«I mondi esistenti della scuola»

Su La Regione Ticino del 26 giugno Daniele Dell’Agnola – scrittore, musicista, docente al Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI, insegnante di scuola media – ha pubblicato un breve articolo che, almeno apparentemente, sembra limitarsi a raccontare gli ultimi giorni dell’anno scolastico con un gruppo di suoi allievi di II e di IV media. L’articolo, intitolato I mondi esistenti della scuola, è interessante per diverse ragioni, ma anzitutto perché riflette una realtà della scuola media che non corrisponde per nulla ai mondi normalmente e diffusamente noti. E, caspita!, esistenti.

Questo breve «diario» restituisce dapprima l’autorevole tensione etica dell’insegnante, che dura in maniera intelligente fino al suono dell’ultima campanella, quella del «Sciogliete le righe!». Siamo insomma lontanissimi da quel clima da tira a campare che caratterizza la fine dell’anno scolastico in gran parte degli istituti: tanto le note son già state depositate e allora conviene svagarsi.

«Io non sono qui per avere ragione», dice l’insegnante a un’allieva quindicenne, dopo aver interpretato al meglio il suo ruolo «di generatore di conflitti produttivi»: ciò che ci riporta dritti dritti alla necessità che l’insegnamento scolastico forgi teste ben fatte, anziché rifugiarsi nello stupido intento delle teste ben piene…

C’è poi la cronaca della parte finale di un lungo percorso sulla lettura dei classici, iniziato in settembre e che ha avuto il suo apice con una rappresentazione teatrale a fine anno. Qui si inserisce l’episodio, per certi versi drammatico, di quell’allievo che «disturba da mesi il lavoro del gruppo e dimostra un atteggiamento distruttivo».

«A due giorni dal debutto – annota Dell’Agnola – privo di strumenti pedagogici, spaesato, alzo la voce. Il ragazzo sta agendo in modo preoccupante. Gli chiedo di seguirmi. Ci sediamo. Gli spiego che non potrà recitare».

Alla fine quel ragazzo resterà escluso dalla recita, ma non dal gruppo. Forse in un altro contesto sarebbe stato allontanato diversi mesi fa, preso a carico da qualche servizio designato al contenimento e alla terapia dei famosi «casi difficili».

Mi è sembrato giusto conservare e mettere in evidenza questo bel modo di interpretare la scuola media, che è scuola obbligatoria: perché costruisce conoscenze e cultura, e nel contempo genera educazione. Chissà? Magari se tutta la scuola obbligatoria fosse sempre così umanista, anche i mondi impossibili diverrebbero un po’ più vicini.

Di seguito, dunque, ecco integralmente l’articolo di Dell’Agnola (mi sono preso solo qualche piccola libertà grafica).


«Siamo in quarta media, a un passo dal mondo della realtà e non abbiamo più tempo per favole, perché la fantasia non è all’altezza della realtà». Così scrive una quindicenne, riflettendo in modo critico durante un’attività di analisi del testo che ha coinvolto alcuni allievi, lettori obbligati del «Cavaliere inesistente» di Italo Calvino.

«Credevo fosse la realtà, a non essere all’altezza della fantasia» replico, dopo aver letto il testo della ragazza ad alta voce, di fronte alla classe.

«Sì, ho sbagliato, ha ragione lei» conclude, cercando di non tirarla per le lunghe.

Insisto nel dibattito, gioco la mia parte di generatore di conflitti produttivi e apro le Filastrocche in cielo e in terra di Rodari. «La scuola dei grandi» recita così:

Anche i grandi a scuola vanno / tutti i giorni di tutto l’anno.

Una scuola senza banchi, / senza grembiuli né fiocchi bianchi,

e che problemi, quei poveretti, / a risolvere sono costretti:

In questo stipendio fateci stare / vitto, alloggio e un po’ di mare.

La lezione è un vero guaio: / Studiare il conto del calzolaio.

Che mal di testa, il compito in classe: / C’è l’esattore, pagate le tasse.

Ci vuole fantasia, le spiego, anche per descrivere la realtà. I ragazzi mi osservano come se fossi un extra terrestre.

«Le ho detto che ha ragione lei».

«Va bene, ma io non sono qui per avere ragione».

L’episodio è interessante, perché tocca la sensibilità di una ragazza che sta scegliendo un sentiero percorribile dopo la scuola dell’obbligo, con pensieri e ragionamenti apparentemente aggrappati alla concretezza del vivere, ma con un bisogno malcelato di volare via, ribelli sopra una mongolfiera lanciata nell’impossibile.

Il giorno dopo sono impegnato in un lavoro teatrale, germogliato dalla lettura di classici della letteratura, proposti ai più piccoli allievi di seconda media e condivisi grazie ad un’attività di analisi e confronto degli eroi, in seguito rappresentati sul palco in una storia che ancora Rodari definirebbe «insalata di trame».

Un ragazzo disturba da mesi il lavoro del gruppo e dimostra un atteggiamento distruttivo. A due giorni dal debutto, privo di strumenti pedagogici, spaesato, alzo la voce. Il ragazzo sta agendo in modo preoccupante. Gli chiedo di seguirmi. Ci sediamo. Gli spiego che non potrà recitare. Da gennaio a giugno, seguendo un doposcuola che si è svolto dalle 15.30 alle 17.00 e un fine settimana trascorso in montagna, con nove ore di prove teatrali, ha davvero ostacolato la costruzione dello spettacolo. Sostiene di essere in grado di recitare e di rispettare gli altri. Mantengo la mia posizione. Presenterà in modo impeccabile la serata e preparerà i ringraziamenti finali, senza «stare nella storia», ma rimanendo nel gruppo.

