Tra i vari moralismi che contraddistinguono uomini di scuola ed educatori in genere c’è quello secondo cui videogiochi, playstation, game boy e via anglofonando, istupidiscono i cervelli in formazione e che tali passatempi andrebbero banditi dalle lettere a Gesù Bambino. Il periodo natalizio è da molto tempo terreno prolifico per la crescita di tale perbenismo pedagogico: dato che il Natale della nostra infanzia non esiste più – quello dei mandarini e delle spagnolette, della neve e del sentirsi buoni – è comodo prendersela genericamente col Consumismo, con la specifica accusa ai genitori di inchinarsi ai voleri della pubblicità e di non pensare con la propria testa.
Intanto è doveroso se non altro dubitare che chi demonizza i giochini elettronici, non necessariamente li conosce. Senza voler sciorinare l’apologo del game boy – “Madamina, il catalogo è questo!” – bisogna pur dire senza mezzi termini che esistono videogiochi e videogiochi; e, d’altronde, non è che le bambole nere e crespe d’un tempo fossero così politicamente corrette: per quanto ne so, facevano molto faccetta nera.
Al proposito mi viene in mente una “Lettera a mio figlio” che Umberto Eco pubblicò nell’indimenticabile “Diario minimo” una quarantina d’anni fa. In quella missiva Eco – in piena epoca di furore pacifista – proclamava la sua volontà di regalare armi al proprio figliolo, e ne tracciava un elenco se possibile esaustivo: nel tempo in cui Montessori e i suoi epigoni erano politicamente corretti ante litteram, il futuro padre del Nome della rosa si schierava apertamente dalla parte della colt e dell’archibugio: per dire che l’arma giocattolo è solo lo spunto di un gioco, e che naturalmente lui avrebbe giocato con suo figlio, acquattato nelle langhe per scovare un repubblichino oppure al galoppo nelle praterie americane, al fianco dei pellerossa contro gli uomini del generale Custer.
Oh sì, è vero, anche Eco aveva le sue idiosincrasie e così, nel medesimo saggio, intravedeva nel meccano ciò che noi, pedagoghi del 2000, cogliamo in certi giochini elettronici: chi costruiva una gru col meccano, secondo lui, era un aspirante Eichmann, pronto a schiacciare il bottone della morte e ad eliminare migliaia di diversi in un sol colpo.
È insensato stare a sindacare sui giochi positivi e su quelli negativi, perché non esistono giochi bianchi e giochi neri. Ad esempio, il film della Disney “Biancaneve e i sette nani”, una pellicola con scene gotiche al limite dell’horror, all’anagrafe risulta nato nel ’38: lì ci sono scene truculente, avvelenamenti, odî profondi e pazzeschi. Sarebbe nondimeno inquietante credere che i giovani testimoni di Biancaneve ne traessero improbabili turbe psichiche e insanabili patologie. È un vizio tutto odierno quello di tutto controllare, e inquisire insieme la realtà e le intenzioni: no, non esistono giochi buoni e giochi malvagi, mentre sempre più vengono a mancare le occasioni per giocare.
Basta osservare una qualsiasi madre dei mammiferi più evoluti: mamma gorilla, che ha quasi sempre solo figli unici da accudire, non li abbandona mai, il suo occhio è sempre vigile. E gioca spesso con il piccolo, perché il suo istinto sa che attraverso il gioco suo figlio crescerà come individuo adeguato. Noi genitori del 2000, invece, tendiamo sempre più a delegare a qualcuno l’educazione dei nostri figli e crediamo che con internet svilupperanno la loro enciclopedica conoscenza del mondo, mentre attraverso i videogiochi prenderanno confidenza con le moderne tecnologie. E ci stupiamo, di fronte a questo figlio che da del tu alla tastiera del computer, mentre noi siamo già a disagio con le istruzioni del microonde. Niente di tutto questo, perché nella solitudine non si cresce.
Sarà colpa della crisi che obbliga le coppie a turni lavorativi brutali; sarà il consumismo che esige le sue vittime sacrificali; sarà l’imperversare dei figli unici: ma c’è solo un regalo che è buono e puro di per sé: giocare con qualcuno. Tutto il resto è solo ipocrisia.