Il presidente dei giovani liberali radicali ticinesi ha scritto nei giorni scorsi, riferendosi all’iniziativa dei Verdi che propone di abolire i famigerati livelli della scuola media, che nutre «dubbi nell’ideologia che vuole dipingere gli individui tutti uguali e senza differenze nel processo di apprendimento»; nel contempo continua a professare la sua fede «nella scuola pubblica e laica». Non è chiaro cosa c’entri, in questo contesto, il carattere pubblico e laico della scuola col resto del discorso. Qualche giorno prima un parlamentare di area liberale, praticamente un parente politico di quell’altro, aveva chiesto una sorta di «Vaticano II per la scuola pubblica», perché «nella scuola pubblica già oggi non c’è un’unica velocità di crociera, ma ci sono velocità e qualità diverse». Toh: detta così sembra una novità tutta contemporanea. Certo che, nella scuola privata, tutti pedalano in gruppo, a buona velocità. Così si evitano discussioni. Forse è necessario chiarire un paio di cose. A chi è contrario a certe selezioni precoci messe in atto dai sistemi scolastici non passa per la testa che tutti siano identici e imparino allo stesso ritmo e con le medesime modalità. Sarà banale ricordarlo, ma il processo di crescita di una persona è influenzato da un’infinità di variabili e anche da una buona dose di fatalità: c’è chi nasce con la camicia e chi nudo come un verme, chi vede la luce all’ombra dell’ateneo e chi nel ghetto. La camicia o la nudità non generano il quoziente intellettivo. La storia della scuola è costellata di donne e uomini che hanno saputo differenziare il loro insegnamento per rispondere alle diversità dei loro allievi. Anche oggi, nella nostra scuola, vi sono Insegnanti che sanno diversificare la loro azione quotidiana e raggiungere magnifici livelli di istruzione e di educazione, senza nascondersi dietro i comodi alibi dei livelli, della burocrazia di Stato che tende ad appiattire, dei troppi allievi, dei genitori protettivi e bellicosi e, a volte, delle scarse risorse finanziarie.
Una scuola in cui si insegna sul serio e si ottengono risultati elevati è possibile: e non solo in Finlandia. Richiamando proprio il paese dei mille laghi è quasi automatico rammentare che c’è una differenziazione che l’insegnante deve mettere in atto tra le quattro mura dell’aula e c’è un’altra differenziazione, altrettanto se non più importante, che sarebbe compito dello Stato. Prendiamo il sostegno pedagogico, quell’utile servizio per rinforzare l’azione degli insegnanti titolari alle prese con quegli allievi che si ritrovano agli estremi della curva di Gauss. Lo Stato assegna delle unità di sostegno pedagogico agli istituti su basi quantitative: tot sezioni o allievi, tot docenti di sostegno. L’applicazione della norma è tutta quantitativa: si dà per scontato che la proporzione di allievi che richiede quel servizio è costante in ogni sede scolastica. Lo stesso discorso vale per il numero massimo di allievi per classe, che sul medio termine sarà quasi certamente ritoccato verso il basso. Non servono conoscenze straordinarie per sapere che le cose non stanno così. In realtà siamo di fronte a un’organizzazione scolastica almeno un po’ miope, che ruota attorno al presupposto che i diciannove allievi di una classe pongono i medesimi problemi e richiedono le stesse attenzioni in qualsiasi sede, da Barbengo a Camignolo ad Ambrì. Lo Stato, per farla breve, se ne fa un baffo delle diversità sociali, culturali ed economiche. Questo modo ostinato di fingere la messa in atto delle leggendarie «pari opportunità» diventa così la prova lampante dell’indifferenza alle differenze, un’attitudine ipocrita già denunciata negli anni ’60 dal sociologo Pierre Bourdieu. E fa venire in mente una vignetta senz’altro iperbolica. Vi si vede un maestro, seduto alla cattedra, davanti a una classe un po’ speciale: un corvo, uno scimpanzé, un marabù, un elefante, un pesce rosso nella sua boccia di vetro, una foca e un cane. «Bene – dice il maestro – adesso facciamo un esercizio: il compito è uguale per tutti. Arrampicatevi sull’albero».