A questa realtà va aggiunta una considerazione conclusiva, scritta da due allievi che hanno partecipato alla messinscena di una pièce sulla quale sembrava impossibile scommettere.

«Buongiorno, oggi vi voglio raccontare l’emozione che ho provato di fronte al pubblico: durante la mia prima scena mi sono sentito molto emozionato, ma soprattutto nervoso. Ero solo e mi ritrovavo da solo a dover dire con una scatola in mano: “Allora! Nessuno che mi aiuta a portare dentro le scatole”? Ad un tratto, una marea di gente che mi guardava. (…) Credo che se un giorno decidessi di diventare attore, sono sicuro che la sensazione che ho provato sarà meno forte e meno bella della mia prima volta sul palco».

«Io ho interpretato il ruolo di Cosimo di Rondò (il Barone rampante): il mio personaggio serviva, nello spettacolo, a rompere la quarta parete e quindi a renderlo più interessante».

Si conclude così un altro anno scolastico tra scritture, letture e ricerche, salutato da solchi di realtà, bisognosi di mondi impossibili.

3 commenti su “«I mondi esistenti della scuola»”

  1. Ciao a tutti,
    l’esperienza di Paolo dimostra quanto sia difficile portare avanti davvero dei progetti teatrali, perchè il docente si addentra in un ambito nel quale agisce con intuito, senza avere basi professionali solide. Forse la docente avrebbe dovuto tentare un lavoro molto più ridotto ma sensato. A volte il percorso svolto è significativo almeno quanto il risultato finale (se non di più).
    È però importante che il teatro sia occasione di apprendimento e che non sia percepito dalla maestra come un attimo di svago. Il teatro è un gioco molto impegnativo. Io molto spesso ho chiesto aiuto a attrici o registe, per realizzare progetti che mi hanno arricchito.
    Un caro saluto e grazie per aver valorizzato le mie riflessioni, Daniele

  2. Ricordo ancora quando una nostra docente delle Medie ha organizzato una recita scolastica: per finire non è andata in scena per manco di organizzazione da parte sua (visto che ha preteso che lo spettacolo si svolgesse a ottobre dell’anno dopo, quando la maggioranza del gruppo già avrebbe finito le scuole dell’obbligo).

    1. Non ricordavo l’episodio citato da mio figlio Paolo. Invero le cose sono andate peggio di così. All’inizio della III media la Professoressa propose un’attività teatrale opzionale ad allievi di III e IV media. L’idea era di allestire l’azione scenica in sette quadri, con un prologo e un epilogo, «La favola dei saltimbanchi», un’opera teatrale di Michael Ende: mica bruscolini, insomma.
      Paolo s’iscrisse con entusiasmo. Toh!, mi dissi io, finalmente una proposta di grande valenza culturale e educativa, finalmente fuori dagli schemi quotidiani della scuola media.
      Cominciarono le prove, naturalmente a orari inusuali, di tanto in tanto sabati e/o domeniche comprese. Capitava che durante la fine settimana la famiglia restasse bloccata, perché erano in programma delle prove. Che magari (cioè: quasi sempre) non avevano luogo, perché mancavano alcuni attori.
      S’è andati avanti – si fa per dire – per un po’ di mesi, senza che le prove di lettura si trasferissero su un palco, seppur improvvisato, senza che si intravedessero una scenografia, dei costumi, una data per il debutto. Insomma, un progetto nato fiacco e proseguito ancor più fiaccamente, benché qualcuno l’avesse finanziato (immagino: credito d’istituto e balle varie).
      Così, a un certo punto, alla Professoressa venne l’idea geniale: «La favola dei saltimbanchi» sarebbe debuttata l’anno seguente, in autunno. Come se non fosse stato subito chiaro che gli allievi di IV, più di mezza compagnia, non si sarebbero più visti. E allora come rimediare all’irrimediabile flop? Con una bella gita in quel di Avignone, dove, com’è noto, c’è un ponte sul quale l’on y danse, l’on y danse, l’on y danse tous en rond (ma non si va in scena)…
      Insomma: nessuna ricaduta culturale, né educativa.

      P. S.: anche a me era capitato un episodio simile, 30 o 40 anni prima. In II o III ginnasio il Professore propose la messa in scena di una straordinaria opera di Carlo Goldoni, «Il ventaglio». Una robetta semplice semplice. A me toccò una particina, il barone del Cedro. Mi toccava la seconda battuta: a Evaristo che mi chiedeva «Che vi pare di questo caffè?», rispondevo «Mi par buono». Poi sparivo fino alla scena IV.
      Settimana dopo settimana ci ritrovammo attorno a un quadrato di banchi, noi attori in pectore agli ordini di questo Strehler dei pirla, anche se l’unico pirla era lui, quell’infame, becero e infingardo. Anche nel nostro caso non ci staccammo mai da quei banchi. Passammo mesi a ripetere Che vi pare di questo caffè? Mi par buono. Non so nemmeno se arrivammo a leggere il copione fino in fondo. So però che, anche in questo caso, non calcammo mai le tavole d’un palcoscenico, nessuno menzionò costumi o scenografie o una data per il debutto.
      E non andammo neanche ad Avignone. Altri tempi, stesse puttanate.

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