimatori un po’ stravaganti – ad eccezione delle tradizionali serate coi film italiani in Piazza, che trasformavano l’acciottolato in un raffazzonato tappeto rosso, sul quale sfilavano politici e affini. Resta il problema della formazione dei giovani, cinema o meno. Credo che il cinema, al di là dei suoi peculiari aspetti semantici, possa essere usato a scuola come formidabile strumento didattico per affrontare molte questioni fondamentali. Ma non può diventare un comodo e illusorio espediente per riempire tutti i vuoti. La perfetta padronanza della propria lingua, condizione imprescindibile per pensare, accanto a una maggior presenza delle discipline umanistiche all’interno della scuola rappresentano senz’altro un valido strumento per innamorarsi del cinema (della musica, della letteratura, della pittura, …) e – perché no? – per allontanarsi dalla separazione schematica tra chi va al Festival e chi beve birra. Non credo, in altre parole, che occorrano i film accalappia-giovani per portare i birraioli in Piazza (e poi a che servirebbe?). Ben vengano studenti e apprendisti che desiderano vivere giorno dopo giorno la formidabile occasione del Festival, in un’indigestione di cinema e di discussioni a volte accanite. E, in quest’ottica, ben vengano proposte originali come «Cinema e gioventù» o «Castellinaria», giustamente sostenute dal DECS. Resta però urgente sviluppare la cultura generale dei giovani, pre-requisito irrinunciabile affinché la schiera dei cinefili s’infoltisca e diventi sempre meno di nicchia: non solo per il Festival in sé.